Bollettino n. 5
L’alta pressione si è stabilizzata ormai da giorni. A ben vedere sembra che viviamo un perenne giorno della marmotta – in versione estiva. Solo il chiarore segnala puntuale che siamo a settembre; alle 20 arriva il crepuscolo – e arriva la notte. Perdiamo luce, inesorabilmente, ogni giorno.
L’ultima alba della Mostra.
(Come ci fosse un prima e un dopo… e non invece un infinito loop di pellicola ad anello, in un perenne ripercorrere le strade fatte, scoprendo nuovi significati nascosti ai primi sguardi, e consumandosi, logorandosi inevitabilmente ogni volta di più…)
L’infilata di film del giorno alla fine è scelta con il piacere perverso e sottile di chi non sceglie; è la corrente a scegliere per te.
Ogni Mostra ha i suoi momenti: picchi, cadute, tenute. Ogni volta arriva la stanchezza dello sguardo – come un rifiuto del corpo a proseguire nella maratona.
La Mostra (ogni Festival, in teoria) si concepisce come evento – dunque un Moloch non scalabile per definizione. Puoi solo guardarla da lontano. E averne paura – dei suoi meandri nascosti e inaccessibili, come tunnel di un antico forte dismesso di cui nessuno ha più le mappe…
Il sogno sarebbe, da adesso e per un mese, srotolare quella massa fino a renderla un sottile strato, spalmabile. Un impasto duro da modellare, diventato pizza. Sì, sarebbe un sogno: ogni giorno qualche film da vedere – così da poter vedere quasi tutto.
Quasi.
Perché, certo, è la chimera della conoscenza – ho visto ho capito.
Ma lo statuto è proprio questo: non puoi. Non saprai.
La vita è andare a tentoni.
Dunque la Mostra fa il suo lavoro – e si rende inconoscibile.
La vita resta misteriosa.
Rimangono una serie di incontri, di sguardi – come mutevoli punti cospicui; bisogna provare a traguardarli. In questo modo, forse, riusciremo a tracciare percorsi, cammini, mappe. Storie.
I
I capelli disordinati nella loro perfetta sequenza. Gli inseparabili occhiali attraverso cui ride o si nasconde o legge il mondo. Le mani come a disegnare, ogni tanto, concetti.
Un metteur en scène lo vedi anche da questi particolari.
Di urgenza e forma, mi parla. Urgenza e forma. Le cose che devi per forza dire. Le domande che ti fai sul come.
“Quando il tuo cinema ruota attorno all’urgenza del dover dire alcune cose che hai dentro, capita che, una volta dette, ci si fermi. Perché non hai più urgenze”.
La forma, ecco cosa. La fetta di torta, diceva San Truffaut. La tensione tra le due urgenze (forma e contenuto) fa di un film un bel film (o un film inutilmente bello).
Parliamo ai bordi di un film visto assieme. Siamo note ai margini di una tovaglia.
Scappa via. Come sempre. Inghiottito dall’ennesima storia, l’ennesima visione.
Resto a ragionare sulle briciole del detto.
Penso al film appena visto. Al modo in cui ha messo in scena alcuni passaggi. Un film, una narrazione, è fatto di scelte, lo sappiamo. Scegli cosa mettere. Cosa lasciare fuori.
C’è la forma e c’è il contenuto.
C’è l’urgenza del tema e c’è la necessità (urgenza?) della forma.
Il mio interlocutore, un regista acuto e sempre vagamente altrove, ha curato un premio in una rassegna a latere della Mostra. Ho visto i corti selezionati per questo premio; registi tutti giovanissimi e privi di qualunque budget. Mi hanno colpito – come se fossero un grado zero dell’esperienza filmica. Il grado originario, di partenza. Il dover dire.
A quei ragazzi (di ogni parte del mondo) non puoi che augurare il miglior viaggio possibile nell’universo cinema. Ragionando sul cosa – e sul come.
II
“E’ bello essere utili a qualcosa”. Sorride. Come sempre guarda lontano e buca l’orizzonte con quel suo sguardo appuntito – anche se siamo al chiuso, dentro un bar ricoperto di marmi tirati a lucido. Parla della Mostra, dove lavora. Ma anche della vita. Del saper creare gruppi di persone che condividono la stessa passione: cascare dentro uno schermo bianco infinito.
È felice ed orgogliosa: +17% di pubblico pagante. “Le persone fanno la fatica di arrivare fin qui – e lo fanno per vedere i film, capisci?”. E via di nuovo a guardare lontano, oltre il marmo. E’ sempre iper presente – e sempre anche altrove.
