Gli sceneggiatori,
ovvero i polli (di Trilussa) da spennare
La fotografia scattata dal nostro sondaggio
Finalmente ci siamo.
Eccola finalmente la fotografia della nostra professione.
Qui sotto trovate il documento che riassume i risultati del sondaggio degli sceneggiatori italiani, che WGI ha lanciato prima dell’estate 2022.
Il numero dei partecipanti è impressionante: quasi 150 di noi hanno risposto, quasi un quarto degli sceneggiatori attivi.
Tra questi non ci sono solo autori WGI, ma anche appartenenti ad altre associazioni e persino alcuni che non fanno parte di nessuna.
Siamo rimasti molto colpiti dall’adesione sia di autori molto affermati che di principianti, appena affacciatisi al mercato audiovisivo.
Ma sono gli altri numeri quelli che ci hanno scioccati.
I numeri di quanto si guadagna oggi mediamente con il nostro lavoro.
I numeri che indicano quanto tempo passa di media tra un contratto e l’altro: troppo.
I numeri di chi è costretto a dedicarsi necessariamente almeno ad un’altra professione per sopravvivere.
I numeri che indicano come dall’ultimo sondaggio europeo ormai di diversi anni fa la media dei guadagni derivanti dalla scrittura in campo seriale e cinematografica sia di fatto rimasto invariato: circa 24.000 Euro… lordi.
Ma ci sono altri numeri che colpiscono come magli allo stomaco: quelli di chi sente in qualche modo che le proprie tematiche, i propri personaggi e mondi narrativi siano oggetto di censura. A volte diretta dei produttori, a volte indiretta, derivante da un’autocensura generata forse dai troppi no accumulati.
È chiaro che i dati che leggerete sono frutto di una media. E come magistralmente sintetizzava Trilussa nella sua poesia “La Statistica”: “[…]seconno le statistiche d’adesso risurta che te tocca un pollo all’anno: e, se nun entra nelle spese tue, t’entra ne la statistica lo stesso perch’è c’è un antro che ne magna due“.
Quindi di media del pollo si parla: qualcuno di noi guadagna molto di più, altri decisamente molto meno.
Però, questo ci porta ad un’altra considerazione derivante dall’analisi del sondaggio e dal confronto con altre professioni.
Si parla, da parte dei produttori, di impossibilità nel reperire i tecnici (attrezzisti, elettricisti, etc.) per il troppo lavoro che li impegna su diversi film e serie in giro per l’Italia. La conseguenza è, pare sempre a detta dei produttori, che e i loro guadagni, sempre dei tecnici – come in ogni mercato che rispetti ovvero dominato da domanda e offerta – siano schizzati alle stelle.
Quindi è vero che c’è più lavoro? Ci sono più serie e più film? Prendiamo un altro parametro, ovvero i dati del recente rapporto annuale sulla produzione di APA, l’associazione dei produttori, (qui il link ai dati). Sì, è vero, si stanno producendo più film e serie tv. Decisamente più ore ogni anno che passa. Quindi l’arrivo delle piattaforme ha effettivamente ampliato il mercato e generato una ricerca di più contenuti. Più contenuti, significano più storie da realizzare e infatti i tecnici lavorano di più e possono chiedere cifre maggiori. Ma che succede all’inizio della filiera? Più richiesta di storie significa più lavoro e più guadagno per tutti, o no? A quanto pare no. I dati del sondaggio europeo rapportati al nostro ci dicono che per gli sceneggiatori il mercato è rimasto fermo e asfittico, con scarsi guadagni e difficoltà di sopravvivenza al limite dell’indigenza. Vivere a Roma, dove – altro numero emerso dal sondaggio, gli sceneggiatori sono “costretti” a vivere perché è nella capitale che di fatto esiste questo settore – è impossibile sopravvivere con circa ventimila Euro lordi pagandosi un affitto, da mangiare, per gli spostamenti, per la formazione continua – altro numero del sondaggio che indica come tutti noi sceneggiatori spendiamo nella continuing education perché crediamo nel nostro lavoro e ci aggiorniamo senza sosta per stare al passo con il mercato – per la documentazione, per le ricerche, per partecipare ai bandi, ai pitch, ai convegni, ai festival, per pagare gli abbonamenti alle piattaforme, per studiarne i contenuti, per andare al cinema o al teatro, per pagarsi i libri, i giornali, il collegamento alla rete.
