La capacità di far ridere a crepapelle raccontando il nulla
Intervista a Paolo Piccirillo, autore di “No Activity”, serie tv su Prime
È stata rilasciata da poco su Prime e già ha ottenuto molto successo la serie tv No Activity – Niente da segnalare, scritta dal nostro socio Paolo Piccirillo con Laura Grimaldi, Stefano Di Santi e Pietro Seghetti, diretta da Valerio Vestoso e prodotta da Groenlandia. Nel cast, il gotha della comicità italiana. Si va da Diego Abatantuono a Rocco Papaleo, poi Carla Signoris, Emanuela Fanelli, Alessandro Tiberi, Fabio Balsamo (The Jackal), Maccio Capatonda, Francesco Pannofino e due insospettabili: Luca Zingaretti e Tommaso Ragno. Per non parlare delle outsider Marcella Bella e Lorella Cuccarini. Un pout purri che di primo acchito appare inconciliabile e scisso, pronto a sorprendere invece per la forza deflagrante, pronta ad esplodere quando meno te lo aspetti.
Allora Paolo, ci racconti com’è nato questo progetto?
La piattaforma Amazon, da Lol in poi, ha capito che il talent comico funziona e dà ottimi risultati. Quindi si stanno orientando tutti i prodotti, scripted o unscripted, in quella direzione. Dalla piattaforma stessa cercano progetti che mettano insieme i vari talent della comicità italiana.
Possiamo dire che questa serie non è la classica commedia contemporanea ma è caratterizzata da una scrittura molto particolare?
È sperimentale, per certi versi. Sì, anche la scrittura è moderna, grottesca, cinica e a tratti surreale. Fondamentalmente la sfida più grande era quella di basare tutto sul fatto che, appunto, non succede nulla e che non succederà nulla è dichiarato fin dall’inizio, dal titolo.
La difficoltà è stata enorme perché è anche un principio contrario a tutte le regole della scrittura!! E devo riconoscere che è stato molto bravo anche il regista, Valerio Vestoso, a dare molto ritmo a tutto.
No Activity è un remake ma di cosa parla, se non accade nulla?
La serie è nata da un format australiano anche se per certi versi è molto diverso dal nostro. In primis per lo stile. Nella versione originaria le scene sono molto più lunghe ed è più dialogato, teatralmente. Mentre noi abbiamo provato a dare un ritmo diverso.
Groenlandia aveva i diritti del format e ha coinvolto me e Laura Grimaldi nell’adattamento del soggetto di serie. Alla base c’è una storia di criminalità contrapposta ad un appostamento infinito e il tutto andava basato in Italia. La prima domanda che ci siamo fatti con Laura è stata proprio sul luogo nel quale ambientare una serie come questa. Perché sarebbe cambiata radicalmente se l’avessimo scritta nel porto di Napoli, Palermo o Genova. Mentre per l’Australia non c’è questa differenza tra i loro vari porti.
Ci siamo concentrati anche molto sul tono e sul modo di parlare dei personaggi. Ci ha colpito il fatto che Groenlandia ci abbia lasciato libertà totale in questa scelta, dandoci come unica linea guida di propendere per il porto nel quale, secondo noi, avrebbe fatto più ridere. Alla fine, dopo tante riflessioni, abbiamo scelto un ipotetico porto di Civitavecchia perché era quasi completamente assente dalle colonne di cronaca dei nostri quotidiani. Pare non accada molto lì: era perfetto per noi che dovevamo scrivere una storia in cui non succedesse nulla!
Mentre scrivevate, nella writing room, ridevate?
Sì, tanto. Fin dal soggetto di serie. Ci faceva ridere l’idea di scrivere una comedy sul mondo del lavoro. Immaginare dei criminali, dei poliziotti e delle centraliniste della sala operativa trattati come degli impiegati. Anche se parlano di carichi di droga, appostamenti o blitz, poi alla fine hanno tutti gli stessi comportamenti, tic e dinamiche tipici di qualunque impiegato in qualunque azienda. Hanno tutti la stessa voglia di uccidere il proprio capo. Questo ci faceva ridere molto.
