Care bestie
Carissima Gisella, come hai sviluppato l’idea di “Care Bestie”? C’è stata un’ispirazione particolare?
L’idea è nata dal regista Andrea Malandra e la sceneggiatrice Erminia Cardone durante il lockdown del 2020, quando si stava vivendo un corto circuito tra la realtà vissuta tra le mura domestica e il desiderio di abbattere quelle mura attraverso l’esposizione delle nostre vite sui social.
Da lì poi mi sono aggiunta per la scrittura del soggetto e successiva sceneggiatura. Abbiamo lavorato sulle questioni della iperconnessione e sulle sue conseguenze nella vita quotidiana, mantenendo viva l’attenzione sul tema della perdita del senso di realtà.
Come hai deciso di utilizzare la figura dell’influencer per raccontare la perdita di identità delle persone e degli animali?
Abbiamo utilizzato la figura dell’influencer, più precisamente della pet influencer, per raccontare come l’identità digitale si sia sovrapposta a quella reale; è stato stimolante esplorare un’aberrazione, cioè come le persone si identificano con quello che sono sullo schermo. Abbiamo indagato come l’interattività del web stia riprogrammando la vita degli individui, plasmando la loro attività cerebrale e il loro immaginario, fino alla perdita della percezione di sè. Anche gli animali nella storia presentano questa doppia condizione di perdita, da una parte espressa dalla loro immagine addomesticata e fortemente antropizzata sui social e dall’altra dall’animale selvatico che si ritrova in un ambiente estraneo, quello urbano e desertificato di cui abbiamo fatto esperienza durante il lockdown.
Quali sono stati i maggiori ostacoli durante la scrittura del soggetto e poi della sceneggiatura?
Una delle difficoltà è stata sicuramente quella di infondere nella scrittura una sempre maggiore visionarietà che era poi necessaria al lavoro del regista. Andrea viene dal video sperimentale e per lui era importante che ci fossero delle possibilità di disconnessione e di riassociazione non narrative. Mentre per noi era fondamentale riportare quelle soluzioni ad una verosimiglianza e a degli snodi narrativi più intuibili. E’ stata una bella lotta.
L’altro elemento di difficoltà che abbiamo dovuto affrontare nella sceneggiatura è stato quello di mantenere traccia dell’aspetto distopico, che ci siamo prefissate fin dall’inizio. Questo perché ci siamo rese conto che alcune cose che ritenevamo distopiche coincidevano in fin dei conti con la realtà attuale. Molte persone che hanno visto il film hanno confermato la nostra sensazione.
Il fattore economico inoltre ci ha creato non pochi ostacoli, anche se non dovrebbe essere così. Scrivere un film per una produzione indipendente che può contare solo su qualche migliaio di euro condiziona inevitabilmente gli intenti perché già si prefigurano gli ostacoli realizzativi. Il cinema indipendente alla fin fine permette di sperimentare, ma limita tantissimo. La nostra fortuna è stata quella di aver lavorato in un ambiente sereno e collaborativo dalla fase di scrittura fino alla sua realizzazione; Andrea riesce a creare un clima bellissimo sul set di grande apertura e di possibilità che ci ha permesso anche di dare suggerimenti sul cast.
Qual è il messaggio che vuoi che il pubblico capisca attraverso il film? Ci sono temi specifici su cui vi siete concentrata?
Uno dei concetti che ci ha ispirato è stato quello esposto nel libro di sociologo Vanni Codeluppi della ‘vetrinizzazione” dell’uomo nei social che ha reso evidente la condizione di solitudine dell’individuo moderno. Allo stesso modo ci siamo ispirate a “La maschera” di Pirandello, al suo rovesciamento di vita e forma, estremizzate in un mondo apparentemente surreale ma terribilmente attuale.
Mano mano che andavamo avanti nella scrittura abbiamo capito che il messaggio era rivolto a tutti noi utenti social, come se la nostra immagine in pixel e bit fosse qualcosa di diverso da noi con cui fare i conti e come sia oramai fuori dal nostro controllo e pericolosamente interscambiabile. Il messaggio che io ed Erminia abbiamo voluto trasmettere è proprio quello di stare attenti a non delegare la vita materiale e fisica alla realtà virtuale.
Writers Guild Italia ha ribadito il proprio sostegno allo sciopero dei colleghi statunitensi in merito ai compensi irrisori e a clausole lavorative veramente penose. Secondo te, cosa si può fare di più per risolvere questa situazione?
Cosa si possa fare di più è complicato, perché incrociare le braccia come già stanno facendo in America, paralizzando una bella fetta della produzione televisiva e cinematografica è già tantissimo! Resistere fino a che non si sia ottenuto il rinnovo dell’MBA è fondamentale.
Una proposta? Rimango nell’ambito distopico. Immaginate se questo sciopero fosse fatto dalla totalità degli sceneggiatori quanto meno del mondo occidentale, una rete planetaria dove tutti d’accordo incrociassero le braccia in un momento in cui le piattaforme dominano il mondo. Un blocco compatto e solidale! Il paradosso è che in Italia bisognerebbe scioperare non per migliorare ma per imporlo un contratto collettivo! Distopia…appunto.