Bollettino n. 4
Diario di bordo. Giorno 4. Tempo sereno.
Esiste la nostalgia ancora prima di partire?
Ad inizio settembre il sole, a queste latitudini, comincia a tingersi di note melanconiche. Soprattutto verso la fine del pomeriggio.
E’ che eravamo rimasti folgorati dall’assoluto di giugno e luglio, consumati dalla potenza dei primi di agosto. Da quella luce. Dal non finire mai – le giornate, le sensazioni. L’emotività.
Poi arriva quella luce, dorata, rasente i profili delle persone e delle cose. Si porta appresso un sapore di secca allungata sulla battigia. Di cieli chiazzati. Di un finire. Di un annuncio, di un senso del finire.
Ora; avete presente i balenieri prima di partire? Mesi e mesi e mesi lontani da tutto e tutti. Ecco; provavano nostalgia prima della partenza?
E se quel sentimento da polvere da sparo, quell’indicibile che scorre a fior di pelle in quei momenti, fosse in realtà ebrezza?
La scoperta. Il nuovo. Quello che ancora non sappiamo.
Nel momento in cui ci stacchiamo dal suolo – quando ci tuffiamo bucando il vuoto e affrontando l’aria – non proviamo una cosa sola, ma mille.
La nostalgia, tra tutti i sentimenti, è forse quello più legato al senso del tempo. È stratificata. Parla a ciò che sapevamo. Che avevamo duramente lottato per costruire. Per essere.
E che andandocene, perdiamo.
E questa è una rottura dell’equilibrio.
Inevitabilmente parte la ricerca di un nuovo equilibrio. Di un nuovo senso. O forse del senso.
E parte una storia.
Quando ci si dà degli appuntamenti ciclici, annuali, si sfida la legge della continuità, del prima e del dopo.
Ci si ritrova. E’ passato un anno. Un tempo infinito fatto di una fatica da non credere, di energia corsa via da noi come acqua nelle rapide. Molto, in noi, è andato. Forse perduto.
Siamo cambiati.
Ed eppure, nel ritrovarsi all’appuntamento, molto di quel che ci circonda può dare l’idea di essere rimasto immobile. Come fosse paralizzato.
Non lo sai, ecco. Se stai guardando bene le cose, se ci vedi giusto. La sensazione distopica è forte.
Perciò ogni volta, nel ritrovarci dopo la lunga traversata durata un anno, facciamo questo: fissiamo l’ottotipo. Cerchiamo lettere che sappiamo riconoscere. Per poi, forse, re-interpretarle. O magari inventarle.
Se poi siamo anche fortunati, qualcosa capita che riconosciamo.
Se siamo perfino bravi, a volte, semplicemente, siamo capaci di guardare. E basta.
E dunque siamo ancora qua, a trequarti della Mostra. Dopo un anno di traversata e dopo giorni di fatica.
Sincronicità, ecco un punto. Trovare il sincrono tra il nostro e lo sguardo degli altri. Molti altri.
Una questione di tempo. Come sempre, una questione narrativa.
Ma anche una questione di numeri, sembra. Perché la Fiera/Mostra questo fa: espone cose. E più ne espone più riesci a farti un’idea – forse – di cosa giri da quelle parti, in quel tempo.
Dunque sincronizzarsi alla fiera, questo serve fare qui al Lido.
Ed eppure.
Eppure questa è una storia di balenieri in partenza.
Perché non tutte le partenze sono uguali. E noi oggi non stiamo partendo per un giretto panoramico di qualche ora.
Partiamo per mesi. Forse per anni. Forse qualcuno di noi non farà ritorno.
Aleggia nel nostro destino un Moby Dick che sembra avere delle iniziali semplici: A.I.
Non è chiaro se è chiaro a tutti.
In fondo si viene qui alla Mostra anche per questo: capire.
Noi WGI alla Mostra siamo venuti esattamente per questo: gettare luce, parlarne, tirare fuori. Per provare a capire. Insieme.
Noi siamo in allarme.
Perché lo siamo più di altri? Forse per una questione di attenzione ai segni. Tipo alla forma delle nuvole. O al corrugato grattante dell’onda corta che spiaggia.
Cose così.
Quel che sappiamo con certezza è che su di noi aleggiano domande importanti.
Cosa saremo noi, quando la rivoluzione sarà completa. Come saremo noi.
E quella sensazione, indicibile e netta, di essere antichi per tutto. A cominciare dalla nostalgia del molo.
E’ in questo contesto che WGI ha organizzato, nelle giornate della Mostra, il convegno sulla A.I.. Un appuntamento che ha lasciato un segno. Perché se ne parla. Parecchio. E non solo nel circuito dei media. Se ne parla tra di noi, tra sceneggiatori. Come ci fosse un bisogno disperato di non lasciare nessuno indietro.
“Nessun’altro morirà” dice il protagonista del film di Garrone. Ma lui è un ragazzo. Un ragazzo abraso dalla brutalità della vita – e tuttavia ancora con lo spleen della sua straripante vitalità. Lui vuole – vivere e far vivere.
Noi, organizzazione nell’epoca dello smantellamento delle organizzazioni, vogliamo vivere e far vivere. Ovvio che non possiamo promettere nulla. Non possiamo. Ma vogliamo, questo sì.
È il momento, perciò, della chiamata in correo: vai e aiuta. Tu, tutti.
Il cambio di paradigma non lascia fuori nessuno.
Quel segno bianco, quel marmo, quell’odore salmastro di terra acqua cordame e nafta, è casa nostra. Di tutti noi. E’ il nostro molo. Ed è sempre più lontano.
La sensazione di solitudine nel guardare il nostro passato che svanisce alla vista è quel brivido che ci fa riconoscere allo specchio. Ci accomuna tutti.
Tutti abbiamo paura della perdita. Da sempre nessuno ne è risparmiato. Ieri abbiamo perso un gigante – Montaldo. Con quella sua personalità, quella voce, quello sguardo. Una Mole che si sentiva. E così è: figure, stili; mondi. Tutto va, si perde nella profondità del mare.
Sì, tutti perdiamo, continuamente. Parti di noi, ecco cosa.
Scrivere è cercare di colmare quel buco, quella perdita. Altrimenti perché farlo.