Con Alfredino abbiamo raccontato un pezzo di storia di questo Paese
Barbara Petronio spiega come è stata ricostruita nella sceneggiatura la vicenda drammatica di Vermicino, un fatto rimasto impresso nella memoria collettiva
Barbara Petronio è autrice e produttore creativo della serie italiana del momento: “Alfredino – Una storia italiana”, trasmessa da Sky cinema, di cui ha scritto la sceneggiatura insieme a Francesco Balletta (regia di Marco Pontecorvo). La vicenda è quella di Alfredino Rampi, il ragazzino di sei anni che nel giugno del 1981 precipitò in un pozzo artesiano nei pressi di Vermicino; l’Italia intera si fermò in quei giorni rimanendo ipnotizzata davanti alla tv in attesa che arrivasse la notizia del salvataggio del bambino. Ma l’urlo liberatorio non si levò mai dalla folla radunata intorno al pozzo dove si alternavano vigili del fuoco, speleologi, curiosi, figura istituzionali, volontari, gente comune. Da quegli eventi, ci ricorda Barbara Petronio (che è socia fondatrice di Writers Guild italia), nacque anche la moderna Protezione Civile.
Quella di Alfredino è anche la storia di una donna che, nel momento di massimo dolore, trova la forza e lucidità di andare dal Presidente della Repubblica e dirgli tutto quello che non aveva funzionato. E lui l’ascoltò.
Barbara, cosa significa essere produttore creativo di una serie tv?
E’ il credit che in Italia viene attribuito a quello che in America conosciamo come showrunner o Executive Producer, con i dovuti distinguo naturalmente. Il ‘top’ che riusciamo a ottenere qui da noi è questo titolo di produttore creativo, speriamo prima o poi di arrivare a quello di executive producer, riconosciuto in ambito internazionale. In questo caso ho gestito la fase di scrittura ovviamente, prendendo in alcuni casi delle decisioni di carattere produttivo e non solo narrativo, quindi ho contribuito alla scelta del cast in maniera abbastanza decisiva, ho collaborato col regista dalla preparazione alla post produzione; tuttavia siamo ancora lontani dal ruolo che hanno gli executive Oltreoceano, ma diciamo che almeno nella mia carriera è la cosa che ci assomiglia di più.
Come è nata l’idea della serie su Alfredino Rampi?
L’idea nasce dalla volontà di Marco Belardi e da un incontro del produttore (Lotus Production) con i procuratori della famiglia Rampi, c’è stato fin da subito un buon feeling; d’altro canto questo è un progetto che nasce per volontà della famiglia, in occasione del quarantennale di quegli eventi, di trasmetterne il ricordo alle generazioni future.
Devo dire che i procuratori della famiglia, due psicologi che hanno fondato insieme a Franca Rampi, la mamma di Alfredino, il Centro Alfredo Rampi impegnato sul fronte della protezione civile, hanno dato un importante contributo pratico non solo nella ricostruzione dei fatti ma anche nell’aiutarci a intervistare le persone, i protagonisti dell’epoca. Un aiuto senza il quale non avremmo potuto approfondire diversi aspetti.
Come vi siete documentati su un evento avvenuto 40 anni fa che ha segnato così profondamente la memoria collettiva?
Abbiamo letto il più possibile di quanto uscì sui giornali e visto quanto più materiale audiovisivo relativo a quei giorni, oltre ad aver consultato tutta la bibliografia disponibile. Dopo di che grazie al Centro Rampi abbiamo parlato con le persone che ebbero un ruolo diretto in quei giorni. Per esempio abbiamo fatto una lunga chiacchierata con gli speleologi, anche grazie al nostro consulente editoriale (Alessandro Bernabucci); un colloquio inerente non tanto il fatto in sé, di quello sapevamo già pressoché tutto, piuttosto abbiamo chiesto loro di ricordare cosa stavano facendo la sera prima, cosa avrebbero dovuto fare il giorno dopo. Non volevamo indugiare sui dettagli di quei giorni che avevamo potuto già dedurre dal materiale raccolto, ma volevamo capire a che punto della loro vita si trovassero quelle persone quando capitò il fatto di Vermicino, perché si tratta comunque di un evento che nelle biografie di tutti noi ha segnato una cesura. Così abbiamo sentito gli speleologi, i vigili del fuoco, la psicologa, i giornalisti. Poi abbiamo tirato le somme di queste voci.
Una storia difficile anche perché non c’è lieto fine, anzi una fine tragica e nota. Non avevate timore che il pubblico fosse spaventato da questo aspetto?
Questa è una cosa che da narratore ovviamente ti domandi quando ti avvicini a una storia del genere. Ha una potenza enorme e io ho fatto un ragionamento di questo tipo: purtroppo è una tragedia ma le tragedie fanno parte della vita e vengono raccontate da oltre 2000 anni. Inoltre è una vicenda che ha prodotto dei cambiamenti nella storia del nostro Paese. Da allora è stato istituito il ministero della Protezione Civile, grazie proprio allo sfogo che ebbe Franca Rampi con Pertini; nei giorni successivi il presidente convocò la mamma di Alfredino e le confermò la volontà di creare un ministero allo scopo di organizzare i soccorsi in casi del genere. D’altro canto il finale della storia lo conosci anche quando vedi una fiction sul caso Moro o sull’incidente di Chernobyl; per questo abbiamo deciso di raccontare anche il dopo, per dare una prospettiva, un senso che andasse oltre la cronaca.