Poi in una seconda fase di scrittura, quando si sono aggiunti Pietro Seghetti e Stefano Di Santi nello sviluppo degli episodi, facevamo lunghe sessioni di writing room in cui facevamo battute su battute. Ci immaginavamo la scena e provavamo a buttare giù linee di ogni genere. Venivano battute e dialoghi quasi da soli. Visto che è una serie molto parlata, non si può non scrivere esplicitando già i dialoghi.
Come avete organizzato il lavoro nella writing room?
Seguivamo l’andamento dell’episodio. In una prima fase, quando ci riunivamo per realizzare le scalette degli episodi e organizzare il materiale narrativo del soggetto di serie, ragionavamo per linee e poi ognuno di noi si è preso degli episodi. Devo dire che è stato divertente perché queste riunioni sono state varie anche dopo le diverse stesure.
E in generale, con la commedia credo sia molto difficile non scambiarsi idee sui personaggi, gli episodi etc etc. In questo caso c’è stato moltissimo scambio tra tutti noi. Laura conosceva molto bene Pietro e Stefano, mentre io conoscevo solo Pietro ma lavorando insieme – in questo modo – si può dire che siamo diventati amici. Molto amici. È una cosa bella. Ma non riuscirei ad immaginarmi a scrivere una serie comedy così, senza avere simpatia per gli altri autori.
Pensi che passi, in qualche modo, l’atmosfera che si respira nella writing room?
Assolutamente sì! E poi se quando si scrive una serie comedy, l’umorismo dell’altro autore non mi fa ridere, il lavoro diventa un incubo perché invece che far crescere il tono con lo scambio delle battute, le risposte non in linea smosciano completamente l’atmosfera. Si fa molta fatica e non c’è più autenticità. Secondo me è proprio questo ciò che passa: l’autenticità. Devo dire che infatti per noi – e giuro che è vero – per noi le riunioni erano diventati momenti per farsi tante risate tra amici.
Quanto ci avete messo a scrivere tutto? Che tempistiche avete avuto?
Dal soggetto di serie alle sceneggiature definitive, ci abbiamo messo, credo, meno di un anno. È stato abbastanza rapido ma non abbiamo mai corso, tranne negli ultimi tempi prima del set, anche se quello credo sia fisiologico.
Nella writing room eravate in quattro. Avevate tutti già collaborato con Groenlandia?
Io sì perché ho scritto per loro La legge di Lidia Poët. Per gli altri invece è stata la prima volta.
Hai notato dinamiche che ti hanno colpito, nel bene o nel male, rispetto a La legge di Lidia Poët o Blocco 181?
In La legge di Lidia Poët ho scritto un episodio e in Blocco 181 ero nel gruppo di scrittura. Qui invece avevo un ruolo diverso perché con Laura abbiamo fatto anche un lavoro di coordinamento delle sceneggiature, quindi sono stato più attivo in tutte le fasi di sviluppo. Stare nel vivo della scrittura, fino ad andare sul set, è stato indubbiamente più stimolante. Sicuramente avevo più responsabilità ma avevo molto di più il polso della situazione. È stato indubbiamente un momento di crescita professionale per me. Ed è stata la prima volte che mi sono trovato in un progetto in cui c’era voglia di sperimentare qualcosa di diverso. Si vedeva da subito, dal soggetto di serie, che Groenlandia voleva proporre qualcosa di non visto e questo ci ha stimolati molto. Non mi era mai capitato di farlo in una maniera così dichiarata, una vera e propria sfida.
Tu e Laura Grimaldi siete andati spesso sul set?
Qualche volta. Non era facile creare l’alchimia e gestire tanti attori così bravi, tutti insieme. In questo è stato talentuoso il regista, Vestoso, che ha tenuto le redini salde.
Quando andavamo sul set vedevamo che il cast si divertiva proprio. Tanto che gli attori, a volte, si facevano prendere la mano e improvvisavano. A volte non riuscivano ad andare avanti perché ridevano troppo.
Io sono andato sul set anche quando c’era Diego Abatantuono. Sono stati tutti bravissimi ma vedere lui, dal vivo, rimaneggiare e fare suo il testo, è stato emozionante. Ho avuto davanti a me un maestro della comicità che, con una sola mano alzata, faceva ridere. Mantengo vivo questo ricordo.
