“Dietro un ragazzo che sbaglia c’è sempre una storia”
Maurizio Careddu e Cristiana Farina parlano di Mare fuori
Abbiamo intervistato il nostro socio Maurizio Careddu e Cristiana Farina, autori e ideatrice della serie cult Mare Fuori che, solo con la terza stagione su Raiplay, ha superato i 105 milioni di visualizzazioni nel solo mese di Febbraio, contando su giovani con meno di 25 anni per oltre il 40% della platea.
Da dove nasce l’idea di raccontare la vita dei ragazzi del carcere minorile?
Cristiana: È nata tanto tempo fa, mentre lavoravo ad Un posto al sole. Spesso vedevo il carcere minorile e immaginavo cosa sarebbe potuto accadere lì dentro. Poi un giorno ho fatto un seminario teatrale a Nisida ed è scattato qualcosa. L’ho scritto, la Rai ha opzionato il progetto ma non se n’è fatto più nulla. E, a distanza di quindici anni, l’abbiamo ripresentato insieme al produttore Roberto Sessa al capostruttura della Rai, Michele Zatta, che si è battuto per farlo realizzare.
Siamo andati con Maurizio (Careddu, ndr) a Nisida per incontrare i ragazzi e abbiamo scritto una nuova stesura del progetto che è stato approvato.
Mi sono accorta che nel corso degli anni, le cose sono cambiate, oggi i ragazzi detenuti a Napoli vengono da tutta Italia e quindi non sono sempre legati a famiglie di “sistema”. Abbiamo cercato di mettere a fuoco l’attuale disagio minorile con temi che non vedono il reato al centro del racconto, ma piuttosto le motivazioni e spesso il vuoto esistenziale, culturale e sociale per cui si arriva a compierlo.
Maurizio: Dietro un ragazzo che sbaglia c’è sempre una storia. Ci sono emozioni e paure. Credo che condannarli e basta non sia la strada giusta da seguire. Bisogna dargli una speranza, una seconda possibilità che rappresenti un futuro che loro non sono in grado neanche di immaginare. Tutti sbagliano, ragazzi e adulti, ma s’impara dai propri sbagli se si hanno a disposizione degli strumenti per superarli. I minori che abbiamo incontrato sono delle bombe di rabbia spesso senza una guida, senza una famiglia, senza nessuno che possa aiutarli ad incanalare questa energia tipica della loro età in qualcosa di positivo.
Bisogna riconoscere che la serie riesce a coinvolgere un’audience intergenerazionale. E già questo, è un grandissimo successo.
Maurizio: Ci fa piacere pensare che queste tematiche possano aprire un dibattito intergenerazionale. Ho ricevuto tante testimonianze di amici e conoscenti che si sono ritrovati davanti allo schermo a vedere la serie insieme con i figli. E si sono confrontati su temi intorno ai quali magari non è così semplice parlare. In un momento storico come questo, nel quale il dialogo tra genitori e figli è complicato, lo considero un obiettivo raggiunto.
La storia di Filippo permette l’identificazione completa anche di chi non è campano. Come avete strutturato questo personaggio?
Cristiana: È un coming of age, una narrazione che esplora l’età adolescenziale e quel momento della vita nel quale ci chiediamo chi siamo. O quantomeno cerchiamo di capirlo. Filippo non nasce in un ambiente criminale e quindi fornisce a tutti noi la possibilità di empatizzare con un racconto che, erroneamente, pensiamo non ci riguardi.
L’adolescenza è anche la fase più temuta dai genitori perché i figli iniziano a sperimentarsi nelle situazioni più disparate e lo fanno proprio per capire chi sono. Gli adolescenti anelano alla libertà assoluta, ma gestirla è il vero problema e se lo fanno senza un controllo possono arrivare a creare danni. Un minorenne ha bisogno di limiti in cui muoversi proprio per poterli superare in sicurezza, e la misura di questi limiti è compito degli adulti darla. Quando questa attenzione viene a mancare, e può succedere non solo perché le famiglie sono assenti, ma al contrario anche per eccesso di amore. Molti genitori oggi considerano i loro figli alla stregua di un trofeo. La tendenza è quella di proteggerli da ogni sorta di dolore, non permettendogli così di confrontarsi autonomamente con la realtà e rendendoli per questo più fragili ed esposti alle difficoltà della vita. Filippo è un esempio di questi ragazzi.
