Don Matteo 9
Mario, come è stata la tua esperienza di giurato al recente Roma Fiction Fest?
Esperienza positiva, molto leggera anche, perché con gli altri giurati ci siamo incontrati due volte. ma eravamo già tutti d’accordo sui premi. E intendo sia su Gomorra, come lunga serialità, che su Altri tempi, come miniserie.
Caso di unanimità o povertà di alternative?
Gomorra si stagliava sugli altri per la novità e l’impatto, per il linguaggio televisivo spostato in avanti, insomma, non premiarlo sarebbe stata un’assurdità. Io l’ho detto sul palco a Freccero, meglio essere scontati che stupidi. Stupidi è soltanto un sinonimo del vero termine che ho usato quel giorno.
La menzione è stata una sola perché non volevamo dar l’idea che fossero premi di serie B. E siamo stati d’accordo nel voler premiare una miniserie, perché lo riteniamo ancora un modello valido. La realtà, però, dice che è una tipologia fortemente a rischio, perché molti sostengono che la miniserie sia ormai troppo costosa, i budget si riducono ed è diventata anche di difficile collocazione nel palinsesto.
Che ne pensi della polemica che ha anticipato il festival tra il direttore Carlo Freccero e l’ad di Lux Vide, Luca Bernabei?
La prendo alla lontana. Farei una riflessione sulla televisione generalista italiana. Se tu guardi i due prodotti, che vanno di più in Rai, sono nati nel 1999, e sono Montalbano e Don Matteo. Ecco, il problema è questo. Se di colpa si può parlare, di chi è la colpa se dopo tutti questi anni le due serie vanno ancora? Il problema non sono loro, che sono dei prodotti onesti e fatti a regola d’arte, e la longevità lo dimostra. Il problema è quello che c’è in alternativa a loro, o meglio, quello che avrebbe dovuto essere l’alternativa a loro. Perché è evidente che non si è riusciti a creare delle valide alternative a questi due prodotti. Il problema è questo. E il problema sono anche le istanze di quelli che vogliono fare prodotti alternativi, ma alla riprova dei fatti, non riescono quasi mai ad intercettare il pubblico come invece fanno ancora queste due serie qui. E in questa esperienza fallimentare metto dentro tutte le figure professionali, dagli editori ai produttori, fino a noi autori.
Restiamo in famiglia. Che cosa imputi agli autori?
Si possono fare delle cose nuove, ma si deve anche fare in modo che piacciano al pubblico. Non solo a noi stessi. Anche a me piaceva Nip and Tuck, ma so benissimo che non posso farlo su Rai Uno. Anche perché c’è sempre l’equivoco di mischiare i prodotti stranieri per la cable con quelli generalisti. E poi c’è un altro aspetto, positivo questo. Ed è la consapevolezza che gli 8 milioni di Montalbano non sono gli stessi di Don Matteo, per cui ci sono pubblici diversi, uno più famigliare, l’altro fatto più di adulti single. Un vasto bacino di pubblico, quindi, ci dimostra di esistere, e resistere e va intercettato. Questo è il problema.
La fase di ideazione, nel nostro mercato, è un altro grande problema. Non si producono piloti, non se ne scrivono neanche, le idee raramente girano dalla parte degli scrittori. Che ne pensi?
Penso che sia vero. Ma penso anche che ha ragione Daniele Cesarano quando in un recente panel disse che un’idea, per avere una sua originalità, deve mantenere un nucleo di identità forte che deve essere difeso. E raramente, oggi in Italia, questo succede. Quando vai a confrontarti con un network – lo sappiamo tutti – l’idea originale comincia a sfaldarsi pian piano, una sorta di stillicidio di una invenzione. Le serie che invece hanno funzionato di più e lo hanno fatto durante il corso di molteplici stagioni, sono tutte serie che nascono e rimangono attaccate ad un’unica idea originale di fondo. Don Matteo funziona così. Anche Distretto di Polizia funzionava così.
E come si fa ad imbastire una difesa del genere?
Bisognerebbe che i registi, gli sceneggiatori e qualche produttore, si mettessero insieme per la difesa dell’idea. Una cosa è certa: lo sceneggiatore non può farcela da solo.
Più che un blocco contrattuale tra colleghi all’interno di una singola serie, quindi, più che un blocco sindacale a livello di categoria, propenderesti per un blocco artistico su larga scala?
Ti faccio e mi faccio una domanda. Quanti sono i registi che lavorano in tv in Italia?
Non più di 15.
Ecco. Potrebbe essere facile metter su questo blocco. Sulla carta, i numeri ci dicono che sarebbe facile. Ma fino ad ora non è mai successo. O forse quasi mai.
Nel nostro mercato ci sono dei produttori che hanno un marchio riconoscibile. Prendi i prodotti della Lux, i prodotti di Valsecchi, o quelli di Degli Esposti. Li riconosci subito.
Ecco, se lo sceneggiatore porta un’idea, un’idea forte, deve esserci qualcuno che lo tuteli. E queste persone, per me, sono nell’ordine il produttore e il regista.
Come è cominciata la tua carriera di sceneggiatore?