Ma allora se si cercano più contenuti e tutti sembrano guadagnare di più, perché noi sceneggiatori no?
Di nuovo il pollo di Trilussa ci può aiutare a capire come stanno le cose.
Ci sono alcuni colleghi che lavorano più di altri e altri che lavorano poco. Questo è giusto: fa parte delle regole del mercato. Chi è più quotato, perché più capace, più bravo in questo o quel genere che in quel dato momento “tira” di più è giusto che lavori più di altri, perché sono le sue storie, la sua poetica a imporsi sul mercato.
Però di fatto resta quella “coda lunga”: tanti colleghi che, invece, il mercato lo bordeggiano e basta. Vivacchiano ai suoi limiti.
Ecco perché altri numeri sono agghiaccianti: soggetti di serie venduti a poco più di un migliaio di Euro. Questo significa non vendere le proprie idee, ma svenderle e distruggere il mercato.
Un altro confronto può aiutare a capire meglio la situazione.
Il numero dei produttori che partecipano di anno in anno ai Blind Netptich organizzati da WGI è in costante aumento.
Cioè le storie vengono cercate in ogni singola occasione di mercato in cui si rendono disponibili. I produttori sono disposti a leggere ogni volta qualcosa come centinaia e centinaia di logline, sinossi, concept per selezionare quelle, secondo loro, più promettenti.
Ho sentito dire che il problema è dato dal fatto che le scuole di sceneggiatura sfornano troppi sceneggiatori ogni anno. Questo sarebbe il problema. Io non lo credo affatto. Di storie ne servono tante, sempre di più.
Non solo, ci sono nostri colleghi, talmente bravi da essere coinvolti in writers’ room internazionali: cioè all’estero cercano proprio la loro poetica e professionalità e non la trovano nel loro mercato domestico!
Sempre più storie, quindi, ne consegue pertanto che servono nuovi sceneggiatori con nuove storie da raccontare.
Il problema allora qual è? Io sono convinto che stia ancora una volta nei numeri: ci facciamo pagare in media troppo poco per le nostre idee. In generale ogni progetto contrattualizzato genera pochi introiti, su un arco di tempo troppo lungo (i famosi step contrattuali, a sessanta giorni, fine mese data fattura firma, con qualche contratto che addirittura aggiunge 25 giorni lavorativi in più e non si sa perché). Insomma io non posso permettermi di sopravvivere con un solo contratto, quindi se posso ne cerco un altro e poi un altro ancora e così via, accumulando abbastanza lavoro e step contrattuali incrociati da poter sopravvivere almeno un anno a pieno regime: sopravvivere e non vivere (vi rimando alla registrazione dell’intervento WGI al Festival della Sceneggiatura a Bologna che trovate qui, a partire da 2h 27′). Ciò implica che alcuni di noi di fatto ingolfino il mercato perché il loro nome in quel momento è “spinto” dal mercato. Ma è un mercato, di fatto, drogato al ribasso.
La verità è solo una secondo o me: noi sceneggiatori, pur di lavorare, accettiamo contratti economicamente insostenibili.
La soluzione? Io credo che ci sia bisogno di imporre dei limiti. Un soggetto di serie, se acquistato da un produttore, deve avere un valore minimo. Lo stesso dicasi per un copione cinematografico o seriale.
Se poi uno è più bravo chiederà di più e il mercato gli dirà sì oppure no e gli imporrà di prendere il minimo se non verrà considerato così capace come crede, ma il minimo, non l’infimo come adesso.
Se i minimi contrattuali fossero imposti ai produttori dalla nostra categoria e se i nostri nomi di autori venissero “agganciati” alla nostra opera generando quindi residuals ad ogni passaggio della sua vita sul mercato allora sì che la combinazione dei due fattori assegnerebbe finalmente un giusto valore al nostro lavoro.
Ma questa è la mia opinione.
Ma leggete anche voi i dati e fatevi una vostra idea. Così il prossimo 5 dicembre all’assemblea che abbiamo in programma alla Casa del Cinema (vi invieremo convocazione nei prossimi giorni) ne potremo discutere insieme per capire quali possano essere le soluzioni più indicate per affrontare le enormi sfide che abbiamo davanti.
Giorgio Glaviano, Presidente WGI