Bollettino n. 7
80 anni fa il cielo sopra il Lido era questo.
Sotto queste stelle, questi disegni nel buio, si mosse la mostra del cinema, 80 edizioni fa.
Seguendo i disegni di quelle costellazioni, nel 1943, la società dell’uomo occidentale era sconvolta dalla guerra. Quella guerra.
Aleggiava ovunque, come una nafta sversata in acqua e finita ad inquinare ogni cosa, il superomismo – una fiducia e un’espansione del proprio io capace di dare alla testa. Tutto era volontà. Tutto si poteva e doveva fare. La fiducia nel futuro era totale. Per certi versi delirante.
In ottanta edizioni si sono affastellate visioni del mondo e dell’essere umano; siamo passati dalla indistruttibile volontà di dominio e potenza alla dissoluzione dell’io, alla totale perdita del sé – fino allo scollamento e scioglimento dei legami tra il sé e il noi.
Ora questa società liquida, pulviscolare, pixellata – costellata di monadi autoreferenziali vestite molto social – ha assorbito l’insicurezza della pandemia, il restaurarsi di logiche contrapposte e profondi riesami delle proprie rappresentazioni.
Non un mondo, ma un intero universo è passato ed è mutato tra il cielo del 43 e quello del 23.
Eppure la sala/caverna di Platone esiste ancora. E ancora ci si trova in tribù a condividere sogni e incubi. A chiedersi una cosa semplice: ma noi chi siamo?
Chi siamo, dopo lo smarrimento del centro, del sé, dell’io – ed infine del senso di comunità? Dopo aver rimesso in discussione la propria narrazione, dopo la polverizzazione delle visioni – diventate domestiche, intime, a pochi centimetri dal naso?
Chi siamo, dopo che le macchine hanno cominciato a sostituire la capacità dell’essere umano nella costruzione di percorsi di senso, obbligando a cercare un significato diverso a concetti quali “necessità”, “tempo”, “relazioni” e molto altro?
Ed ora, ora che, 2023 (e non nel 2001), Stanley Kubrik si è manifestato con la potenza dei profeti e Al 2000 si manifesta vivo e forse (dicono gli ottimisti) lotta insieme a noi?
Ora che la IA non è fantasy, ma docu, ora che l’essere umano ha un reale competitor in grado di sostituirlo – e lo fa a partire dall’idiozia del calcolo statistico, del tutto avulso dal senso della scelta (parola chiave); ecco, ora che chi scrive mette insieme zero e uno e lo fa meglio di chi ha avuto nonne assurde, genitori mancanti, compagni di banco da denuncia – e ogni altro genere di prezioso armamentario che fa di uno sfigato uno scrittore – ora, dico: chi siamo noi?
Lo scenario è il western: le regole sono tutte da definire. Mancano. Al momento vince il più forte.
Noi cinematografari, però, popoliamo un mondo di profeti – e uno di loro ha detto (parafrasando le sacre scritture): “Non è detto affatto che tra un uomo con la pistola e uno con un fucile, quello con la pistola sia un uomo morto”.
Ecco. Non è affatto detto.
È per questo, in fondo, che ci ritroviamo tutti qui, anno dopo anno, alla Mostra Internazionale dell’Arte Cinematografica.
Forse non abbiamo ancora sufficiente sentore del cambiamento epocale in corso. Noi, come WGI, ne abbiamo parlato. In molti incontri se n’è parlato.
Poi i film presentati hanno parlato le loro mille lingue. La società che quei film ci hanno mostrato è più o meno la parente stretta di quella dello scorso anno. Ma un cambiamento è in atto, lo sappiamo. E dunque ecco perché essere qui, e più che vedere – se è possibile – vivere.
Per chiederci se ce la facciamo, anche questa volta, a capirci e fare gruppo, metterci a cerchio con i carri, fare recinto per darci sicurezza; e poi chiederci, inevitabilmente, se bisogna resistere ed opporsi a questo nuovo arrivato – e dunque decifrarlo: è un Alien, un Male sotto nuove sembianze?
Forse potrebbe addirittura non essere un mostro, ma un alleato.
Forse. Non è chiaro.
E’ evidente però che è arrivato qualcosa che sposta equilibri, ridistribuisce le forze – altera il mondo che tutti noi abbiamo conosciuto fino a poco fa. Il nostro molo sicuro.
E dunque, certamente, dobbiamo fare i conti con la perdita. Di mondi, di certezze – anche di identità.
Ogni molo è un addio di pietra. Andarsene – o lasciare che qualcosa/qualcuno se ne vada – è sicuramente un perdere qualcosa.
Ma la mancanza, lo sappiamo, è il motore di tutto.
Ci aspettano riflessioni sul chi siamo stati e perché e come. Riflessioni dense che sapranno di rimpianto, ma dovranno contenere anche uno spazio aperto – una esitazione nel chiudere il muro. Chiamatelo, se volete, futuro.
Il cielo sotto cui siamo, oggi, fine estate del 2023 è così.
Qualcuno, tra questi reticoli, ci potrebbe pure trovare un senso. Capita, a navigare o attraversare grandi spazi. Quei segni, quegli arabeschi luminosi possono servire a non perdersi.
Come bioluminescenza nella notte.
Come strade fantasmatiche.
Come film nella memoria.
E allora partiamo.
Chissà poi verso dove.