Ma i veri ragazzi di Nisida che pensano della serie Mare fuori?
Cristiana: C’è stata una proiezione a Nisida, del primo episodio della prima serie, con un gruppo selezionato di ragazzi. Le reazioni sono state positive perché i detenuti l’hanno trovato molto rappresentativo. Ma ovviamente hanno anche sfruttato l’opportunità per evidenziare libertà narrate in Mare Fuori che a loro non sono concesse.
Tu, Cristiana, sei stata showrunner su Amiche mie, perché non hai lo stesso credito in questo progetto?
Quando la mia agente ha portato questo progetto in Picomedia ha chiesto e ottenuto anche un contratto come produttore creativo, ma al momento di metterlo in atto poi la produzione ha fatto un passo indietro. È spesso convinzione radicata in Italia che la figura dello showrunner sia sostituibile con quella del regista. Si preferisce, forse anche per questioni di controllo del budget, lasciare che sia il regista l’unico direttore d’orchestra. Avendo studiato in America la produzione della serialità di fiction, posso dire con certezza che avere il creatore della serie impegnato sia durante la fase di produzione che quella di post produzione, non solo è necessario per mantenere una continuità fedele ai personaggi e al plot, ma anche a trasformare ogni imprevisto produttivo in opportunità narrativa, senza per questo perdere il filo e la direzione del racconto. È convinzione di chi opera in un vero mercato competitivo nel settore della tv seriale che avere il creatore della serie attivo durante tutto l’arco di preparazione, produzione e post produzione sia un vantaggio per tutti, sia economico che di valorizzazione del contenuto. Mi sembra lapalissiano infatti, che se il regista non è l’autore della serie, non possa avere da solo il controllo della narrazione di 12 episodi e delle serie a seguire che ovviamente vengono seminate già in quelle precedenti. Soprattutto perché in Italia gli episodi non vengono girati come in America uno successivo all’altro ma qui è ancora applicato il pdp cinematografico dove si accorpano le scene in base all’ambientazione delle location, mettendo quindi nella stessa giornata scene del primo e del dodicesimo episodio a seconda della convenienza produttiva. Questa modalità a mio avviso richiederebbe ancor più un controllo editoriale puntuale e verificabile.
Maurizio: Il problema reale è che gli autori finiscono il proprio lavoro con la consegna delle sceneggiature. Ed è un problema perché dovrebbe essere compito dell’autore tenere sotto controllo la continuità della storia e della psicologia di ogni personaggio in ogni fase del processo creativo. Negli Stati Uniti dove la serialità è nata e si è sviluppata e da dove provengono i prodotti di maggiore qualità, la centralità della sceneggiatura è il primo requisito per il successo di una serie soprattutto se è composta da più stagioni nelle quali si alternano registi diversi. Nel caso di Mare Fuori, per esempio, la prima stagione è stata girata da Carmine Elia, al quale va il merito di aver fatto un casting meraviglioso creando di fatto una generazione di nuovi attori (con l’aiuto della casting Marita D’elia), la seconda da Ivan Silvestrini e Milena Cocozza e la terza da Ivan Silvestrini.
Parlando di libertà nella scrittura, come vi siete trovati? È cambiato qualche equilibrio nel corso delle stagioni, visto il successo esplosivo che ha riscontrato la serie?
Maurizio e Cristiana: Abbiamo un ottimo rapporto con il capostruttura Rai con il quale abbiamo lavorato, Michele Zatta. È sempre stato molto aperto e disponibile nei nostri confronti. Certamente nella prima serie il lavoro è stato più semplice e più libero, adesso invece, che Mare Fuori ha attirato su di sé tanta attenzione, e dato il successo enorme, cominciamo a sentire la pressione di persone che vogliono intervenire pur se non lo hanno mai fatto prima.
Gli interventi hanno portato in qualche modo a censurare qualche aspetto della narrazione?
