“Una cassa previdenziale per puntare i piedi”
La proposta di Maria Teresa Venditti
È piena di carica vitale Maria Teresa Venditti, mentre racconta la storia del suo “Calcinculo”, il lungometraggio diretto da Chiara Bellosi che ha partecipato nei giorni scorsi al Festival di Berlino – in concorso nella sezione Panorama – e che il 10 marzo uscirà al cinema, distribuito da Luce Cinecittà.
“È stato un iter molto veloce e fortunato, nonostante la pandemia. Calcinculo nel 2018 ha vinto il Premio Solinas, nel 2019 è stato venduto a Tempesta Film, nel 2021 è stato girato – con in mezzo tutti gli stop per il Covid– e nel 2022 è andato a Berlino”.
Nelle more di un quadro così positivo, quanto ha influito l’essersi aggiudicati il Premio Solinas?
“Il film ha vinto anche il Premio Sbarigia per il miglior personaggio femminile, ma è dopo il Solinas che è successo tutto, che si sono aperte tutte le porte. Per questo motivo, ringrazio Annamaria Granatello (Presidente e Direttore del Premio Solinas, NdR) e tutti i suoi collaboratori che, con il loro lavoro, hanno permesso che la sceneggiatura avesse la giusta visibilità, fino ad essere acquistata da Tempesta Film. E devo dire che anche in quel caso ho avuto molta fortuna perché mi sono interfacciata con delle brave persone. Ci tengo a dirlo, perché è raro, ma Carlo Cresto Dina e la sua socia Valeria Jamonte sono stati con me, onesti. Ovviamente, una volta acquistata la sceneggiatura, ci abbiamo lavorato tanto ed è entrato nel progetto anche Luca De Bei, con il quale abbiamo riscritto e modificato diversi aspetti”.
Com’è nata l’idea di questo film?
“Ho ambientato questa storia nell’hinterland di Guidonia. In un pratone desolato, una sorta di no man’s land. Quel non luogo lo conosco profondamente, intimamente, perché sono cresciuta lì vicino. Ogni mattina, andando a scuola, attraversavo quel pratone. L’ho visto in ogni stagione, con ogni condizione climatica.
A me piace moltissimo studiare, fare ricerca. Sui luoghi, i personaggi, le dinamiche. E si vede che avevo così introiettato quelle immagini, che poi le ho riproposte nel momento in cui ho dato vita alla mia protagonista, Benedetta, e alla sua antagonista, Amanda. Solo dopo ho realizzato che forse, Benedetta, è proprio me stessa dell’epoca”.
Raccontare storie così intime non è facile. Tu quale percorso hai scelto di seguire?
“Ho scritto da sola, finché non ho sentito la necessità di allargare gli orizzonti, pensare in maniera completamente originale per dare freschezza alla mia protagonista. Così ho coinvolto una persona che non è una collega. Non scrive e non dirige, però insegna delle discipline fondamentali per conoscere e capire a fondo l’identità. Insegna meditazione e yoga. Lucia Giovenali mi ha accompagnata in un percorso più psichico e meno strutturato. Mi ha fornito un punto di vista assolutamente innovativo sui personaggi, perché non seguiva i canali o gli schemi conosciuti. Ho unito così il percorso nuovo a quello noto, attingendo, ovviamente, anche da tutto ciò che ho studiato e imparato, come ad esempio il corso sull’Eroe tematico tenuto da Miranda Pisione proprio nel coworking della WGI”.
Come hai vissuto il subentro del tuo collega De Bei, in un progetto così profondamente tuo?
“L’ho fortemente voluto. Lavoriamo insieme da più di vent’anni. Luca ha firmato la regia di Preziosa, una pièce teatrale scritta da me ed interpretata da Francesca Inaudi. Sapevo che avrebbe avuto la giusta sensibilità per raccontare al meglio il viaggio di queste due anime alla deriva, che s’incontrano. Benedetta e Amanda, un ragazzo non binario, non dovevano essere banalizzati. E Luca non solo è un mio caro amico, un ottimo regista teatrale e sceneggiatore, ma prima di tutto è un individuo che si è calato personalmente in una storia affine, quando ha scritto e interpretato un monologo su un ragazzo che intraprendeva la transizione uomo-donna. Sapevo che quindi sarebbe stato un argomento a lui congeniale. E poi, cerco sempre di lavorare con persone che ritengo più brave di me, per attingere, imparare e mettermi alla prova. Trovo che in questo modo si cresca professionalmente”.
