Finale di stagione
Bollettino n. 12/22
Il momento è tutto. È un attimo. Prima o dopo non vanno bene.
Quando la luce bianca del giorno perde peso. Quello è il momento.
Mi addentro nel labirinto di mattoni. Sono le mie calli. Ci ho passato l’infanzia. Ma sono anche le nostre calli. Di tutti noi. Perché qualcuno ha fissato quell’intrico in una pellicola. Tutti noi le vedemmo in uno splendente 35 mm. La Venezia di Visconti. Senso, certo. Ma soprattutto Morte a Venezia – ovvero la ragnatela di calli e ponti e fondamenta che fanno da bordo alla Fenice. Luoghi diventati una storia. E che storia.
Questo è raccontare, no? Dare corpo. Abitare uno spazio con i sentimenti di chi quello spazio si è trovato a dipingerlo su pellicola.
I fantasmi di quei personaggi sono ancora lì. Campiello dei Callegheri avrà per sempre il puzzo del disinfettante gettato sui muri per contrastare l’epidemia. Quando mi avvicino al campo, quell’odore, che immagino acre e violento, lo sento. Ogni volta. L’angoscia di Gustav von Aschenbach è proprio là, sul ponte, tra i gradini, sui marmi del corrimano.
E’ in quel posto preciso che ha avuto l’insight, lo svelamento: la morte è lì; lo ha raggiunto. Lui morirà. Non un sentimento qualunque: la consapevolezza – di tutto.
Tutto questo è lì, in quel luogo. Un campiello della memoria per tutti noi – perché dei fantasmi vi hanno preso corpo in un modo indimenticabile.
La sagoma imponente dell’hotel Des Bains suda pudica nella sua sporcizia. Niente di più lontano dalle colazioni sontuose e raffinate di Tadzio e di sua madre. Ora è solo un insieme di mura ammuffite. Salsedine, vento, tempeste: il senso del tempo, lo avverti, lavorerà su quel relitto.
Eppure ci parla. Passandogli accanto non ne restiamo indifferenti.
E dunque le calli, la Fenice. E il Des Bains, l’Excelsior, il Palazzo del Casinò…
Luoghi. Luoghi pieni di storie – e di storie di storie.
A volte i fantasmi affollano talmente tanto il nostro orizzonte da pensare che non ci lascino vivere una vita pulita, sgombra da dazi e omaggi e debiti. Ed in effetti è proprio così. Non esistiamo se non attraverso di essi – i nostri fantasmi. Ed è su quel lenzuolone, steso in alto a sovrastarci, che questi fantasmi sprigionano tutta la loro forza. Evocativa ed estorsiva – allo stesso tempo.
Perché noi, spettatori e autori, siamo e saremo sempre vittime e carnefici, complici ed indifferenti. Ovviamente tutto allo stesso tempo, in un rapporto impossibile da recidere – pena la fine dalla proiezione del fantasma. La fine della narrazione.
Vedere l’enorme volto di Marylin che ci guarda, incarnando la fragilità e la bellezza, tutto assoluto e disperato e ultimo, è sentire la forza millenaria di Eros – “eros come tagliatore d’alberi/mi colpì con una grande scure/e mi riversò alla deriva/d’un torrente invernale” (Anacreonte – trad. di Quasimodo).
Si può dire qualunque cosa, su ogni film – e dunque ovviamente anche su questo Blonde, prova interessante e certo non perfetta. E’ di questo film, però, che in questa Mostra resta il fantasma più potente – composto da mille strati: la disperata necessità di essere accettati; la micidiale ferocia del mondo dello spettacolo – e del potere in generale; l’inarrestabile potenza della follia, capace di sgretolare ogni costruzione – e molti altri strati ancora…. Tutto questo non starebbe insieme senza quel collante che è in realtà un motore: il desiderio. Certo, stando al personaggio, è desiderio di essere vista, amata, riconosciuta, accettata. Ma siamo noi, ora, a cercare un senso in quel viaggio – noi spettatori. E dunque per noi quello che si proietta sullo schermo è il Fantasma del Desiderio: di vivere, di vedere, di condividere. E quello è il padre di ogni fantasma. Dei mille fantasmi visti in questa Mostra, delle solitudini, le incomprensioni, le nostalgie e altro, questo desiderio ossessivo, enorme ed incombente, con la disperata necessità di inscenarsi – per la gioia di un mondo di narcisi voyeristi – resta il lascito più potente. Più deflagrante.
In questi giorni ci si è interrogati a lungo sullo stato dell’arte – la domanda di ogni Mostra. Ci si è chiesti quanto questa società, composta di narcisisti autoriferiti, sia in grado di costruire narrazioni condivise. I problemi della “macchina mercato”, della “macchina Festival”; i problemi delle idee, della libertà reale eccessiva o solo presunta in chi le esplora; il problema dei problemi – ovvero il rapporto con il pubblico, nella consapevolezza (che sembra mancante in Italia) della necessità di avere un equilibrio tra personale e universale. Infine abbiamo toccato anche il tema dell’identità – non quello paventato da un alto dirigente Rai, in piena trance da elezioni imminenti, ma l’identità di chi le idee le deve definire. Il termine, antico e vagamente demodè, è stato “l’intellettuale” – un vero spettro a cui, forse, meriterà provare a dare una qualche consistenza. Senza paura. Perché una cosa pare chiara: di conformismo si stanno infeltrendo le poltrone vuote dei cinema. Dunque non serve essere timidi o avere paura. Serve, al contrario, alzare la testa e provare il complicatissimo equilibrio tra istanza personale/intellettuale e capacità analitica/empatica della società. E provare a costruire storie che appassionino. Con fantasmi enormi, svolazzanti sopra di noi in schermi enormi (non certo le tv di casa) che ci interpellino, ci prendano di forza e ci obblighino a fare un giro tra i demoni del desiderio – in qualunque forma narrativa esso prenda poi corpo.
Ci sono persone che devono rivivere i loro fantasmi, per riuscire, finalmente, a maneggiarli.
Per farlo capita, non infrequentemente, di dover ripercorrere fisicamente gli spazi che quei fantasmi hanno riempito.
Abitare il proprio inconscio, deflagrato in un posto preciso, è operazione sana, all’interno del viaggio evocato da Barbera/Wenders.
Quel posto, quei posti, sono le nostre storie. Sono i nostri cinema.
Il primo film mai proiettato al Lido, nella prima edizione della Mostra, fu Dr. Jekyl and Mr. Hide. Il secondo fu Frankenstein. La Mostra era appena nata e già pullulava di fantasmi.
Novant’anni dopo serve che ci diamo tutti da fare per poter continuare a soffrire della stessa malattia: la partecipazione.
Da Venezia 79 è tutto.
Buoni fantasmi a tutti.