Davide Potente
Il Mestiere del Capitano
Davide, da dove è cominciata questa avventura?
Io sono principalmente uno sceneggiatore ed è stata un po’ un’eccezione che abbia realizzato questo documentario. Seguo il Parma da quando ero piccolino. Dopo che il Parma era retrocesso dalla serie A alla serie D dilettanti, solo un giocatore, Alessandro Lucarelli, da capitano, aveva scelto di restare in questa squadra. Il suo attaccamento alla maglia e anche alla città sarebbe stato già da solo un argomento importante da trattare in un film o in un documentario, ma quando il Parma ha cominciato la sua promozione, che in breve ha portato la squadra dalla serie D alla B ho pensato: “Vuoi vedere arriva anche la terza promozione consecutiva? Se succede devo esserci, devo filmarla!”. Così ho contattato Lucarelli, gli ho detto di questo progetto e, quando sono venuti a giocare qui a Bari, ci siamo visti. Era la fine del 2017 quando abbiamo iniziato a parlare del progetto. Ci sono stati un po’ di sopralluoghi e abbiamo dovuto trovare anche una produzione e i fondi necessari a realizzarlo. Insomma, è stata una cosa molto lunga, abbiamo anche attraversato in pieno il periodo della pandemia, le difficoltà non sono mancate.
Quali difficoltà avete dovuto affrontare?
La produzione era di Bari e il fatto di non essere sul territorio ci ha penalizzato. Un’altra difficoltà aggiuntiva è stata il calendario, bisognava rispettare le date delle partite e organizzare tutto in funzione di quello e della disponibilità delle persone da intervistare. Inoltre, avevamo una grande incognita sulla fine del campionato. Abbiamo iniziato a girare che ancora non si sapeva se questa terza promozione sarebbe arrivata o meno; quindi, è stata un po’ una scommessa. Certamente sapevamo che sarebbe stato un film che raccontava la decisione di un capitano di rimanere nonostante la retrocessione in D e bastava quello, ma, quando è arrivata anche la ciliegina sulla torta del passaggio in A, questa storia è diventata davvero una piccola favola.
Qual è stato il momento più emozionante?
«L’ultima partita a La Spezia. In quella occasione si decideva il futuro del Parma in serie A o meno. Dipendeva tutto da quel risultato. Negli ultimi minuti mancava il risultato dell’altra partita utile per andare in A e, quando stavamo pensando già come avremmo potuto fare con i play off, è arrivato un gol e abbiamo capito che quello che stavamo raccontando assumeva un valore diverso, era diventato una favola, era tutto un po’ più magico.
Il documentario racconta anche e soprattutto la significativa figura di un calciatore, Alessandro Lucarelli. Da che punto di vista?
Alessandro Lucarelli, in uno dei primissimi nostri incontri, mi aveva detto che quella sarebbe stata comunque la sua ultima stagione, perché arrivato a 40 anni voleva chiuderla così. Non ne era sicuro, ma c’era questa possibilità. Ho cercato non di raccontare il calciatore come fosse una figurina. Volevo raccontare anche quello che c’è dietro, la persona con la sua famiglia, un padre che ha tre figli e deve prendere decisioni che influenzano anche loro. Ho voluto raccontare quindi più l’uomo dietro al calciatore che tutti conoscono, senza creare una immagine da santino, senza esaltare il mito. E volevo mostrare un altro aspetto, la parte finale della carriera di uno sportivo e il modo imprevisto in cui sono accadute le cose più inaspettate.
La sceneggiatura di un documentario è assai diversa da quella di un film di finzione.
Da sceneggiatore mai avrei pensato di dirigere un documentario. Di mio sono più orientato sulla fiction. Ma quando accade di imbattersi, quasi casualmente, in una storia come questa, il modo migliore per raccontarla è il documentario. Servivano le testimonianze di chi ha vissuto quegli anni e anche quegli ultimi minuti. Per me questa è stata una cosa totalmente nuova, non avevo il controllo di quello che sarebbe successo. Mi piace molto raccontare le imprese impossibili, ma non mi piace l’improvvisazione, mi dà un po’ un senso di approssimazione. È stato difficile accettare questo modo di lavorare, ma devo dire che invece sono venuti fuori dei regali inaspettati e pazzeschi.
Chi tipo di approccio hai scelto?
Questa storia era già fortemente strutturata di suo. Aveva un suo percorso. Inizia con un fallimento, con la decisione di tornare in serie D. Poi c’era il passaggio dalla serie C alla B e la decisione di Lucarelli di ritirarsi. Quindi avevo già un ordine cronologico da seguire e in questo ero agevolato. C’era poi però il discorso delle interviste. Mi è stato da subito chiaro che non volevo una voce fuori campo. Questa storia era già bellissima di suo, era una favola, in essa c’è già un’epica sportiva e non volevo che diventasse un racconto retorico. Avevo previsto dei blocchi narrativi che seguivano l’ordine cronologico della storia e in ciascun blocco ho inserito i temi di cui volevo parlare. Volevo che tutti parlassero degli stessi argomenti da diversi punti di vista, come fosse un unico discorso fatto da più voci. Per questo bisognava scegliere opportunamente il luogo e le domande, studiando tutto quanto, cercando anche un po’ di prevedere le risposte in modo da orientare la storia, anche se di fatto non sai mai cosa ti verrà detto. Ho dovuto trovare un equilibrio tra le cose, non è stato proprio facile, anche perché c’era il me tifoso e il me che stava lì a lavorare. Il tempo però mi ha aiutato a guardare le cose con un po’ più di consapevolezza e ad acquisire il giusto distacco.