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L’occhio della gallina

Laura Sabatino ha raccontato con Antonietta De Lillo l’avventura professionale della regista e la difesa del proprio diritto

Autoritratto cinematografico della regista Antonietta De Lillo, L’occhio della gallina è stato presentato alla 81ma Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia nell’ambito delle Giornate degli Autori – Notti Veneziane.  La regista traccia un racconto della sua esperienza relegata ai margini dell’industria cinematografica dopo un contenzioso giudiziario legato alla distribuzione del suo film di maggior successo, Il resto di niente (2005), che avrebbe potuto consacrarla al grande pubblico.

Scritto da De Lillo con Laura Sabatino (Bene ma non benissimo, 2019), il film raccoglie interviste, ricostruzioni e archivi personali, cinematografici e televisivi, mostra le difficoltà di chi va controcorrente e la creatività e la resistenza necessarie a reinventarsi con i mezzi a propria disposizione.

Membro di WGI, Laura Sabatino racconta la genesi di questo racconto della vita pubblica e privata della protagonista, che suggerisce metodi per superare l’isolamento celebrando il cinema nel suo ruolo comunitario, culturale e politico.

 

Come è stato lavorare alla scrittura di un documentario tanto personale sulla vicenda della regista stessa?

È stata un’esperienza unica e penso irripetibile. Innanzitutto mi sono sentita onorata di essere stata coinvolta, perché in un certo senso facendolo Antonietta si è fidata di me, ha pensato che potessi condividere con lei questo lavoro tanto personale. Se il film è un autoritratto in cui l’occhio della macchina da presa è puntato su di lei, io inizialmente ho fatto da specchio. Poi, pur conoscendola da anni, ho scoperto tante cose che non sapevo, anche di tutta la vicenda che resta centrale nel film, quella relativa al complesso dietro le quinte de Il resto di niente, che pure avevo collaborato a scrivere. Quindi in parte conoscevo, in parte ciò che ascoltavo era una sorta di scoperta, e questo credo abbia fatto del bene alla scrittura del film. A tratti mi sono trovata nella posizione dello spettatore che vuole capire meglio.

L’occhio della gallina è un film che si aggira “tra memoria e presente, realtà e immaginario” e che si avvale di “un linguaggio ibrido tra finzione e cinema del reale”, una definizione data da Antonietta De Lillo che apre un universo di possibilità. Come avete realizzato questa prospettiva?

Il punto di partenza è stata una lunga intervista, realizzata nell’arco di tante settimane, in cui Antonietta ha ricordato le varie fasi della sua vita, personale e professionale. Cioè come in ogni documentario, anche nel caso di questo così singolare, la partenza è stata stendere, capire e approfondire la storia, il materiale, che si è rivelato enorme, tanto che poi una prima versione del montaggio dell’Occhio della gallina è arrivata a durare quattro ore – e chissà che un giorno in altre forme queste quattro ore non possano arrivare al pubblico, magari in un podcast, o su qualche piattaforma. L’idea di un’ibridazione è stata sempre presente, sin dall’inizio, così come la metafora de L’occhio della gallina, perché è una cifra stilistica di Antonietta e la sua storia non poteva che essere raccontata così. L’ibridazione di linguaggi infine ha trovato la sua forma definitiva nell’eccellente e complesso lavoro di montaggio.

Il film narra una storia di fatto ancora aperta, come avete gestito questo aspetto?

Con molta onestà e sincerità, ma anche con leggerezza. Non era nostro interesse scatenare polemiche, semmai alimentare discussioni costruttive. La vicenda del Resto di Niente è stata a mio parere clamorosa, ma è anche una storia in cui tanti altri possono riconoscersi, in ambiti molto diversi, lontani dal cinema. E quindi parlarne è importante, può fare bene a tutti, non solo al sistema cinema perché il film scava nel nostro rapporto con il potere. ‘Potere – dice Antonietta – è una parola a cui oramai diamo un’accezione negativa. Come ad esempio: il potere da cui siamo schiacciati. Ma invece dovrebbe ridiventare qualcosa di positivo’.  Possiamo fare, immaginare, cambiare le cose. Forse, si spera, il film darà un contributo a farlo.

Cosa l’ha affascinata di più di questo progetto?

Mi ha affascinato la possibilità di contribuire a raccontare in tutti i suoi aspetti una figura sfaccettata come quella di  Antonietta, che è stata una grande fotografa, e poi regista, documentarista, produttrice, in tutto questo con un occhio sempre molto personale e coraggioso. Ascoltandola poi mi ha affascinato il fatto che nella sua storia così ricca ci fosse parte della storia di tutti noi. Cioè alla fine tutti possiamo trovare motivi di identificazione.

L’intervista è a cura di Vania Amitrano

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