Cruel Peter, un successo annunciato
Christian Bisceglia racconta il suo film, venduto in oltre 60 Paesi
Dal 21 maggio prossimo, in esclusiva su RaiPlay approderà Cruel Peter, la fiaba gotica ambientata a Messina, alla vigilia del devastante terremoto del 1908. Ce ne racconta il nostro socio Christian Bisceglia, autore e regista.
Di Cruel Peter posso dire che è un film profondamente italiano dal forte sapore internazionale, che racconta una Messina finora mai vista. Collocata in un arco temporale di ben 111 anni, la pellicola presenta la città siciliana come un centro ricco, esoterico, pieno di luoghi nascosti e misteriosi. Inoltre, strizza l’occhio alle grandi ambientazioni vittoriane, senza dimenticare la grande calamità che l’ha colpita. Nel 1908, Peter, un ragazzo di tredici anni, è l’unico erede di una ricchissima famiglia di commercianti inglesi, gli Hoffmann. Viziato e prepotente, commette atroci crudeltà nei confronti degli animali, della servitù e dei bambini che frequentano la sua casa. Nessuno ha il coraggio di ribellarsi alle sue cattiverie, finché Alfredo, il figlio del giardiniere, decide che è venuto il momento di fargliela pagare. Lo cattura e lo nasconde in un luogo inaccessibile. Centoundici anni dopo, l’archeologo inglese Norman Nash giunge a Messina, accompagnato dalla figlia tredicenne Liz, per valutare il restauro dello storico Cimitero Inglese sito all’interno del Cimitero Monumentale. Nel corso degli scavi, il ritrovamento di una lapide riguardante la scomparsa di Peter, avvenuta tre giorni prima del catastrofico sisma di quell’anno funesto, lo mette sulle tracce di un antico mistero che sconvolgerà per sempre la vita della sua famiglia.
A partire da questi avvenimenti, la città di Messina nel tuo film viene esplorata con un occhio diverso e una luce particolare. E’ un vero e proprio viaggio onirico nella sua memoria storica?
E’ una domanda non solo tecnica ma anche personale, perché io sono cresciuto a Messina, e la mia famiglia è sostanzialmente una famiglia di migranti. Mio padre e mia madre hanno celebrato questo matrimonio lombardo e lucano, trasferendosi successivamente in Sicilia. Messina è un po’ una moderna Pompei, ed è questo che volevamo raccontare del suo passato. E’ una città che è stata costruita sulla sua memoria e sui suoi cadaveri. Questo suo cimitero ha catalizzato il momento del terremoto più catastrofico della storia d’Europa. Dal punto di vista architettonico, altro non è che un luogo che racconta una storia inglese con elementi italiani.
La Sicilia del passato ha sempre avuto un immaginario insolito nella percezione collettiva. L’anno 1908 è punto di partenza per gli eventi descritti. Hai mai pensato che potesse essere intitolato semplicemente “1908”?
Il titolo non mi è mai venuto in mente, nonostante il compositore siciliano Tony Canto abbia scritto una canzone in dialetto, “1908”, che poi noi abbiamo utilizzato nel film. In realtà ero un po’ ossessionato da una filastrocca che ritorna nel corso del film, “Cruel Frederick”, scritta da uno psichiatra tedesco, Heinrich Hoffmann. Questo medico aveva scritto delle fiabe illustrate molto violente, in cui bambini, che avevano comportamenti non idonei, venivano puniti da esseri immaginari. Inoltre, c’era la filastrocca su questo bambino bullo, che già si trovava sulla falsariga di un’altra venduta in Italia chiamata “Pierino Porcospino”. L’idea di un titolo come “1908” probabilmente mi sarà venuta in fase di scrittura insieme a “Cruel Peter”, ma alla fine ha vinto quest’ultimo.
