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Silenzio, non si gira!

Capitolo 4

Caccia all’Oscar

L’anno passato, gli organizzatori dell’edizione 2015 del Film Festival di Freistadt avevano chiesto un commento sul cinema italiano a Nicola Badalucco che spesso aveva partecipato da vicino e da lontano alle loro iniziative.

Nicola inviò loro un testo di 28 pagine intitolato Silenzio, non si gira!

La famiglia di Nicola, che qui ringraziamo di cuore, ci ha concesso di pubblicarlo. Il testo è lungo e abbiamo scelto di riassumerlo in diversi articoli, segnalando i tagli con il simbolo (…) e lasciando a chi vuole la possibilità di consultare il testo intero scaricando l’allegato di ogni capitolo in pdf. Questo è il capitolo 4, il primo lo trovate qui, il secondo qui, il terzo qui.

Sebbene il nostro sito segua la politica dei Creative Commons, il testo di Nicola è protetto dal diritto d’autore e non può essere copiato e arbitrariamente diffuso.

L’imperativo categorico:

                                         “Tu devi scrivere, tu devi scrivere,

è necessario che tu scriva”,

     mi ha svegliato. 

W. Nietzsche

C’è in Italia un antico modo di dire per definire il grande valore di una persona o di un oggetto. Esso suona così: vale tanto oro quanto pesa. Non so se in altre lingue esista una frase simile o equivalente, immagino di sì.

(…)

Sono consapevole tuttavia che quell’antico proverbio italiano non va bene se viene riferito all’Oscar. La famosa statuetta non vale tanto oro quanto pesa, ma molto di più. Vale quanto l’immenso desiderio che anima gli artisti del cinema delle varie discipline, i quali aspirano a posarla sulla mensola del camino.

E chi non ha il camino?

Questo aspetto dell’Oscar lo conosco bene. Il lettore vuol sapere perché? Semplicissimo. Perché tanti e tanti anni fa, precisamente nel 1969, quando non ero ancora uno sceneggiatore professionista, uscì in tutto il mondo, con un immenso successo, un film basato su una storia inventata e scritta da me (non chiedetemi come ci sono riuscito perché non lo so neppure io) e realizzata da uno dei più grandi maestri del cinema: Luchino Visconti. Il titolo era “Gotterdammerung”.

Tanto è durata l’eco di quel successo, che da circa quindici anni, quel copione, trasformato in testo teatrale da vari autori di vari paesi, viene rappresentato sui palcoscenici di tante città, in nazioni come la Germania, la Polonia, il Belgio, l’Olanda, la Spagna, la Slovenia e altre. Tutto ebbe inizio a Salisburgo nell’Anno 2000, in occasione del Festival della Prosa.

Torniamo indietro. Un anno dopo l’uscita del film “Gotterdammerung”, cioè nel 1970, mi arrivò a casa, da Los Angeles, la nomination per la migliore sceneggiatura e la migliore storia originale da parte dell’Academy of Motion Picture Arts and Sciences. In un primo momento non mi resi esattamente conto di che cosa si trattasse. Per tredici anni avevo fatto il giornalista e mi ero occupato prevalentemente di politica, stando accanto al leader storico dei socialisti italiani Pietro Nenni.

C’è da dire che non si trattava di una candidatura riguardante un film straniero, perché “Gotterdammerung”, girato in lingua inglese, finanziato e distribuito dalla Warner Bross, era a tutti gli effetti un film americano, e quindi concorreva all’Oscar come film americano. In sostanza, senza saperlo, ero diventato americano anch’io. Non andai a Los Angeles, perché il primo film della mia vita mi era stato pagato pochissimo, e perciò non avevo il denaro necessario per il viaggio, l’hotel e lo smoking.

Appresi dai giornali che non avevo vinto. Ero contento lo stesso, anche perché non possedevo ancora un caminetto sulla cui mensola avrei potuto esporre la magica statuetta.

Dagli Stati Uniti mi telefonò un produttore americano che avevo casualmente conosciuto a Roma, si chiamava Bob Edward. Egli mi disse che non avevo vinto l’Oscar per colpa mia. Avrei dovuto prendere un aereo per Los Angeles alcune settimane prima della notte degli Oscar, insieme al regista, al produttore, agli attori protagonisti e ai dirigenti della Warner Bross, per fare una forte e intelligente promozione.

“In che senso?”, chiesi.

“Nel senso che senza promozione, l’autore è come se non esistesse”.

