Il candore e il sangue
“Lei gli sfiorò il petto con una carezza. Lo capisco se non te la senti, disse. Dario nemmeno le rispose. Che cosa poteva dirle, in fin dei conti? Cosa? Che nel suo cuore c’era solo la neve?”.
Edito da HarperCollins, Italia è nelle librerie “Neve Rossa”, il primo romanzo di Barbara Petronio, sceneggiatrice delle più acclamate serie tv italiane degli ultimi anni
Carissima Barbara, il 7 aprile è uscito il tuo primo libro “Neve rossa”. Com’è stato accolto questo tuo esordio letterario?
In linea generale mi sembra molto bene, c’è stato un buon riscontro di stampa. I giornalisti presenti sono rimasti piacevolmente colpiti, forse anche per il fatto che io sia una sceneggiatrice nota. Rispetto ad un prodotto audiovisivo che è più immediato, la vita di un libro è molto più lunga, ma per capirne pienamente l’apprezzamento, devono passare mesi.
Che cosa simboleggia il titolo “Neve Rossa”?
Siamo in un thriller, quindi non posso spoilerare troppo. L’idea è nata da un fenomeno atmosferico realmente esistente: quando il vento di scirocco si unisce ai venti più freddi, gelidi, si verifica una particolare rifrazione della luce e la neve sembra tingersi di rosso. Se da una parte questa rappresenta il candore e l’innocenza, dall’altra il rosso è il colore del sangue, e mi sembrava giusto per cominciare il romanzo.
Dario e Giordana, i protagonisti del tuo romanzo, sono una coppia che cerca di superare uno dei dolori più grandi che una famiglia possa avere: la prematura perdita di un figlio. Nella definizione dei loro caratteri hai preso spunto da situazioni della vita reale?
Da situazioni della vita reale per fortuna no. Mi sono ispirata, o comunque affidata, alla mia capacità di osservare le persone attorno a me. I caratteri, le psicologie, le ho trovate facendo un lavoro particolareggiato su dei personaggi, cosa che nella scrittura televisiva e cinematografica non si può fare. La forma narrativa letteraria permette di entrare molto di più nell’intimo del personaggio, nel cinema può avvenire solo con la sfumatura di un attore o da una parola di sottotesto. Qui sei nelle loro teste, nel loro cuore e nelle loro anime. Proprio per questo è molto avvincente fare un percorso simile insieme ai personaggi.
Perché la coppia ha deciso di cambiare vita, andando in un luogo in cui l’ambiguità degli abitanti invece di rigenerare l’anima, finisce per isolarla ulteriormente?
I protagonisti chiaramente non sanno che il luogo dove andranno, fornirà loro ulteriori elementi sfidanti. Per superare un lutto che li ha messi alla prova, cercheranno di cambiare aria rispetto alla città da cui provengono, anche perché vogliono vedere altri ambienti. E proprio per questo vanno nella casa di origine di lui, per cercare di ricostruire quello che si può ricostruire. In realtà poi, quello che accade nel romanzo, scopre un po’ di verità nascoste sotto la neve, da cui parte proprio l’idea di base.
E chi sono i coprotagonisti Federico ed Helena? Trovi che abbiano un ruolo decisivo nella chiusura sempre più marcata di Dario e Giordana?
Federico ed Helena sono i due vicini di casa; lui gestisce un albergo e lei è una ragazza di origini balcaniche, serbe. Quando ho avuto l’idea di questo racconto, di questa storia, avevo la necessità di strutturare una trama in cui ci fossero personaggi secondari che però facessero progredire lo sviluppo della trama principale – il classico mentore – per parlare in termini tecnici. Però poi quando ho affrontato la definizione dei personaggi, mi sembrava realistico avere una coppia dove lui è italiano, e lei no. Ed è un tratto che mi affascina sempre… forse un retaggio degli studi universitari etnoantropologici che ho fatto e continuano ad appassionarmi. Soprattutto Helena, il personaggio risolutivo all’interno della trama, volevo che avesse un background di tradizione culturale, che noi italiani, o meglio europei non dell’Est, non siamo abituati ad avere. Grazie a questo aspetto, si esplorano meglio i temi di maternità e femminilità. Desideravo rifarmi a tutta una tradizione culturale e popolare balcanica, dove appunto c’è una linea di sangue matriarcale molto forte e vengono trasmesse delle capacità divinatorie rispetto al reale, solo in linea femminile. Proprio per questo, è evidente che ci sia qualcosa di strano in questa coppia. Per scrivere Helena, mi sono molto divertita a documentarmi su quella parte dei miei ricordi universitari, ma soprattutto ho rivisto quello studio antropologico dal punto di vista di una narrazione adattabile a un thriller, e sembrava che queste due cose andassero a braccetto.
