Bollettino n. 9
Venezia nove settembre duemilaventuno.
Ultimo Atto
Il grafico del vento ieri disegnava punte aguzze come un rastrello. Otto nodi, poi cinque, poi di nuovo otto, poi ancora quattro… e via così. Il vento andava ad ondate. Come la passione.
Non come la curva costante, e forse lineare, che sembra essere il tempo.
Il tempo.
Sono passate giornate dense come una tempesta di sabbia. La fatica di attraversarle è anche fisica, oltre che mentale. La sensazione di perdere fili che erano lì, solo da prendere, è pari a quella di disperdere fili che pareva di avere in mano – ed invece. Ma tant’è.
Il senso del tempo è emerso in ogni incontro che ho avuto. Andrea addirittura lo metteva come la radice del suo lavorare; “io amo ascoltare i dischi. Quando mi siedo sul divano per ascoltare, so che ci vogliono quarantacinque minuti. Quel senso del tempo perfetto, dedicato solo a quello, è alla base del mio senso del tempo nella scrittura. È un ascolto altrettanto assoluto. Serve tempo, tempo tempo”. “Io davvero sarei contento se un produttore mi dicesse: tieni questo assegno e molla tutto il resto; lavora solo su questa storia. Perché quello che ci serve è tempo, tempo per fare davvero bene, boia!” ha rincarato Marco con il suo accento originale in crescita, come a scoprirlo quando il coinvolgimento emotivo nel contenuto supera la barriera del controllo, onda di restia (la risacca) che prima di frangere si ritrae e mette a nudo le fondamenta dell’edificio – il da dove vengo e il chi sono.
Il passare del tempo ha a che fare con la precisione, con l’esattezza. Più passa il tempo, più impari il tuo lavoro, più conosci il campo da regata, più riconosci i segni. In qualche modo, più dovresti sapere. Magari qualcosa di te stesso.
E invece no. Un minimo di onestà ci porta a sapere che non è così. Eppure, nonostante la consapevolezza di questa “mancanza”, noi continuiamo ostinatamente ad attuare questo splendido meccanismo consolatorio chiamato “fare” – o, se si vuole, “raccontare”. Forse siamo mossi da un residuo del positivismo di cui tutti siamo intrisi, o forse da altre forze oscure che possiamo (per comodità) chiamare “passione”, vai a sapere. Fatto sta che non possiamo non sapere che no, non si va, per forza, verso il meglio. Ed eppure. Siamo qua, nel pieno dell’orgia di racconti, storie, incroci professionali, vite di carta e vite vere, tutte dipanate attorno a questi chilometri di cavi e di tappeti rossi.
Torna alla mente l’enorme insegnamento di Eugenio Barba, esploratore delle profondità dell’animo umano sotto forma di teatrante, mistico della ricerca del senso più acuto del sé attraverso il movimento del corpo dell’attore. Barba dice che alla fin fine è semplice: non puoi che costruire al meglio la tua canoa di carta, con il meglio della tua arte da artigiano; gioire per il suo varo; sederti in riva e guardarla andare, aspettando l’inevitabile naufragio. Per poi rifarla. Se possibile, più bella.
Dei vari argomenti affrontati, mi ha affascinato quello sul rapporto plot/personaggio. Nessuno ha una netta predominanza per uno dei due capi del filo. Tuttavia, in realtà, a parlarci fitto e trascinandoli nella confidenza del congiurato, tutti alla fine hanno una predilezione. C’è chi partirebbe dal personaggio – ed è lui, con la sua personalità, la sua vita, a disegnare il plot; c’è chi quando riesce a trovare il plot perfetto è felice – e i personaggi sono espressione ottimale e felice di quel plot.
Viene alla mente cosa scriveva quella scrittrice di gran razza che è Ben Pastor “Da dove nasca Martin Bora come personaggio è difficile dire. Per me è nato come nasce qualsiasi figlio, non importa se da un’intenzione o da un incidente”. Si badi bene: Ben Pastor è una scrittrice di romanzi di genere – e allo stesso tempo una grandissima scrittrice tout court. E questo tiene aperto anche l’altro filo della questione, doppiamente legato a quello personaggio/plot: il genere.
E’ chiaro che non ne usciremo mai, perché non ci sarà mai da uscirne. La narrazione è narrazione. Se Tinto e Andrea calcano l’accento sulla necessità della passione in quel che si ha da dire, e il genere può essere un mezzo utile per rimarcare quella passione, Marco sottolinea l’esigenza di approfondire la vita nella sua scoperta, e la narrazione sarà la naturale conseguenza di quella scoperta. “Alla domanda che gli feci ‘che genere indichiamo nei fogli che dobbiamo compilare?’, quel gran regista con cui stavo lavorando in quel momento mi disse ‘scrivi: genere storie di esseri umani’. Aveva ragione”.
Insomma: hanno tutti ragione.
Passione e autentico approfondimento nella natura umana; questo è.
Dunque scriviamo storie e personaggi al meglio della nostra capacità. Basta che ci sia sempre una parte per Servillo.