Replicai dicendo: “sono uno scrittore esordiente, perché mai la produzione, la distribuzione, gli attori protagonisti e un grande maestro come Visconti dovrebbero organizzare in America una promozione per far vincere me? Ancora non sono nessuno, capisci?”

Bob Edward concluse così: “Quando sarai qualcuno segui il mio consiglio”.

“Lo farò la prossima volta”, promisi. Ma non ci fu per tutta la mia vita una “prossima volta”. Però quella parola – promozione – mi rimase impressa nella memoria.

Volare, non volare. Questo è il problema.

Nel 1990 un film di un giovane regista italiano, Giuseppe Tornatore, che era alla sua seconda esperienza, risultò così avvincente che il produttore Franco Cristaldi (forse il più grande produttore italiano) lo lanciò nel mercato internazionale e decise di farlo concorrere all’Oscar. Naturalmente per concorrere all’Oscar bisogna prima superare la barriera della nomination. “Nuovo Cinema Paradiso” (era questo il titolo del film) superò quella barriera.

(…)

La promozione

L’esatto significato di questo vocabolo non è difficile, ma il modo come viene in gran parte utilizzato mi sfugge, dato che non me ne sono mai occupato.

Sulla partecipazione italiana, qualcosa me la rivelò Franco Cristaldi. Niente di straordinario: cene, conferenze stampa, proiezioni private, incontri… un po’ più riservati, mobilitazione degli autori, degli attori e dei giornalisti italo-americani residenti a Los Angeles, anche di terza e quarta generazione.

Per quanto riguarda questi ultimi – i quali non conoscono una parola di italiano, ma soltanto i vari dialetti degli antenati emigrati in America – è necessario fornire un’immagine dell’Italia che corrisponda non all’Italia vera di oggi, ma a quella tramandata dai loro nonni analfabeti, oppure a quella partorita dall’immaginazione turistica, che è limitata, frettolosa e distorta.

Sono fatti così gli italo-americani, anche gli artisti cinematografici di altissimo livello. Ne cito uno per tutti: Francis Ford Coppola. Ebbene, le scene della trilogia del “Padrino” girate in Italia fanno ridere gli spettatori italiani, tanto sono lontane dalla società, dal costume e dalla cultura dell’Italia d’oggi. Sembrano piuttosto (soprattutto quelle del “Padrino atto terzo”) delle rozze scene tragicomiche ricavate dall’Opera dei pupi, cioè dall’antico teatrino delle marionette che i turisti italo-americani chiamano Sicilian Puppet Show (dove nessuno però distribuisce cannoli avvelenati come al Teatro Massimo di Palermo nella terza versione del “Padrino” di Coppola).

Comunque, promozione o non promozione, in questi ultimi venticinque anni sono quattro i film italiani che hanno conquistato l’Oscar per il miglior film straniero. Di “Nuovo Cinema Paradiso” ho scritto abbastanza, e comunque confermo che mi è piaciuto e lo avrei premiato volentieri, non per patriottismo, ma perché in quell’anno non era stato proiettato nelle sale cinematografiche italiane neppure il dieci per cento della produzione mondiale. (Questo passava il convento e questo dovevi mangiare).

Come ho appena detto, da quell’anno (1990) il cinema italiano ha conquistato in tutto quattro premi Oscar. Quattro in un quarto di secolo: sono troppi o sono pochi? A queste antitetiche domande è difficile rispondere. Sono invece pronto a rispondere a un’altra domanda: gli altri tre film italiani vincitori dell’Oscar meritavano la statuetta oppure no? Ebbene, chi s’offende s’offende, ma la mia risposta è no. In quei casi, secondo la mia non indiscutibile opinione, non è stato il cinema italiano a vincere l’Oscar, ma la promozione, una parola magica dal significato chiaro ma dal contenuto oscuro.

I tre moschettieri

Alessandro Dumas non c’entra per niente, questo è chiaro a tutti i lettori. C’entrano invece tre abili registi italiani: Gabriele Salvatores, Roberto Benigni, Paolo Sorrentino; e tre loro film, rispettivamente: “Mediterraneo” (1991), “La vita è bella” (1997), “La grande bellezza” (2013).

“Mediterraneo” è una commedia all’italiana costruita con trent’anni di ritardo rispetto alla stagione d’oro di quello storico genere, che sembra confezionata apposta per compiacere il gusto antiquato degli italo-americani e di quanti vedono l’Italia con occhi miopi. La storia si svolge durante la seconda guerra mondiale (dal 1941 al 1943) in un’isola greca dove otto soldati italiani vivono avventure che giocano sull’amicizia virile in modo lezioso e convenzionale. Nel 1943 di quegli otto amici ne muore uno.