Le pellicole cinematografiche “Le verità nascoste” e “Shining” aiutano a comprendere meglio la narrazione di un posto come Sestola nell’appennino tosco emiliano con le stranezze dei suoi abitanti?
I due film sono stati due capisaldi nella mia formazione di sceneggiatrice. Ci sono dei richiami involontari. La parte su Sestola è relativa alle mie suggestioni di molti anni fa, perché le mie prime notti insonni di bambina preadolescente, le ho passate a Sestola, e le mie ansie erano dovute solamente al luogo – a questo posto dove la montagna appare molto bella ma anche molto rude – diversa dalle Dolomiti che siamo abituati a conoscere. Così ho pensato a questa montagna sulla quale far fare una bella nevicata intrisa di rosso, circondata da un’aria molto cupa e tetra.
Hai lavorato molti anni per committenti come Mediaset, Sky e Netflix con una solida esperienza nell’headwriting. Per te, anche le campagne WGI “No Script No Film” e “No Script No Series” sono state funzionali nella ripresa del settore audiovisivo dopo due anni di pandemia?
Sicuramente le campagne sono fondamentali e vanno implementate. La serialità è in una crescita esponenziale che va avanti da diversi anni, ed è arrivata all’apice adesso. Aumentano le serie, ma comunque sembra di vedere in ogni broadcaster sempre le stesse scelte, e forse a mio parere andrebbero suddivise perché il pubblico è enorme, ma al tempo stesso è parcellizzato e settoriale. Ad esempio, in Italia chi vuole vedere l’horror, può vedere solo prodotti stranieri, come anche la fantascienza, che è un genere non frequentato da molti anni nel nostro Paese. Questo è il motivo per cui ho scritto il libro, e come ogni mia idea, anche quella di “Neve Rossa”, era nata come prodotto da film o serie. Ho provato a fare dei pitch a dei produttori di mia conoscenza, ma ho visto risposte negative nei loro volti. Ho avuto la fortuna di conoscere una persona, che poi è diventata il mio agente letterario, e parlando con lui ho detto che quest’idea al cinema non sarei riuscita a farla e in televisione men che mai perché da noi un thriller “Supernatural” è quasi vietato, o forse adesso si aprirà qualche porta per un genere che da noi è poco frequentato, mentre all’estero è uno di quelli che ha più successo. Incoraggiata da lui, mi sono lanciata nel mondo ignoto che è quello letterario, grazie anche al tempo concessomi dalla pandemia. Sarebbe bello vedere questo materiale narrativo in una serie, perché lo sento per un pubblico vasto. Purtroppo, la situazione italiana nella scelta dei contenuti è abbastanza limitata, ed è un peccato perché vedo in continuazione belle serie che arrivano dall’estero, non necessariamente dagli Stati Uniti, ma anche da Spagna, Francia e Corea del Sud. In Spagna hanno una produzione interessantissima, e a me dispiace, perché quella italiana invece è molto omologata, non andando sui generi, quando poi sono i generi il fulcro della narrazione contemporanea al di fuori dei confini nazionali. Mancano un thriller, un horror o un drama ben fatti, senza ibridare e mischiare ad esempio la commedia con il melò. Andare sul genere puro, aprirebbe le porte per essere competitivi e tirare fuori un bel film o una bella serie. La mia sensazione è che l’Italia stia perdendo un treno, sviluppando sempre lo stesso tipo di prodotto. Non voglio fare di tutta l’erba un fascio, ma tranne qualche rara eccezione, la produzione è di grandissima omologazione, e questo non va mai bene. C’è un’ottusità nella ricerca del contenuto; ho lavorato tre anni alla ricerca di contenuti non solo miei ma anche di altri, e ho notato che si potrebbe lavorare più sui generi, basta sollecitare la creatività e la fantasia. Quando devi scegliere il prodotto, non puoi crearlo, ma devi affidarti a qualcuno che lo sappia creare. Devi scegliere il bravo creatore e la buona storia, ma non devi dire come deve essere scritto questo prodotto. Scrivendo il romanzo mi sono sentita finalmente libera, perché non ho avuto alcuna nota editoriale, narrativa e men che meno di strutturazione della trama.
