Bollettino n. 10
Che poi, il turning point arriva.
La Mostra, si sa, ha una precisa collocazione: è costruita su quel po’ di terra che emerge dalla sabbia. Non è terra ferma, ma non è nemmeno un banco di sabbia mobile. Il fatto è che la Mostra è per definizione transfrontaliera. Tra mare e laguna, tra industria e autori, tra l’estate e l’autunno.
Il turning point oggi ha preso la forma di sbuffi bianchi sopra un orizzonte di tegole. Le raffiche a 29,5 nodi arricciavano con voluttà l’acqua nebulizzata all’impatto sul coccio. Il grande albero in fondo, quello che svetta sopra ogni tetto come a presidiare la presenza dell’arsenale, piegava con riluttanza – ma piegava.
I mondi cambiano. E spesso il cambio di paradigma non è faccenda da guanti bianchi e regole dell’etichetta.
Le tempeste spazzano via quel che era prima.
Il problema è il poi. Che ci aspetta dietro l’orizzonte?
A che punto è la notte?
Me lo immagino, con la sua testa esageratamente grande, evidenziata pure da quella criniera indomabile che gli incornicia occhi sempre spalancati. E’ un costante sopra le righe – che contrasta fortemente con un modo di stare seduto che tende allo spalmarsi sulla seduta, come a diventare un tutt’uno con il suo contenitore. È che lui è tanto. Questo verrebbe da dire in sintesi. Sceneggiatore, scrittore, produttore… Tanto.
Si prende un tempo. Sento gli ingranaggi della sua testa pensare: “Vaste Programme…”. Poi comincia.
“C’è bisogno di guardare l’orizzonte a lungo. Penso che siamo in una fase di cambiamento. Non è una questione di tecnologie. È una questione globale. A prescindere dal cinema. E’ che in questo momento non arriva qualcosa… anzi è un momento in cui parte qualcosa…”
E’ vero, a volte certi discorsi possono avere un tono da obliquità. Sorvolano tutto, sembrano non atterrare mai nello specifico.
Ma non è vero. È che il Vaste Programme è esattamente il fulcro della faccenda. La nostra realtà è decisamente densa e complessa – ma gli output, che riceviamo al riguardo, ci paiono poveri rispetto a questa complessità. Ecco perché serve un ragionamento ampio, che prenda in considerazione tutto l’orizzonte del mare davanti a noi. Non solo le grandi e riconoscibili figure delle navi, ferme all’ancora, a dieci miglia dalla costa. Non solo quel che già conosciamo. Il difficile è guardare costantemente a pelo d’acqua, cercando l’ignoto che si palesa all’improvviso.
“Il fatto è che non mi risulta che ci sia in giro qualcuno che dica: ‘io ho una lettura nuova del mondo’. Non c’è proprio. E non c’è perché il mondo che vediamo oggi è molto difficile da leggere. Sta arrivando una fase diversa da quel che è stato finora. Gli equilibri si stanno spostando, stanno cambiando. Ma non sono chiari. È tutto un divenire.”
Mentre parla penso che lo vorrei in barca, per restituirgli tutto questo in quel condensato assoluto fatto di legno e corrente e vento.
“E dunque: a che punto ci vedi? Come sta andando questa notte?”
La sua voce riprende come non avesse mai interrotto, inevitabile come un rasoio.
“Noi – intendo quelli a cavallo della nostra generazione – siamo vissuti in un equilibrio socioeconomico molto preciso. Il nostro mondo era chiaro. Ma oggi no, non è così. Dunque… come sta andando? Direi che oggi siamo negli anni ’20 e ’30 del ‘900. Stiamo aspettando. E quando ci sono queste fasi incerte le arti possono prendere solo due direzioni: o quella del continuare a fare belle e riconoscibili rassicurazioni (va tutto bene, ci riconosciamo in questo), o quella delle avanguardie – ma oggi questa strada ha la peculiarità di poter emergere da una vera infinità di linguaggi. Perché, si, abbiamo a disposizione talmente tanti linguaggi, oggi, da non poter sapere quale sarà la forma che prenderà la nuova avanguardia”. Si ferma. Rifiata. Mi viene in mente un nuotatore enorme, nella sua muta nera, che emerge dall’acqua, bracciata dopo bracciata, implacabile e potente. Ma ogni tanto si prende una frazione di tempo in più, per respirare. Ma è un attimo. Solo un attimo. “E nemmeno da dove arriverà! Infatti il mondo di oggi non è certo più solo il mondo che conoscevamo bene, plasmato da Yalta e dai sucessivi adattamenti… oggi può arrivare da ovunque e in qualunque forma. L’unica cosa che sappiamo è che non sappiamo niente. E’ evidente che siamo in una fase di nebbia. E dunque riguardo al cinema: non ci sono voci abbastanza forti da emergere, non bucano la nebbia.”