Mi ha molto colpita la scelta di Zingaretti da ambo i punti di vista. Sia per l’idea di proporlo in un cast del genere che di vedere lui, accettare la sfida e mettersi in gioco. Tu che ne pensi?
Al suo personaggio siamo molto affezionati perché, al di là del fatto che è un poliziotto stanco – nonostante abbia fatto tante cose nella sua carriera – è disilluso e vorrebbe rilassarsi, in realtà nasconde l’enorme crisi esistenziale del maschio di oggi che ha vissuto altre epoche e non sa come reinventarsi né come fare. Ma sa che lo deve fare. In generale, nel cinema o in tv, non è molto raccontata questa dinamica ma riguarda davvero tanti uomini. Penso a quelli che davano per scontati alcuni valori e oggi si trovano spiazzati perché non sanno come fare, né da dove partire. E così partono male e finiscono anche peggio… a vedere il tinder della propria moglie!
E lui si fa aiutare da Tiberi. Siamo abituati a vedere la figura del mentore come saggio, spesso più vecchio dell’eroe e con più esperienza di lui. Qui invece, è il contrario…
Esattamente! E quello è il principale beat comico tra i due. Ovvero che lui si deve affidare ad un altro personaggio che ha mille problemi da risolvere ma è più giovane di lui e quindi conosce meglio come muoversi ai giorni nostri.
Per non parlare di Fabio Balsamo, “lo stagista del crimine”, che ha studiato e si è preparato per entrare nel clan.
Fabio Balsamo ha capito benissimo il personaggio e mi piace come ha interpretato il suo lato satirico. Ormai siamo bombardati da fiction ma anche da vere e proprie docuserie sulla vita dei criminali. E il personaggio che interpreta Balsamo le ha viste tutte. Si è preparato, li conosce tutti. Crede di aver studiato, come se esistesse una teoria dell’essere criminale. È strano perché se sei criminale, uccidi. Invece lui è solo teorico.
Anche nel caso dei criminali di “No Activity” c’è un bel parallelo con il mondo del lavoro.
Abbiamo cercato di farlo con tutti i personaggi, da Toni (Papaleo) a Perri (Fanelli), volevamo fare una grande riflessione sul mondo del lavoro e su come questo ci abbrutisca. Tutti i personaggi sono sfumature e declinazioni diverse di questo tema. Tutti sono in attesa di un cambio, senza sapere – o almeno non dicendoselo – che la scelta migliore che dovrebbero fare tutti è lasciare quel lavoro. Ma nessuno di loro, come nessuno di noi, lo fa mai.
A te è mai venuta voglia di lasciare questo lavoro?
Sinceramente no. Però spesso ho avuto voglia di farlo in maniera diversa, essendo insofferente ad alcune dinamiche. Ma di cambiarlo mai. Per fortuna ho capito abbastanza presto che avrei voluto vivere della mia scrittura e non ho provato a immaginarmi altro per la vita. Ma è tutto così imprevedibile, magari sarà lui che lascerà me!
Sei giovane ma hai già scritto molto. Come ti sei formato?
Nel 2011 ho fatto il corso Rai Script di Dino Audino. L’ultimo o il penultimo anno che è stato fatto. E da lì in poi non ho lavorato subito nell’audiovisivo. Ho sempre scritto racconti e così ho vinto un concorso e da lì ho avuto la possibilità di scrivere due romanzi, senza tralasciare però la parte della scrittura televisiva. Sono arrivato in finale al Solinas e ho fatto tutto quell’iter fin quando nel 2019 sono entrato nel Master di scrittura seriale della Rai (a Perugia, ndr). Il corso è ancora aperto e lo consiglio a tutti perché secondo me è un’eccellenza nella formazione in Italia e lì ho avuto la fortuna di conoscere Donatella Diamanti e Mario Cristiani con i quali poi ho scritto – e nel gruppo di scrittura c’era anche Laura Grimaldi – “Vostro onore”. L’anno prima ho scritto anche un paio di episodi della prima stagione di “Mare fuori” e lì è poi iniziato tutto.