Il tuo precedente “Fairytale” è risultato il film italiano più venduto e visto nel mondo nel 2014 dopo “La Grande Bellezza” di Paolo Sorrentino e “La migliore offerta” di Giuseppe Tornatore. Qual è stata la fonte d’ispirazione che ti ha spinto a concepire e girare un progetto così ambizioso come “Cruel Peter”?
Quando abbiamo realizzato quel piccolo film a basso costo, “Fairytale”, come international seller, Raicom lo ha venduto a 67 paesi, e nella stagione 2013/2014, è stato uno dei film italiani più venduti del mondo, oltre a diventare un piccolo caso. In realtà grazie ai produttori Harmosia, Makinarium e Raicinema, e soprattutto con Ascanio Malgarini (che ha condiviso con me la regia), volevamo fare un altro film sempre dai costi piuttosto contenuti. Poi però, come spesso accade, è diventato un film più ambizioso con maestranze locali e artigiani di altissimo valore. Da indipendenti, volevamo proseguire nel percorso originario, però era ed è molto difficile trovare spazio in Italia, quando il supporto non è adeguato. C’è un problema di fondo nel nostro paese, come ad esempio trovare degli editor che vogliano puntare in alto assumendosi dei rischi. Collaborando con Endemol Shine Italia ed Endemol Shine Israel, mi sono reso conto delle differenze. Non a caso la serialità israeliana (in particolare le spy stories e non solo), ha dei format e concept molto ambiziosi, esportati in tutto il mondo.
Il Cimitero Monumentale nel film può essere visto come il simbolo della resilienza per i messinesi. Sei d’accordo su questo o si presta ad una diversa interpretazione?
Il rapporto dei messinesi con il terremoto è molto strano. Ovunque la narrazione di questo storytelling potrebbe essere una risorsa preziosa per questa città. Quando muore l’80 – 90% della popolazione, è evidente che si crea una frattura generazionale importante; ed è un fenomeno ben diverso dagli eventi di Hiroshima e Nagasaki. Il Cimitero non è stato recuperato proprio perché non si vuole ricordare quel momento, ma è importante ricordare perché è comunque il secondo o il terzo cimitero monumentale più importante di Italia, e ha una sua grande Storia.
Alcune immagini del trailer mi hanno ricordato il cinema di Guillermo Del Toro. Altri cineasti siciliani come Antonio Piazza e Fabio Grassadonia si sono confrontati con il genere fantasy rimanendo saldamente ancorati alle loro radici con “Sicilian Ghost Story”. Ti senti vicino ad una certa visione ambiziosa di narrare la storia?
Il film ha i suoi pregi e i suoi difetti, e come regia e scrittura abbiamo bisogno di molto confronto per arrivare a certi livelli. Per quanto riguarda la critica, in America una rivista web, ha fatto il paragone della nostra pellicola alle produzioni Blumhouse, e non è poco. Come italiani abbiamo luoghi importanti da raccontare, come nel mio caso personale la Sicilia. La chiave vincente è stata l’unione della ghost story con la fascinazione del “Gattopardo”, con l’aggiunta dell’avere colori e atmosfere straordinari. All’estero non è solo la memoria dei grandi maestri, ma anche quella del nostro paese come pieno di fascino e di grande attrattiva da questo punto di vista. Mi auguro che si possa continuare a fare esperimenti del genere. Per quanto riguarda “Sicilian Ghost Story”, è un altro bellissimo ed interessante esperimento. Quello che però dobbiamo tenere a mente, è che spesso si corre il rischio di vedere la Sicilia rappresentata come mafia e macchiettismo, soprattutto linguistico. Per necessità, la Sicilia si deve affrancare da questo argomento, che talvolta può sembrare ricattatorio. Ci sono epopee che raccontano storie di mafia, delinquenza, ma la Sicilia non è questa, altrimenti rischia di diventare un “brand” vendibile. Vorrei vedere film un po’ diversi che trattino la Sicilia, mi viene in mente “I pugnalatori di Sciascia”, che rappresenta la grandiosità e la fascinazione del racconto con la metafora politica. Per per me Sciascia è come se fosse un secondo Pasolini. Sono estremamente convinto che bisogna a tutti i costi evitare di vedere macchiette e tentativi di pressapochismo dialettale. E’ un mondo nuovo, un mondo cambiato, che necessita di uno sguardo differente.