Laureato in Filosofia, ho fatto un corso di scrittura creativa alla Cattolica, corso sulla scrittura televisiva, sono entrato in Lux come stagista, poi come story editor, e sono stato promosso a riscrivere quando bisognava riscrivere, poi ho cominciato a fare il soggettista e alla fine anche lo sceneggiatore. Tutto rigorosamente all’interno della Lux. Ma la vera svolta è arrivata alla settima stagione di Don Matteo, quando io avevo 33 anni e mi hanno promosso capo scrittura. Mi hanno detto, ora scriverai il soggetto di serie (ndr: le linee orizzontali di quella stagione), le prime puntate di ogni stagione nuova e farai il polish finale. Qualcuno ha creduto in me ed eccomi qua.
Come si lavora a Don Matteo?
Quando sono entrato io, la serie era ancora molto cinematografica, cioè tutte le puntate erano puramente verticali, strutturate come piccoli film. Tanto che le potevi mandare in onda senza ordine. Verticalità pure. Ed eran quasi solo gialli. Con della commedia affidata a Nino Frassica e Flavio Insinna.
Piano piano il gruppo di scrittura lo ha portato verso l’orizzontalità. E adesso è una serie orizzontale pura. È stato un processo lento che è andato di pari passo con il cambiamento della televisione. Sono entrate le linee sentimentali e poi le linee teen. Oltre che la commedia.
Si è diffusa l’importanza del target, soprattutto la sua multiformità. E infatti oggi con Don Matteo si punta a prendere ben tre pubblici diversi. Nel bene e nel male il processo evolutivo della serie è stato questo. Dico nel bene e nel male perché comunque abbiamo creato un ibrido di generi. Che non è assolutamente replicabile per nessun’altra serie. E infatti, secondo me, quando si è cercato di replicarlo su altri prodotti, non ha funzionato.
Come nasce una stagione di Don Matteo?
Partiamo dal soggetto di serie (ndr: sempre linee orizzontali di stagione…), io e altri due sceneggiatori. Io sono fisso, gli altri variano di anno in anno. Stabiliamo le linee orizzontali. Più o meno suddivise per episodi. Ci sono nuovi personaggi? Bene, scriviamo come li immaginiamo. Come entrano nella serie. Che archi narrativi hanno. Quali sono i conflitti di base. Che sono poi i generatori di storie all’interno della stagione. E poi organizziamo il finale. Che però arriva davvero quasi solo alla fine.
Che intendi?
Intendo che dopo le linee, si suddivide il materiale e si dividono i compiti. Facciamo tre blocchi da 8 episodi e si comincia a scrivere.
Prima i soggetti, poi le sceneggiature e poi si gira.
Mentre si girano gli episodi, noi continuiamo a scrivere. Mentre tu scrivi vedi già il materiale e capisci cosa funziona e cosa no, aggiusti il tiro su tutto, anche sui personaggi, sugli attori che vanno, insomma valuti tutte le alchimie necessarie.
Lavorate su un tema per ogni stagione?
No, se intendi un tema unificante no. Nella stagione 7 però, come dire, è successo qualcosa di simile: abbiamo scelto un tema principale che poi ha ispirato anche gli altri. Era il periodo in cui aveva avuto successo il film Juno e su Mtv andava fortissimo “16 anni incinta”. E noi il tema delle ragazzine madri lo abbiamo scelto per tutta la stagione.
Questa è stata una intuizione di chi?
Del gruppo di scrittori all’interno della Lux.
Quindi niente analisti di mercato, niente studi a tavolino?
No, niente di niente. L’idea era quella di avere una ragazzina incinta che odiava i preti. E su questa idea abbiamo fatto un arco per tutta la stagione. Declinandolo comunque all’interno dei canoni della generalista.
E in quanti siete?
5 0 6. Io scrivo il primo o il secondo episodio, poi torno sui copioni solo alla fine quando faccio il polish di tutto, per l’uniformità complessiva. La parola showrunner è forte, però ci avviciniamo a qualcosa di molto simile. Solo che non sono da solo, ma insieme ad un gruppo di sceneggiatori e story editor che segue tutto il processo di produzione, anche quello di postproduzione.
C’è una writers’ room?
Sì, la chiamiamo la Stanza di Don Matteo.
E raccontaci che succede lì dentro…
Si sta quotidianamente dietro ai tempi della produzione televisiva della serie. E quindi si fa di tutto. Io, per esempio, è lì che scrivo, ed è da lì che parto per andare in montaggio, sul set o a fare casting. Questo serve a tutti, anche a noi sceneggiatori, perché salgono sulla macchina sin dall’inizio e non quando è già in corsa, si responsabilizzano molto di più, perché vivono immersi nei problemi della serie.
La cara vecchia catena di montaggio.
Siamo industria. Una società ha bisogno di un budget standard, annuale diciamo. Perché sono società. Vale per la Lux così come anche vale per la Rai. Esiste quella cosa chiamata fatturato e in base a questo si programmano le attività. Questa cosa è molto normale in tv ma sta succedendo anche al cinema, dove due tre società – penso alla Cattleya e Indiana, i primi che mi vengono in mente – decidono di fare un minimo di tre film all’anno e si organizzano per avere dei budget appropriati. E da quei numeri non si scappa. Perciò gli sceneggiatori in questo modo imparano a stare al passo con le esigenze dell’industria.