Ma come si fa a concepire una storia simile quando tutti in Italia sanno che in quello stesso anno, su un’altra isola greca, furono sterminati a freddo, uno per uno, diecimila militari italiani che si erano rifiutati di collaborare coi nazisti e avevano resistito finchè erano stati in grado di farlo? (Bisogna aggiungere però che successivamente Salvatores ha realizzato anche film di buona qualità, ed è uno dei pochi autori che hanno dedicato una certa attenzione alla ricerca nel campo dello stile e del linguaggio).

“La vita è bella”. Non mi soffermo a raccontarne la trama. Ricordo bene che quando il film uscì nelle sale, una gran parte della critica italiana espresse giudizi non molto lusinghieri. Dopo il trionfo a Los Angeles, però. i giudizi negativi vennero poco a poco trasformati in giudizi abbastanza (ma non del tutto) positivi. La solita critica ruffiana. Rimasero le reazioni non favorevoli del mondo ebraico, soprattutto della fascia più colta. Quanto a me, devo dire non ho sopportato quel film, dove il campo di sterminio sembrava una casa di riposo per vecchi pensionati senza fissa dimora, alloggiati insieme a bambini ben nutriti che si divertivano un sacco.

“La grande bellezza”. Questo film mi sembra presuntuoso e decisamente mistificatorio. Non brutto nella forma, perché Sorrentino sa adoperare nel migliore dei modi la macchina da presa, ma confezionato col proposito di sbarcare in America e portare a casa la statuetta.

Qualcuno ha paragonato il film a “La dolce vita” di Federico Fellini. Ci vuole una gran faccia tosta per fare un simile paragone. “La dolce vita” era una geniale e innovativa rappresentazione non soltanto di Roma, ma del mondo di quell’epoca, della civiltà e della società di quell’epoca, e degli appuntamenti drammatici che il profetico autore intravedeva nel futuro.

E il protagonista interpretato da Mastroianni? Attraverso quel personaggio, Fellini diisegnava con leggerezza e mistero un giovane scrittore mancato, il quale si butta nel giornalismo mondano, con un paparazzo accanto, e fra incontri e avventure, in un modo a tratti confuso e sgomento, punta lo sguardo incredulo oltre la parete d’ipocrisia che cela la decadenza dell’oggi, e lascia vagamente intuire, nell’incertezza nebbiosa del futuro, un universo umano sempre più inquietante e drammatico.

Il protagonista de “La grande bellezza” invece è soltanto un uomo in età matura, insolente e vanitoso; un cinico scrittore fallito il quale scorazza in modo antipatico e dissennato fra le bellezze scenografiche di Roma che con la società romana di oggi e col film non c’entrano assolutamente nulla. Insomma, Sorrentino ha realizzato un film più turistico che ideologico, ed è riuscito addirittura a rendere insopportabile uno dei più grandi attori italiani: Toni Servillo.

A morte i capolavori!

Negli anni in cui trionfavano a Los Angeles “Nuovo cinema Paradiso” e “Mediterraneo” uscivano in tutto il mondo due film di straordinario valore artistico: “Addio mia concubina” di Chen Kaige e “Lanterne rosse” di Zhang Yimon. “Addio mia concubina” ottenne la nomination dell’Academy, ma non vinse. “Lanterne rosse” non ebbe nemmeno la nomination. Insomma, quei due capolavori furono decapitati.

Nell’anno in cui vinse “La vita è bella”, concorreva un film di Radu Mihaileanu. Il suo titolo: “Train de vie”. Il racconto si svolgeva nel tempo e nel luogo dove era ambientata la seconda parte del film di Benigni, cioè in un campo di concentramento nazista. Ma era tutt’altra cosa: invenzione, commozione, ironia, originalità, fantasia, e soprattutto un raro e toccante livello di autentica poesia. Ebbene, “Train de vie”, che fra i due film era di gran lunga il più meritevole, non vinse l’Oscar. E come poteva mai vincerlo se non aveva ottenuto neppure la nomination?

A questo punto è legittimo chiedersi: sono da prendere sul serio i premi Oscar al miglior film straniero? Il lettore risponda ciò che ritiene giusto, io rispondo di no, con la massima convinzione.

Nicola Badalucco

Il testo integrale del Quarto Capitolo di Silenzio, non si gira!, è disponibile qui: Nicola Badalucco cap.4

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