Fuori la tempesta ha appena smesso. Di certo non è passata del tutto. Una foresta di perle è il lascito dello scroscio sui vetri. Per un attimo il mondo brilla in un modo desueto. Come a voler sbugiardare con i fatti il ragionamento del mio interlutore – che parla di nebbia, ma ci vede benissimo.
Gli parlo della visione del cellophane, di cui qui, alcuni giorni fa, ci occupavamo. Questa considerazione che il patinato, ovvero l’estetica del controllo (che corrisponde ad una necessità della visione capitalistica della vendita), alla fin fine abbia “allevato” generazioni di persone incapaci di affondare le mani nel terriccio umido e viscido della vita, ovvero nella verità. Che insomma questa distanza, questa mancanza di sguardi, possa arrivare anche da lì, da quei maledetti anni in cui l’economista ha vinto su ogni altra spinta.
“No, non è questo. Non è il patinato che ci impedisce di cogliere la complessità. Io mi riferisco ad una questione più squisitamente politica. Noi dell’età d’oro abbiamo raccontato un po’ tutti la stessa storia. E questa storia era il prodotto di aspirazioni e punti di vista dominati, nonché indirizzati, dalla cultura americana, dal loro stile di vita. E questo ci ha fomati – sia al positivo che al negativo. Il fatto è che il punto di vista a cui noi facevamo riferimento era molto forte. Era chiaro. Ora questo punto di vista è in crisi. Questo nostro mondo non è più dominato dalla supremazia americana. Ma non basta…: non è dominato da nulla! Ecco il punto. Non sappiamo dove sta andando il mondo”.
Si ferma un attimo. Altra boccata d’aria. A dire il vero una rarità, nel suo parlare come un fiume in piena.
“Te lo ricordi: ‘la fine della storia’?. Beh; che scemenza assoluta…! La Storia non è certo finita. Solo che non sappiamo che forma stia prendendo”. Si certo. Ricordo. E rilancio sull’altra fine annunciata: la fine del cinema.
“Il cinema ha dimensioni diverse: quella tecnologica, quella artistica, quella della fruizione… tante dimensioni diverse. Ma il motivo fondante del cinema non finirà mai: immagini che saltando la continuità temporale della vita reale, procedono per salti emotivi. Nella vita reale, al momento uno segue il momento due; nei sogni e nel cinema al momento uno segue il momento cinque o mille, a seconda dell’emozione. Quel modo di ‘usare’ il tempo è proprio del nostro sognare. E la tecnologia inventata allora, con le immagini in movimento, ci ha restituito questa grande fortuna: poter raccontare qualcosa che ci è profondamente connaturato. È perchè noi sogniamo. E dunque il cinema non finirà mai, perché noi non finiremo mai di sognare.”
Discorsi di questi giorni… penso. Ma lui non c’era, non li ha sentiti. Ed eppure.
“Forse potrà finire la dimensione di fruizione delle sale, o forse quella del fatto industriale. Non lo so. Ma il bisogno del racconto in forma di immagine in movimento, con la capacità di saltare il senso del tempo – insomma questo nostro modo di restituirci i sogni… beh no, questo non finirà mai.”
La pausa a questo punto prende una piega diversa. Come avesse spostato tutta quella massa da un lato, per poter vedere dall’altro lato dello scafo.