La vicenda sembra girare molto attorno alla figura di Franca Rampi; come vi siete avvicinati a una personalità tanto forte che già all’epoca dei fatti colpì per la sua determinazione?
Guarda, pur avendo dato l’assenso alla storia, la signora Rampi comprensibilmente non ha voluto essere sottoposta a domande che le ricordassero quei giorni. Onestamente ti dico che non avrei avuto il coraggio di chiederle nulla di specifico. Quindi ci siamo basati sul materiale d’epoca e sulle testimonianze di chi l’ha conosciuta e gli è stato vicino. Una donna che ha mostrato un coraggio, una forza e una determinazione incredibili, ma anche con le sue fragilità, col suo dolore. Abbiamo ricostruito le accuse assurde che la investirono (il fatto che si mangiava un ghiacciolo o che si cambiava il vestito, come segni di un certo disinteresse), accuse che raccontano un’Italia di quarant’anni fa ma non poi così lontana da quella attuale quando si parla di figure femminili. È innegabile che una donna, in qualsiasi ambito si presenti, venga giudicata molto più di un uomo. Si guarda tutto: il look, le espressioni, i capelli. Tutto. Anna Foglietta è stata bravissima a restituire, con pochi e misurati gesti, la sofferenza e l’incredulità che credo abbia provato Franca Rampi.
Il cast è sembrato molto coinvolto anche a livello umano da questa storia…
Lo confermo, quando andavo sul set, dai protagonisti all’ultima delle comparse, sembrava che avessimo una specie di missione da compiere oltre a un totale rispetto verso quello che stavamo raccontando. Non condivido quindi le critiche di chi ha detto ‘ è morboso’ , ‘non va raccontato’, ogni storia può essere raccontata, dipende da come lo fai.
Nella vicenda di Vermicino compare anche Pertini; si può dire anzi che quell’episodio contribuì a cambiare il ruolo del Capo dello Stato che diventò da allora anche un interprete dei sentimenti popolari…
Io credo che Pertini sia andato lì spontaneamente, spinto da un evento tragico che poteva avere però un esito positivo, perché tutti pensavano che il bambino si sarebbe salvato. Penso che il gesto di Pertini fu autentico e non dettato dalla ricerca di popolarità. Nella serie non diamo una visione univoca, Pertini del resto era un personaggio molto empatico oltre ad essere un grande comunicatore. Lui voleva veramente vedere cosa stava accadendo con i suoi occhi e Massimo Dapporto, che lo interpreta, fa un cameo veramente straordinario.
Perché, secondo te, si fa così fatica ad avere in Italia prodotti tv come questo, capaci di misurarsi con eventi della nostra storia contemporanea in forma non puramente celebrative, didascaliche, ma che provino a raccontare la complessità di una certa vicenda?
Credo che il nostro pubblico sia stato abituato da diversi anni a un certo tipo di racconto che deve comunque avere come obiettivo quello di tranquillizzare l’audience. Cosa che non accade nel resto del mondo. Come fai a stimolare il pubblico? Gli dai qualcosa che lo renda più attivo e partecipe, lo educhi, in un certo modo, a seguire un racconto più complesso. Questa di Alfredino per esempio è anche la storia di una donna, una casalinga, che convince il Presidente della Repubblica a fondare il ministero della Protezione civile. Ci sarebbero quindi moltissime storie italiane da raccontare, c’è un patrimonio di storie, di vicende, da poter sfruttare per aiutare il nostro pubblico a capire di più il Paese in cui vive. Spero che questa serie serva anche a modificare questo stato di cose, che vengano fuori storie che ci rendano un po’ più consapevoli della realtà in cui viviamo.
Writers Guild Italia ha lanciato la campagna “no script no film”, per denunciare il fatto che quasi sempre in Italia il lavoro degli sceneggiatori è disconosciuto anche dagli addetti ai lavori. Che ne pensi?
E’ proprio quello che avviene: c’è un disconoscimento professionale del lavoro degli sceneggiatori. Nel nostro sistema si considera come autore soltanto il regista, ma nessun critico si è mai premurato di capire perché la migliore televisione arriva dagli Stati Uniti – e questo è un dato di fatto – dove il sistema di attribuzione dei ruoli nella creazione di un’opera è completamente diverso. Perché in quel caso il creatore di un racconto audiovisivo è solo e unicamente lo scrittore. In Italia dopo che lo sceneggiatore ha scritto la storia e risolto tutta una serie di problemi, arriva il regista che cambia le intenzioni dei personaggi, il plot, le battute e via dicendo, senza che vi sia un produttore che tuteli il racconto per come è stato pensato. E infatti un sistema così concepito non funziona. Quando le cose vanno bene è per una serie di circostanze fortunate, perché si creano alchimie personali positive, ma è tutto dovuto totalmente al caso. Fra l’altro così facendo sprechi molti più soldi, d’altro canto gli americani hanno scelto di seguire un’altra strada perché è la più proficua; tu dai in mano a quello che ha elaborato la storia la gestione di tutto, che non vuol dire, come pensa qualcuno, che gli showrunner devono fare il budget della serie, decidono invece come allocare le risorse necessarie alla realizzazione dell’opera: se servono per gli attori, piuttosto che per la scenografia o per i costumi. In Italia non lo abbiamo ancora capito e non abbiamo capito che un prodotto televisivo è frutto del lavoro di tante persone e che ci dovrebbe poi essere una gerarchia in base a una visione originaria che andrebbe rispettata.