Anche – è la sua cifra.
“I ragazzini che urlano per chiamare i registi… in questi giorni, ho visto tante cose… e si, decisamente: il mondo non finisce nelle piattaforme digitali. Qui, alla Mostra, c’è una forza unica. Qui avverti l’emozione di essere in sala assieme a chi ha fatto la fatica di fare un lavoro per noi – per emozionarci, per dirci qualcosa… Esserci. Ecco il punto.” Fa una pausa. Come a mettere a fuoco meglio l’oggetto della riflessione. “Mi viene da dire che sono i cinquantenni, sai, che non vanno al cinema; forse sono pigri, stanchi… non so”. La voce si stanca anche lei e cala un silenzio denso. Sta pensando a più cose insieme. Ma no, non le pensa: lei le vede. Oltre i suoi occhiali, un po’ Diane Keaton un po’ Maz Kanata, lei vede cose. Le sa.
La cascata di riccioli si muove – sensibile anemometro che misura l’intensità delle idee che volano da lei al suo ascoltatore.
“Ma lascia stare i cinquantenni. Sono i ragazzini che mi colpiscono. Loro hanno forza. Entusiasmo. E loro vengono qui. Loro amano l’esperienza. La sala. Avere il tuo protagonista accanto a te.” Fierezza. Orgoglio. Consapevolezza. Quello sguardo parla.
“Sai, c’è una infermiera che mi scrive ogni giorno per dirmi dei film che ha visto. Lei si è comprata l’abbonamento e guarda tutto. È sempre entusiasta… salti mortali per riuscire a conciliare tutto… capisci?”
La sala ha un qualcosa di glaciale. L’Overlook Hotel incute sempre un effetto spaesamento. Ma non a lei. Lei non ha paura di niente. Nel suo metro e qualcosa fatto di riccioli e occhi, è capace di stritolare qualsiasi cosa.
“Io dico che le storie cambiano di forma e di contenuti. Ma questa cosa qui…” indica il mondo oltre il marmo, là fuori, pieno zeppo di gente che va a vedersi la passerella delle star; “…questa cosa qui, questo mondo più ricco e più potente di vivere la vita… questo mondo chiamato Cinema… beh, no, non sparisce. Capisci?” Chiede. Ma in realtà dispone. Ordina. Come chi sa. Lei è un bastione in difesa del mondo delle idee; un vero supereroe da cinema – e il suo super potere è lo sguardo. Perché quegli occhi vedono oltre i muri. Oltre il marmo. Oltre il contingente.
“È come con i libri: aiuto, spariranno… e invece no. non sono spariti. Si continuano a vendere. E qui è uguale. E c’è più che mai bisogno di questo – di questa Mostra, di questo entusiasmo…”
Il tempo scorre. Gli specchi del bar restituiscono un sole in caduta libera. Perdiamo una giornata. Perdiamo la luce.
Le dico la mia idea balzana di provare a indagare il tema della perdita, quest’anno. Per via di I.A. le spiego. E’ un cambio di paradigma, la perdita di come abbiamo conosciuto il mondo finora… E poi per via di altre cose, certo. Come al solito. Perché così va; le strade del senso si intersecano, si intrecciano, si confondono. Sempre. E noi li, a dipanare matasse di segole da pesca ingarbugliate.
“Sì, capisco…”
Si gira lenta. Ora mi guarda. Ma non vede me; è come parlasse ad un fantasma, ad una parte di sé che arriva da lontano. Di colpo si è fatta un tutt’uno con il marmo dietro di lei. Improvvisamente la vedo: ha i millenni della terra, la stratificazione dello scorrere del tempo. E’ la consapevolezza dell’esperienza della vita. Da quell’abisso escono due luci minuscole, ma dense. Sono gli occhi.
“Sai… ci sono punti, in tantissimi dei film che ho visto quest’anno, che mi hanno scosso… Che mi hanno tirato dentro. Dentro in fondo. Punti profondi. Momenti veri…”
La voce bassa e lenta se ne scappa via, lontano. Altrove.
Il suo rapporto viscerale con il grande schermo è qui, davanti a me. Su un tavolo ferro antracite.
Fuori tira vento. La luce ha profili netti. Taglia in due la scena.
Lei si alza di scatto. Certo, l’onnipotente orologio. È tardi.
In realtà non serviva andare oltre; quando arrivi a quel livello di incontro, tra te e quel che scorre nello schermo, hai toccato la verità.
Ed è il motivo per cui fare tutto questo.
Grazie, ancora una volta, madame.