“Solo che… una cosa è la possibilità di raccontare, ma ben altra faccenda è COSA raccontare… e questa è la dimensione più strutturalmente narrativa. E questo al momento non c’è. Il fatto è che sotto quel cellophane non si nasconde solo un mondo ‘sporco e storto’, ma bensì mille mondi sporchi e storti. Ed eppure al momento sembra che non si sappia raccontarli, quei mondi… insomma sembra che oggi non ci sia moltissimo da dire – intendo qualcosa di nuovo. E dunque c’è smarrimento. Ma capiamoci: non è che non sono capaci i registi o gli scrittori o altro. Le persone capaci ci sono. È che oggi non è proprio possibile capire quali tipi di mondi esistano. Capisci?”
Chiaro.
Mi è capitata una attraversata del mare in notturna, senza alcuna strumentazione a bordo. Il meteo volse al peggio – e dunque anche la luce della luna si spense. Arrivavano le onde alla tre quarti, e non sapevi letteralmente cosa ti avesse colpito. Non sapevi nulla di quel che era attorno a te – oltre a quello che vedevi illuminato dalla piccola luce di bordo. Il resto era solo immaginazione dell’ignoto. Ecco di cosa mi sta parlando.
“Ultimiamente insegno. E trovo interessantissimo cercare di capire questi giovanissimi. Ecco; la loro attenzione così breve, il loro linguaggio visivo basata su Tik Tok, credo abbia una chiara spiegazione: se il disegno complessivo è troppo complesso, devo riorientarmi verso qualcosa che è alla mia portata. Se non riesco a vedere tutto l’enorme disegno del mosaico, mi concentro solo su quelle piccole tessere del mosaico. Sono le uniche cosa che ho a portata. Il film lungo, a vent’anni, loro lo sentono emotivamente non vero, non a portata…”
E così torniamo a parlare della complessità, della difficoltà di conciliare il chiedere alle persone di fae gradini più alti, con l’esigenza del rispetto per le capacità reali di tutti. sembra sempre tutta una questione di tensioni, di equilibri. Nel vedere, nel sapere, nel costruire. Una questione di responsabilità in chi ha le redini in mano, per certi versi.
“la democrazia è in affanno perché i contenuti non sono più chiari. La politica – la responsabilità – senza continuti, è solo un posto per carrieristi. In questo momento le persone di spessore non si avvicinano alla politica perché non hanno niente da dire. Il cellophane nasce anche da questo. Ci sono gli economisti al governo, ovunque – perché i politici non ci sono. E non ci sono perché, semplicemente, non c’è una visione”.
Ecco perché la nebbia. Ecco perché il cellophane. Mi lancio sulla necessità di cercare il senso umano, nei rapporti, nella visione delle cose… riparte di colpo.
“Ricordiamoci che il capitalismo corrisponde ad un punto di vista estremamente umano. Te la ricordi quella frase? ‘noi riusciamo a mangiare carne grazie all’avidità del macellaio’. Sai quel’è il nocciolo di tutto? Lo aveva colto Olver Stone in Wall Streat: ‘greed is good’. L’avidità è bene. Questa frase è il modo giusto per capire I nostri ultimi 40 anni. E ricordiamoci che questa visione, questo capitalismo, nasce come risposta alla psicologia degli essere umani. Ma anche ‘greed is good’ è in crisi,. I ragazzini di oggi hanno tutto – ma non sono felici. Questa ottimizzazione non ci basta…”
“Cosa ci manca?”
“Sembra incredibile che ci manchi qualcosa, perché oggi davvero dobbiamo riconoscere che è tutto facile. Ma non possiamo non accorgerci che tutto questo non ci fa felici. E quello che ci manca è una visione. Le visioni solidaristiche hanno fallito anche loro… Il punto è questo: finchè non arriva una nuova visione, non abbiamo nulla da dire. Non avendo scoperto nulla di nuovo, le forme espressive, come logica conseguenza, non hanno nulla da dire…”
Dobbiamo chiudere. Il discorso è stato davvero ampio. Gli enormi nuvoloni neri che gravitano sopra Venezia sembrano il condensato di tutto questo: sono la loro forma visiva più immediata. Sono scuri, ma allo stesso tempo nettamente visibili. Da qui.
E’ quando stia là in mezzo che tutto si fa complicato. Perché là in mezzo è tutta nebbia.
Verrà il vento di tempesta e spazzerà ogni cosa.
Noi, intanto, rinforziamo gli ormeggi.