Come sei arrivato a “Mare Fuori”?
Era in contemporanea alla scuola di scrittura di Perugina, ma non è stato attraverso il corso. Fu un’idea di Michele Zatta perché in Rai avevo proposto diversi progetti e quindi un po’ mi conoscevano. Cercavano un super junior e così lui e Alessandro Carbone mi diedero l’opportunità di entrare nel gruppo e collaborare alla scrittura di due episodi. Li ringrazierò sempre. A fare da head del gruppo c’erano Cristiana Farina e Maurizio Careddu. È stata una bellissima esperienza anche se era il 2018 e la prima stagione non esplose subito. Ma c’erano i semi e col senno di poi è stato molto formativo perché ho visto come nasce un successo. Maurizio e Cristiana lo sapevano già e io, nel mio angolino da super junior, vedevo che aveva tutte le caratteristiche per diventare un grande successo.
Hai partecipato anche alla writing room di “Doc”. Lì com’era il ritmo?
Sì, ho partecipato anche a questa stagione. In quel caso si tratta di un’esperienza completamente diversa perché si tratta di una macchina perfetta a livello produttivo. Tempi strettissimi e più industriale come meccanismo. Industriale nel senso che i tempi sono incastrati perfettamente, non si perde un attimo. Non è una writing room tout court. Certo, abbiamo fatto delle riunioni poi ognuno ha preso il suo episodio e l’ha scritto. Sei parte di un meccanismo oleatissimo che funziona bene. Pensa che mentre noi scrivevamo la seconda parte dell’episodio, loro giravano la prima parte dello stesso. Per fare questo vuol dire che, al di là delle tempistiche, c’è un grandissimo lavoro di coordinamento, a partire da Francesco Arlanch e Viola Rispoli che sono gli head writers. Pensando a quella struttura, mi viene da dire che ha le caratteristiche, per certi versi, di un daily. Ci si avvicina anche perché si tratta di una serie che ha 16 episodi. Lunghissima.
La writing room di “Doc” cambia molto da stagione a stagione?
So che nella loro orbita ne girano vari di colleghi. Spesso gli stessi collaborano con loro anche su altri progetti. Io con loro però, ho fatto solo Doc.
Questa è una pratica molto usata perché se nel gruppo collabori bene, abbrevi i tempi, ti capisci, ti conosci e sai come recepire le note. Sei d’accordo?
Assolutamente. In questo caso con gli editor che seguono Lux e la writing room, se ti conosci, vai più veloce. Sai come parlarti. Nel caso di “No Activity” per esempio, con Fabrizio Cristallo, ha funzionato tanto. Lui che è l’head dello sviluppo di Groenlandia e ci ha seguito, ha capito subito il nostro tono. Ed è importantissimo avere una sintonia con il tuo editor. Da ambedue le parti deve esserci e noi ci siamo subito settati sullo stesso tono di comedy. Avere gli stessi motivi per cui ridere e lo stesso livello di comicità è imprescindibile. Altrimenti qualunque battuta si smoscia perché alla fine è tutto un flusso. Nelle riunioni per esempio, quando eravamo sui personaggi criminali di Toni (Papaleo) e Dario (Balsamo), eravamo sulla linea verticale dell’episodio ed era chiaro che quello è un flusso che se non parte bene fin dall’inizio, non ci arrivi a ridere tanto fino alla fine.
Se dovessi trovare una parola chiave per tutta la serie, quale sceglieresti?
Dall’inizio, da me e Laura, fino all’ultimo frame di montaggio, direi la parola “Alchimia”. È importantissima per far ridere. Io e Laura ci siamo subito settati sulle cose comuni che ci facevano ridere. Poi sono arrivati Pietro e Stefano e abbiamo condiviso con loro tutto quello che avevamo pensato e anche loro ridevano di gusto e hanno sposato quel tipo di comicità: c’era alchimia comica su tutto. Valerio Vestoso poi, ha fatto questo lavoro con gli attori, e prima ancora noi con lui ed è stato un incastro perfetto, un mezzo miracolo che ha funzionato con tutti.