Rispetto alla metodologia alla quale sei abituata, hai riscontrato molte differenze, scrivendo il libro?
Avevo condiviso con la casa editrice materiali molto definiti di quella che volevo fosse la scrittura del romanzo, e una volta che hanno approvato, sono stata molto libera nella scrittura. Non ho avuto alcuna limitazione alla mia creatività, cosa che invece non succede nell’ambito dell’audiovisivo, perché ne ho in continuazione. In Italia succede così, all’autore/scrittore o all’autrice/scrittrice si tende ad indicare come deve essere fatto il prodotto, cosa che invece non viene fatta ai registi e questo incide in maniera significativa nella qualità dei prodotti che abbiamo. Non voglio essere totalmente distruttiva, però penso di dire una cosa abbastanza oggettiva ammettendo che abbiamo una qualità di storytelling mediamente inferiore a quella che potrebbe essere. Se avessimo una qualità più alta, faremmo prodotti come “Squid Game” o “La casa di carta”. L’ultimo grande prodotto che abbiamo venduto fuori fino a 7 anni fa, è stato “Gomorra”. Mi aspetterei da parte di WGI di far sentire di più la voce degli autori, qui in Italia c’è un problema enorme di qualità e di mancanza di libertà degli scrittori in particolare, e quella per me è una battaglia da portare avanti insieme a “No Script No Film”, “No Script No Series”. Se non si ha la libertà di fare il prodotto che si ha in testa, la vedo grigia, perché ormai le piattaforme sono tante e il contenuto a cui il pubblico è sottoposto è enorme. Quello che uno percepisce attorno a sé, a parte qualche film o serie fenomeno del momento, è che un lavoro che può durare per un autore anche tre anni, si esaurisca nel breve termine di ascolti o visualizzazioni. E’ importante cercare di difendere la voce degli autori, che poi è la voce del Paese. Non c’è un prodotto negli ultimi 5 anni capace di viaggiare all’estero, ed è una cosa che dobbiamo avere. Il nostro pubblico comincerà a dire, cosa che già accade: “Ah è una serie italiana, allora non la vedo per principio, perché è brutta e fatta male, non mi attrae, è un mischione di roba.”
Secondo te cosa si dovrebbe fare, allora?
Si dovrebbe lavorare di più sulla voce degli autori italiani in termini di artisticità e di creatività, perché limitarla è una cosa molto molto dannosa, e i risultati si vedono. Cosa che invece non accade nei Paesi che citavo prima, dove si percepisce una diversa energia creativa e non una serie di note o pezzi per accontentare il personaggio di turno. Bisogna sempre avere una voce riconoscibile. “Squid Game” racconta la Corea, cioè qualcosa di così lontano da noi, e lo fa con una voce che è arrivata a tutto il mondo. Perché noi italiani non possiamo avere un fenomeno del genere? Non siamo bravi? Non credo, anche perché fino a pochi anni fa la “storia del cinema” era nostra, quindi non credo che ci siamo rimbecilliti tutto d’un tratto. Forse sarebbe il caso di approfondire il perché questo stia accadendo e come andare a cambiare questo aspetto, perché coinvolge tutto il sistema industriale. Ci saranno tanti “Squid Game” e mia figlia li guarderà, invece di guardare le serie italiane, perché non riconosce nulla di accattivante. E’ venuto il momento di darci una bella svegliata.