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Il festival della fiction europea a Bruxelles
Dal 2 al 6 Dicembre 2015 al Palazzo delle Belle Arti di Bruxelles si è svolto il festival della fiction europea, con proiezioni e dibattiti condotti da alcune delle figure più importanti della scrittura e della produzione internazionale.
L’evento, patrocinato tra gli altri da FSE, è stato organizzato dall’European Film Forum, istituzione avviata nel 2014 dalla Commissione Europea per “offrire uno spazio di dialogo costruttivo tra la Commissione e gli attori del mercato audiovisivo europeo”.
Il 3 dicembre è stata la giornata del Festival europeo della fiction dedicata alla scrittura per la televisione, intitolata “The art of screenwriting. Developing creative content in the changing landscape of series.” (L’arte della sceneggiatura. Sviluppare contenuti creativi nel panorama in trasformazione delle serie.)
La finalità dichiarata degli incontri è stata quella di far dialogare sceneggiatori che hanno già dato prova di coinvolgere con le loro storie una platea internazionale per offrire una panoramica sul processo creativo che dà origine a serie di successo. Processo che si fonda sulla scrittura.
Il testo del programma in inglese e francese, non a caso, parlando di sceneggiatura di una serie parla di creazione di identità artistica.
La giornata ha visto avvicendarsi sul palco rappresentanti di moltissimi paesi europei in cui spiccava, purtroppo, l’assenza degli italiani.
La giornata è iniziata con la presentazione del programma Creative Europe, condotta da Lucia Recalde rappresentante della Commissione Europea. La politica spagnola ha descritto, brevemente, le opportunità di finanziamento per i progetti internazionali che sono già a disposizione di produttori e distributori europei. Purtroppo al momento non esistono fondi di sviluppo che possano essere distribuiti direttamente agli sceneggiatori, ma le opportunità di finanziamento per progetti che si aprono al mercato europeo e mondiale sono comunque concrete.
Il primo incontro (“Case study: The Bridge 3”) ha affrontato da diversi punti di vista il successo internazionale di Bron, la serie prodotta da Svezia e Danimarca che è stata venduta in oltre 130 paesi e ha dato vita – al momento – a quattro remake.
Sul palco erano presenti la sceneggiatrice Camilla Ahlgren, che WGI ha avuto il piacere di ospitare per la masterclass dello scorso anno nel corso del Nordic Film Festival, i produttori Lars Blomgren e Anders Lundstrom, la rappresentante di ZDF – il brodcaster tedesco che distribuisce la serie nel mondo – e Kristian Hoberstorfer, rappresentante del broadcaster svedese SVT.
Il dibattito è stato preceduto dalla proiezione della prima puntata della terza serie di Bron, il cui budget è stato di tre milioni di Euro. E’ importante notare come abbiano tutti sottolineato che il budget per il pilota della prima serie era di circa seicentomila Euro, meno di un quarto. Questo significa che il successo, internazionale, ha prodotto un movimento economico importantissimo. Per tutti.
Dopo la proiezione e gli applausi di rito – meritati, la serie parte forte – è partita l’analisi del successo.
La parola chiave, secondo gli autori, è stata GLOCALITY.
Bron nasce già orientato al mercato internazionale per la sua natura di serie “di confine”, che si svolge a cavallo di due paesi. Ma questo non basta.
Una volta individuata l’idea di utilizzare il ponte che collega Svezia e Danimarca come set per l’inizio del giallo e quindi di coinvolgere poliziotti di entrambe le nazioni, gli autori si sono trovati davanti al problema di rendere il più possibile esportabile la loro serie. E qui è necessario fare una digressione.
Danimarca e Svezia sono paesi con una debole capacità produttiva, a livello economico. Per realizzare una serie di un certo livello sia i produttori che i broadcaster avevano, e hanno tuttora, bisogno di andare a cercare i fondi in altri paesi. E la Germania è il loro target naturale.
La responsabile di ZDF è intervenuta sottolineando che il broadcaster tedesco ha immediatamente visto un potenziale economico notevole nell’idea di serie che gli è stata presentata. Ed ha finanziato il progetto, senza pretendere di intervenire nello sviluppo delle sceneggiature, magari inserendo un personaggio tedesco nella serie. Si sono fidati dell’idea e del gruppo di scrittori (oltre che dei produttori, ovviamente) hanno lasciato che la creatività di sviluppasse e alla fine del processo hanno ottenuto quello che volevano: guadagnare molti più soldi di quanti ne avevano investiti.
Il tema della libertà creativa è stato al centro anche del secondo incontro, che si è svolto nel pomeriggio: Screenwriting in team. A stimulants to creativity? (Sceneggiatura in team. Uno stimolo alla creatività?).
