Bollettino n. 7
Venezia sette settembre duemilaventuno. Ventuno gradi centigradi. Vento di sei nodi da 90 gradi. Est.
Per certi giri di vento, in certe condizioni, ciò che guardi sa avere una nettezza invidiabile.
Fino ad un certo punto l’acqua è liscia come olio, azzurra. Un centimetro oltre è corrugata, nervosa, insicura nel suo grigio.
Sei riconoscente di quei momenti, di quella chiarezza di sguardo. Sono momenti in cui ti lasci andare al desiderio dell’intellegibilità del tutto. È l’incanto della favola, una coccola al bambino che è in noi.
Ieri mattina il vento da nord est si faceva sentire – ennesimo presagio di ciò che sappiamo arriverà.
Oggi l’inizio di mattinata pareva un rewind di inizio estate, con un vento gentile da est, un sole dorato e morbido, a promettere una lunga stagione azzurra. Oggi il vento mente. La memoria fa cortocircuiti, vorrebbe innestare realtà differenti su un copione già scritto.
Questo ho visto in questi giorni; la messa in scena del genere “realtà” (chiamato da Truffaut: “un trancio di vita”. E lui, notoriamente, preferiva “un trancio di torta”), quella del genere “figli del mafia movie” (sottocategoria “figli di Romanzo Criminale”), quella del genere “cinema Americano contemporaneo” (sottospecie “figli di Scorsese”), quella del genere “western”, quella del genere “sceneggiata napoletana” – e altre. Inutile fare classifiche. Ognuno ama quel che vuole, ovviamente. Ma dopo sette giorni immersivi posso dire che mi hanno colpito un po’ di cose.
Una considerazione riguarda l’uso che noi sceneggiatori facciamo della parola nei nostri personaggi. Essere didascalici non è un problema che abbiamo solo noi italiani, ma diciamo che al riguardo ci facciamo notare. Chissà cosa c’è alla base di tutto questo. Forse poca fiducia nello spettatore. Chissà. Legato a questo: la voce off; c’è chi la usa come sontuosa overture, chi come coperta di linus. Scelte – con conseguente carattere del racconto. Altra cosa; la realtà. Mi ha colpito positivamente il coraggio di chi ha affrontato e messo in scena la pandemia. Molto intelligente l’abbinata pandemia + crisi economica (lavoro) + pazzia. Il film cinese merita parecchie letture e considerazioni, ma insomma, al di là del fatto che magari ci saranno anche sofisticati disegni normalizzanti dietro un lavoro del genere, resta il fatto che il sasso è stato lanciato. È un fatto. La pandemia entra nella nostra narrazione non come un fatto appiccicato, una cornice extradiegetica, ma come intradiegetico, come incidente scatenante, come motore, come tema. Dato a Cesare quel che è di Cesare, io personalmente non posso non riconoscere che non è quello il porto in cui sento a mio agio la mia barchetta. Perché a ruota, dopo la Realtà, ha fatto irruzione il Genere. E vince sei-zero sei-zero.
Perché, per me, è così; sei sprofondato nella poltrona, si apre il mega schermo bianco, e vedi la messa in scena della mesa in scena. Certo, tutto già visto, ma non m’importa. E’ la chiarezza dello sguardo, che mi colpisce. Riesco a vedere distintamente la linea che separa l’acqua cheta da quella corrugata. Vedo i confini. Risento l’illusione felice del racconto di una storia. Mi gusto una splendida fetta di torta – e questo, sinceramente, mi sembra tanta, tanta roba.