E con la regista, com’è andato il confronto?
“Luca ed io abbiamo lavorato molto con la regista, Chiara Bellosi, che non dirige soltanto. L’anno scorso ha presentato a Berlino “Palazzo di giustizia”, scritto da lei. Così siamo arrivati fino ad un certo punto, poi le abbiamo affidato la sceneggiatura che ha finito di modificare, in modo da cucirsela addosso”.
Nel corso della tua lunga carriera, qual è stato il progetto nel quale hai imparato maggiormente?
“Rivendico con orgoglio la mia provenienza da soap-operaia. E Luca De Bei era con me anche in quel caso. Lavoriamo insieme dal ’99. Devo ammettere che, nel corso degli anni, ho riscontrato più volte che è proprio dalle soap opera che sono usciti gli scrittori migliori. È molto sottovalutato come settore ma in realtà è uno dei più tosti. Scrivi tutto il giorno, tutti i giorni. Non puoi permetterti di far cadere la penna perché manca lo spunto per una svolta o l’ispirazione per un dialogo. È stata una palestra pazzesca, per me. Dovevo scrivere una puntata al giorno e, nel farlo, era necessario che fossi molto precisa ma altrettanto veloce. È stato durante quell’esperienza che ho capito fino in fondo il significato della parola disciplina. Si è in un ingranaggio che non può fermarsi, né incepparsi. Ecco perché bisogna essere veloci ma anche sempre presenti a se stessi, mantenendo la lucidità mentale. Si lavora come se si fosse all’interno di un pronto soccorso, in costante emergenza, celermente e con alta precisione. E poi, si opera in gruppo. Questo è un altro aspetto molto bello di quel tipo di esperienza ed ha lasciato un profondo segno in me, tanto che io, in ogni progetto, cerco di lavorare con qualche collega, non mi diverto da sola. Penso anche che sia più sana come dinamica, perché in gruppo affiora la passione per questo lavoro e la voglia di scrivere una storia, mettendo questa al centro di tutto, eliminando il peso dell’ego.
Ecco perché il mio amore per le soap non si è affievolito negli anni e ho recentemente scritto il daily di Paradiso delle Signore, I e II stagione. È sempre con delle storie e dei personaggi che ti confronti, poi magari sono presentate sotto vesti diverse. Passo da un lungometraggio autoriale ad una soap, un documentario o un corto, senza remore né ripensamenti, perché continuo a divertirmi a scrivere e in ogni lavoro metto una parte di me”.
Tu sei da sempre una socia WGI e segui le battaglie che questa porta avanti. Hai qualche suggerimento?
“Mi è capitato di recente di rifiutare un lavoro perché mi veniva offerto un compenso esageratamente basso. Sono venuta a sapere che dopo pochi giorni, una collega ha accettato il lavoro con quel cachet. Secondo me bisogna fare una riflessione sul tema. Non intendo assolutamente giudicare la collega che ha accettato. Non conosco la sua situazione, magari era in difficoltà economica. Ecco, è proprio su questo punto però, che vorrei soffermarmi. Bisognerebbe istituire una cassa previdenziale per la categoria. Perché bisognerebbe aiutare chi non può stare in barricata a scioperare o è costretto ad accettare condizioni peggiorative. Non si può sparare su chi ha bisogno di lavorare e pretendere che rifiuti compensi, crediti, visibilità, che sia integerrimo, senza però dargli neanche un minimo sovvenzionamento. Pensando basti l’ideologia. Altrimenti rischiamo di essere proprio noi stessi quelli che creano la frattura interna tra chi può permettersi di puntare i piedi e chi no. Perché l’obiettivo di questa battaglia di categoria, non è guadagnare più soldi possibili, ma ottenere giustizia e un necessario riconoscimento dell’importanza della figura dello sceneggiatore nel panorama audiovisivo.