Maurizio: I contenuti sono senza dubbio di grande impatto. È una serie, per certi versi, cruda e angosciante ma non c’è stata mai alcuna censura. Abbiamo fatto un grande lavoro di ricerca prima di scrivere, dentro gli istituti di pena minorili e con associazioni che si occupano del reinserimento dei ragazzi, per esempio “l’Associazione Scugnizzi” di Antonio Franco, e abbiamo sempre cercato di rispettare i ragazzi che hanno ispirato le nostre storie. Abbiamo cercato di essere sinceri nel raccontare e questo sicuramente ha pagato. Siamo poi molto contenti perché grazie a Mare fuori abbiamo aiutato la demolizione dei preconcetti relativi alla serialità targata Rai, che è spesso percepita come un prodotto che si rivolge solo ad un certo tipo di pubblico.
Oltre a Mare fuori ci sono altre serie Rai di qualità che meriterebbero maggiore visibilità e successo ma sono viste con sospetto dal pubblico delle piattaforme solo perché targate Rai.
Oltretutto su Netflix è stata ai primi due posti della Top10 tutto il mese di febbraio, nonostante si parli di prima e seconda stagione, perché la terza è disponibile esclusivamente su Raiplay.
Cristiana: Beh, è la prova che il passaparola funziona sempre! E poi è stato fatto un lancio promozionale pazzesco dalla Rai, che ha sicuramente inciso. Mare fuori non era presente solo su tutti i giornali o i telegiornali, ma anche su un treno! I social poi hanno reso la nostra serie un contenuto virale. Ormai non si può aprire più nessun social senza avere in home qualche contenuto che riguardi Mare Fuori. I paratesti sono prodotti dalla fandom in modo creativo e spesso emozionante. Rivedere i nostri dialoghi elevati a “frasi cult” per migliaia e migliaia di ragazzi è una sensazione magnifica.
È la prima volta in cui i ragazzi seguono anche gli autori della serie. Siete diventati molto conosciuti anche da un pubblico giovanissimo.
Cristiana: Credo sia un riflesso dei social. La produzione e gli attori, infatti, ci taggano spesso nei loro post e nelle stories. E ci capita di ricevere complimenti da ragazzi che ci scrivono anche in privato oppure che ripostano ciò che pubblichiamo creando così un circolo virtuoso.
Maurizio: Seguire e dialogare con i ragazzi sui social, è fondamentale per noi. In questo modo abbiamo immediatamente la percezione di ciò che piace di più e cosa incontra meno il favore del pubblico. È un feedback diretto, continuo e, a volte, sorprendente.
È accaduto che battute che non pensavamo potessero funzionare granché, poi sono diventate di successo e altre, sulle quali puntavamo, non sono risultate così efficaci. Come al solito, non c’è nulla di più soggettivo del gusto.
Cristiana: Ci dà grande piacere, comunque, la percezione di avere illuminato una realtà mai raccontata prima e che merita più attenzione anche a livello di investimento economico. Servirebbero strumenti e mezzi per permettere ai detenuti minorenni di poter guardare Mare fuori, e quindi alla loro futura libertà con più fiducia e concretezza. Ma questa attenzione non c’è. Non ci sono fondi, né interesse da parte dei governi ad investire in progetti rieducativi all’interno e all’esterno degli Ipm. Speriamo che la situazione cambi. Per esempio, è stato dato tanto risalto ai fatti accaduti nel Beccaria e ci ha fatto molto piacere perché si tratta di questioni non nuove né uniche, ma delle quali prima di Mare Fuori poco si parlava, mentre adesso attirano l’attenzione.
E anche la percezione di chi lavora lì dentro gli istituti di detenzione minorile è mutata: abbiamo parlato a lungo con gli operatori di Nisida e alcuni di loro ci hanno ringraziato perché finalmente i loro amici hanno capito che tipo di lavoro fanno!
Speriamo che il successo di Mare fuori permetta di tenere acceso il faro su questi ragazzi e che magari, un imprenditore illuminato decida di fare promozione sociale, ad esempio nel carcere minorile di Nisida esiste un teatro regalato da Edoardo De Filippo ora in disuso a causa delle infiltrazioni d’umidità, per recuperarlo e dare ai ragazzi la possibilità di sperimentarsi nel potere salvifico della catarsi teatrale, auspichiamo nell’intervento di qualche privato che ha a cuore il futuro di questi ragazzi e con loro del nostro paese.