Francesca Scanu racconta della sua partecipazione a Biennale College Cinema
L’avventura di una Santa Piccola
Emozione e adrenalina, in bilico tra queste è vissuta per una settimana la nostra socia, Francesca Scanu, sceneggiatrice e produttrice che, grazie a Biennale College, ha potuto realizzare il lungometraggio “La Santa Piccola” scritto con e diretto da Silvia Brunelli.
La Santa Piccola ha ricevuto complimenti e critiche, come ogni film che si rispetti. Voi che percezione avete avuto?
La temperatura della sala era calda e ogni giorno riceviamo messaggi pieni di affetto anche da chi lo ha visto sulla piattaforma di MyMovies Biennale Cinema Channel. Per noi è stato strano: abbiamo seguito ogni istante della post produzione, visto ogni montato, discusso continuamente delle migliorie da fare, e probabilmente non abbiamo avuto una vera visione d’insieme fino all’anteprima. È un film strano, ha una sua ricchezza pur con un piccolo budget, e sapevamo che avremmo avuto feedback contrastanti. In Sala a noi è sembrato più coerente e omogeneo di quello che ricordavamo, e siamo finalmente tornate a emozionarci.
Com’è andata l’esperienza con Biennale College?
Per me e la regista è stata una cosa immensa.
Il processo di sviluppo segue un ritmo forsennato, nell’arco di pochi mesi si passa da un concept di una pagina all’ultima stesura di una sceneggiatura. Il livello di confronto è altissimo grazie ai tutor, che sono sceneggiatori, script doctor e produttori esperti provenienti da tutto il mondo. Personalmente non posso che consigliarlo, anche considerando che il tempo medio per un esordio in Italia è di 5 anni, e qui in 11 mesi si ha un film in anteprima a Venezia.
Mi sai spiegare perché gli sceneggiatori puri non possono scrivere per Biennale College?
Biennale College Cinema prevede che il team sia costituito da un regista e un produttore. Gli sceneggiatori possono partecipare come figure terze di un team, ma a spese della produzione, e in caso di vittoria non firmano comunque il contratto con Biennale. Credo che abbiano deciso di costruire così il workshop principalmente perché in un film a micro budget lo sviluppo non può mai prescindere dalla visione del regista e dalle esigenze produttive, e sono quelli i due elementi che si incontrano (e spesso scontrano) durante tutto il processo. La gran parte dei team aveva comunque uno o più sceneggiatori che lavoravano a distanza coi partecipanti durante i vari workshop, oltre che tra un workshop e l’altro.
Ci racconti la tua esperienza e quella dei tuoi colleghi? Avete ottenuto ottimi risultati anche con un piccolo budget, quali strategie avete utilizzato?
La nostra forza è stata la coesione. In generale, Biennale College premia i team che sanno davvero lavorare insieme. Tra me e Silvia Brunelli, la regista de “La Santa Piccola”, c’è un rapporto di amicizia di lunga data. Lo sviluppo del film, in termini di scrittura, è stato complesso. Partivamo da un adattamento letterario ma avevamo a cuore un tema diverso rispetto al libro e volevam dare spazio anche a quello. I nostri tutor ci davano feedback contrastanti. Alla fine abbiamo cercato di capire cosa ci risuonava, cosa aveva davvero a che fare col nostro tema, e cosa davvero volevamo raccontare. Silvia dà molto peso alla scrittura e ha immensa fiducia nella sceneggiatura, soprattutto per ciò che riguarda l’approfondimento dei personaggi. Per il resto personalmente sono abituata a lavorare su film low budget e micro budget e conosco bene il processo produttivo, quindi se nella scrittura ho sempre tenuto il punto su alcune scelte che non ci saremmo potute permettere, le strategie pratiche sono state quelle di tutti i piccoli film: attori disposti a mettere davvero il cuore nel progetto, troupe giovane e appassionata, pochi mezzi tecnici, tanto sostegno sul territorio. Noi, al Rione Sanità, abbiamo trovato una nuova casa e una nuova famiglia.
Pensi che il budget ristretto possa incidere sul genere? Magari costringe a realizzare film più intimisti e drammatici, piuttosto che una commedia?
Sicuramente costringe a pensare film con dinamiche più semplici, poi che siano drammi o commedie poco importa. Anche l’horror spesso si presta a essere realizzato con poche risorse, puntando sulla claustrofobia, sul ritmo, sulla suspance. Nel nostro caso noi abbiamo una commedia amara, con alcuni momenti divertenti, ma indubbiamente si può pensare un film a micro budget quando ciò che conta è l’intimità dei rapporti tra i personaggi, piuttosto che un plot forte e pieno di action.
Qual è il reale scenario per i filmmakers? C’è spazio nel mercato e nelle piattaforme?
Credo che ce ne sia tanto, mai come adesso anche per le donne. L’unica preoccupazione è legata alla sala cinematografica, che vedo sempre più marginale e temo che questo porterà a una generale omologazione dei contenuti e dello stile. La globalizzazione delle storie e delle immagini.
Il vostro film è stato venduto? Andrete ad altri festival?
Minerva Pictures e TVCO si occupano della distribuzione internazionale del film. Per ora è presto per dirlo, ma siamo in attesa di sapere quali e quanti festival lo prenderanno. Incrociate le dita per noi!
Tu nasci come sceneggiatrice e in questo caso ti sei trasformata anche in produttrice. Che farai da grande?
È una domanda che mi fanno spesso anche se ormai ho 35 anni, ma in realtà io ho una storia lavorativa un po’ complessa. Ho studiato sceneggiatura, la drammaturgia è e resterà per sempre il mio primo grande amore, ma i miei primi lavori (quelli che mi hanno permesso di diventare davvero indipendente) sono stati sul set, nel reparto regia. Siccome poi mi piace avere una supervisione generale sulle cose nel 2013, a 27 anni, ho fondato una società di produzione, la Cocoon. Con questa ho prodotto cortometraggi selezionati nei festival di tutto il mondo, che hanno vinto premi importanti, coprodotto un lungometraggio che abbiamo distribuito in sala e venduto in Corea del Sud e Giappone, seguito lo sviluppo e la parte finanziaria di diversi film senza firmarli. Insomma, ho da sempre una doppia anima, e spero di mantenerla a lungo. Ti confesso però che qui in Italia sono considerata una strana creatura e quelle che dovrebbero essere risorse sono percepite come limiti. Ammetto che lo trovo assurdo: è considerato assolutamente normale che un regista sia anche produttore, perché uno sceneggiatore invece non dovrebbe poter fare lo stesso?