“Cruel Peter” è stato venduto in oltre 60 Paesi, tra cui Usa, Canada, Regno Unito, Cina e Russia, grazie a Voltage Pictures che ne ha curato le vendite in tutto il mondo. A livello produttivo hai riscontrato maggiori difficoltà rispetto a “Fairytale”?
Con “Fairytale” l’obiettivo era quello di raccontare una storia italiana a basso costo, guardando al mercato estero. L’Agro Pontino è stato parte integrante della narrazione, rappresentando la metafora di un razionalismo fondamentale, con echi dell’epoca fascista. Invece “Cruel Peter” è sicuramente è una macchina un po’ più grossa, e ho avuto un ruolo da produttore esecutivo. Sono mancate delle figure chiave in fase di collaborazione. Mi sono ritrovato solo, e questo mio rammarico ha tolto al film la sua continuità. Sono consapevole che avrei avuto bisogno di figure tecniche più vicine che proteggessero un po’ più il nostro lavoro. Da questo punto di vista, un regista/sceneggiatore non può fare troppe cose. Non posso rimproverare nulla ai produttori, ma devo rimproverare me stesso nelle fasi di produzione. Devo fare autocritica per le eventuali carenze di cui, volente o nolente, mi sono reso responsabile.
Capita spesso che in alcuni eventi di presentazione sulle nuove produzioni, i grandi competitor del mercato dimentichino di fare il nome degli sceneggiatori, come è capitato recentemente con un grande player del cinema italiano. Writers Guild Italia rivendica da anni il diritto degli sceneggiatori ad aver riconosciuto il proprio ruolo professionale, e ha fatto sentire particolarmente la propria voce con la campagna “No Script No Film”. Condividi questo principio?
Assolutamente sì, condivido pienamente questo principio. Noi sappiamo comunque che l’Italia viene da una lunga tradizione di cineasti, e che la settima arte italiana è sempre stata rappresentata dal “cinema dei registi”. Non è stato nemmeno degli attori, perché i registi volevano delle facce, che risultassero autentiche, il più delle volte prese dalla strada. Noi dobbiamo fare uno sforzo, ovvero uscire da quel senso di “batteria” in cui siamo entrati come scrittori/sceneggiatori, in cui molti prodotti cominciano ad assomigliarsi. Se dobbiamo fare un mea culpa, è perché abbiamo fatto cose troppo uguali. La vera battaglia del presente e del futuro, sarà tirare fuori la propria autorialità, ovvero quella qualità che gli americani definiscono “expertise”. Invece ci hanno messo tutti in un unico calderone dove facciamo le stesse cose, e sembra un recinto brutto. In questo senso penso ad Alessio Liguori, che ha scritto e diretto un horror che si chiama “Shortcut”, uscito in piena pandemia in 900 copie negli Stati Uniti. Questa cosa è passata quasi in sordina fra i miei colleghi, e non va bene. E’ importante trovare un terreno di confronto e fare rete, per le idee. Al nostro interno siamo come un magma in costante movimento, ma indecifrabile. Noi siamo cresciuti con il terrore degli editor di Mediaset e Rai, e sembra più regime adesso che negli anni Trenta. La lotta che deve essere fatta, è per il riconoscimento delle storie, ma anche una lotta per la qualità delle stesse, per la qualità delle scuole dove si formano gli scrittori, affinché abbiano più libertà creativa. Noi dobbiamo mirare a quello, altrimenti siamo degli strumenti che girano a vuoto e non trovano la strada. Lo sforzo lo dobbiamo fare noi, uscendo e diversificando quello che facciamo in maniera coraggiosa, facendo “sistema” senza aver paura.