Hanno partecipato al panel: Alex Berger, produttore francese (Les Bureau des Legendes); Clive Bradley, sceneggiatore britannico (Trapped); Ben Harris, sceneggiatore britannico (The Paradise); Carl Joos, sceneggiatore belga (Cordon); Karianne Lund, sceneggiatrice norvegese (Occupied).
Il tema fondamentale dell’incontro era analizzare i pro e i contro delle writing rooms, ma è bastato il primo giro di tavolo per stabilire all’unanimità (o quasi) che più teste che ragionano su un prodotto generalmente funzionano meglio di una sola. La parte interessante del dibattito, a questo punto, è stata un’altra: i modelli di organizzazione del lavoro e i contratti.
La discussione è partita da una domanda del moderatore Wim Janssen: meglio lavorare per una produzione o restare indipendenti? Le risposte sono state molto diverse, specchio anche degli approcci culturali di riferimento. Si è passati dal tetragono “indipendenti” di Carl Joos – chiaramente influenzato dall’approccio autoriale di derivazione francese – al “sotto contratto” di Karianne Lund, che prima di fare la showrunner di Occupied ha passato anni a lavorare per gli studios negli Stati Uniti.
Karianne ha sottolineato che essere assunto da una produzione (ed essere pagati regolarmente e nei tempi stabiliti) consente ad un autore una libertà creativa molto maggiore, almeno in Norvegia.
Alex Berger ha condiviso le posizioni di Lund, chiarendo che gli sceneggiatori che lavorano alle serie che produce vengono assunti per sei mesi l’anno dalla produzione e hanno gli altri sei mesi liberi per lavorare sui propri progetti.
Per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro, invece, i modelli di pianificazione sono comuni a tutte le realtà europee coinvolte nel dibattito.
Al primo posto, sempre e comunque, c’è la scrittura. Il sistema ruota attorno alla figura dello showrunner, più o meno analoga a quella statunitense, tranne che in Germania dove il responsabile della serie è quasi esclusivamente il produttore, un po’ come in Italia.
L’intervento dei produttori sulla fase creativa è quasi sempre pari a zero, soprattutto perché uno dei concetti che è stato ribadito in tutti i panel è quello della fiducia. Chi assume uno scrittore, o un gruppo di scrittori, li sceglie perché ha fiducia nelle loro capacità creative e li lascia lavorare.
Lo stesso concetto era stato ribadito più volte anche durante l’incontro su Bron. Anders Lundstrom – un produttore! – ha detto testualmente che se si cominciano a chiedere i motivi di una scelta agli sceneggiatori si entra in un circolo vizioso che rischia di avvitarsi in una spirale infinita.
Quindi, nel momento in cui produttori e broadcaster – anche di paesi diversi – decidono di affidare lo sviluppo creativo di una serie a un gruppo di sceneggiatori interferiscono sempre meno nelle loro scelte.
Anche perché molto spesso gli sceneggiatori sono cresciuti professionalmente all’interno di un contesto molto dinamico, in cui il talento viene valorizzato. Gli esempi di sceneggiatori che hanno iniziato come autori di singole puntate o addirittura come semplici uditori nelle writers room e nell’arco di qualche anno si sono trovati a capo di una serie occupavano praticamente tutte le sedie disponibili sul palco.
L’importanza della formazione ha occupato l’ultima parte dell’incontro.
E’ stato sottolineato da più parti come le lunghissime serialità siano una palestra fondamentale per formare nuovi autori e far emergere i talenti, che altrimenti difficilmente trovano uno sbocco. Nello stesso tempo Alex Berger ha richiesto a gran voce l’istituzione di corsi dedicati agli showrunner, possibilmente finanziati dall’Unione Europea.
Alla fine dell’incontro ho avuto la possibilità di parlare qualche minuto con il produttore francese, di scuola americana, che mi aveva incuriosito quando aveva parlato della scuola di formazione Canal+ Ecriture, finanziata dal broadcaster francese. Ebbene, quando gli ho chiesto quali fossero i costi della scuola per sceneggiatori ha strabuzzato gli occhi: “Come quanto costa? Gli sceneggiatori in quella scuola producono idee, scrivono per Canal+, quindi vengono pagati.”
Lapalissiano, secondo lui.
A chiusura della giornata, sempre restando in ambito formazione, Martin Dawson – uno dei responsabili del programma MEDIA dell’Unione Europea – ha illustrato la possibilità di richiedere fondi per corsi ad alta professionalità. Il budget stanziato dall’Europa è di sette milioni di Euro, che difficilmente trovano una collocazione per mancanza di progetti validi.
Vinicio Canton