E poi ci sono le eccezioni. Che vanno tutelate. Penso a Sorrentino, che non rientra in un panorama industriale, sia lui che la società che lo produce. Ma vanno tutelati ugualmente. Sempre nel nome dell’offerta più ricca possibile.
Ti piace di più fare l’editor o lo sceneggiatore?
Lo sceneggiatore, senza paragoni. Parlo di piacere puro della scrittura.
Tutti quelli che hanno scritto per Don Matteo dicono che è una faccenda per nulla semplice.
Nel 2004 scrissi un manuale ad uso interno su come si scrive Don Matteo. Perché è vero quello che si dice, Don Matteo è difficilissimo da scrivere. Molto semplicemente, perché ci sono delle regole da rispettare, dei paletti fondamentali cui non puoi ovviare. La serie funziona in una carta maniera e bisogna saper scrivere in funzione di questo.
Puoi spiegarcelo più nel dettaglio?
Allora, c’è la linea gialla, e sono minimo dieci punti – teaser, scena del crimine, richiesta d’aiuto, come Don Matteo entra nella storia, non essendo un poliziotto ci entra per un aspetto umano e quindi bisogna sempre inventarlo, poi bisogna pensare che la meccanica della detection non ci interessa molto, interessa la storia dietro la detection, quale è la storia dell’uomo morto? E perché interessa a Don Matteo? Quale è il rilancio del giallo, cioè Don Matteo scopre che il sospettato non è l’assassino, la soluzione del giallo che deve arrivare da una soluzione dei carabinieri sì ma imboccati da Don Matteo. E fin qui solo la linea gialla.
Perché a tutto questo vanno aggiunte una linea di commedia e una sentimentale. Alla fine dell’episodio arriva sempre il momento della redenzione. Che è assolutamente necessario, centrale direi. “Giallisticamente” è uno “spiegone”, ma quello che ci interessa di più sono le sue motivazioni più profonde. E lo spettatore deve comprenderlo emotivamente. Non sarebbe il caso di un serial killer, o di un caso in altro modo patologico, perché lì non c’è nulla da capire, nulla di emendabile. Si deve arrivare alla motivazione umana, che diventa la chiave di tutto il racconto. La bravura sta nel rispettare queste regole mostrando dell’originalità.
Come funziona Mario Ruggeri sceneggiatore?
Lavoro in un processo industriale e quindi mi sento uno scrittore industriale. Nel fine settimana, scrivo le sceneggiature, principalmente di sera, anzi di notte. Ed è il momento in cui lavora la mia parte creativa. L’ispirazione viene e va ma è dura da programmare. Quindi di notte, nel silenzio, mentre la famiglia dorme, guardo molta televisione e scrivo. Sono nato davanti alla tv e continuo a frequentarla assiduamente.
Sei stato quello che io chiamo un bambino catodico.
Assolutamente. La cosa curiosa è che oggi che sono grande, guardando la tv mi vengono in mente idee per i miei lavori di tv. Detto questo, credo a quello che diceva Borges, e cioè che le storie in tutto sono 4, vanno solo declinate. E così succede sempre. Per esempio, una volta abbiamo sviluppato una storia che partiva da American History X ed è finita nella serie. Oltre a guardare tv, guardo molti film e leggo libri. Ecco, la parte creativa per me diventa scaricare tutto quello che ho caricato in settimana al lavoro e nel tempo libero.
Per la parte non creativa, invece, ho bisogno del casino. E, quindi, l’ufficio mi è assolutamente congeniale. Vado a vedermi una puntata, vado in montaggio, mi confronto con gli altri, faccio un casting, e scrivo, o correggo, tutto nel marasma.
La WGI difende una categoria che in Italia è molto poco tutelata e riconosciuta. Cosa ne pensi?
Un passo avanti nel riconoscere una categoria fatta di scrittori e non di atomi che si muovono liberamente nell’aria. Ma non essendoci tanti sceneggiatori, non essendoci tanti registi, penso che bisognerebbe trovare un modo per stare tutti insieme. Le prime battaglie della WGI sono state importanti perché sono pragmatiche e mi sento una persona molto pragmatica.
Diritto d’autore. Ti senti tutelato?
Io vivo in un’isola felice. Don Matteo ha una regolamentazione contrattuale che mi soddisfa molto.
Ci regali una scena di Don Matteo? E ce la commenti?
Eccola: ScenaScintillioMarioRuggeri. Apparentemente si tratta di una scena che non dice un gran che… ma se vi immaginate che Pietro sia interpretato da Terence Hill/Trinità, per me le cose cambiano. Ho avuto la fortuna di lavorare e scrivere per Terence Hill… il mio mito di quando ero bambino. Quindi aver potuto riportare Terence Hill/Trinità a fare una scena western, mi ha dato quella gioia nello scrivere e quello “scintillio” che dovrebbe guidare sempre (o spesso) il nostro lavoro di sceneggiatori tv.