“Dolore e paura vibrano in ogni pagina”
Adriano Chiarelli, cosceneggiatore di Familia diretto da Francesco Constabile, ci racconta il complesso percorso di scrittura del film, tratto da Non sarà per sempre così, romanzo di Luigi Celeste,
Adriano Chiarelli, membro di WGI, racconta l’arduo ma eccellente lavoro di scrittura che sta dietro alla realizzazione di Familia, al cinema dal 2 ottobre, con la denuncia seria e circostanziata di una violenza troppo diffusa e di un sistema che non riesce a tutelarne le vittime.
Quanto è stato difficile l’adattamento della sceneggiatura per questo film?
Come in ogni adattamento, il lavoro si svolge su diversi fronti. Da un lato avevamo il dovere di rispettare quanto più possibile il tono del racconto, senza snaturarlo, dall’altro dovevamo operare una costante selezione degli eventi, con il rischio di sacrificare passaggi significativi o importanti dell’intera vicenda.
Ogni pagina del libro da cui trae origine il film vibra di dolore e paura: il dolore dei ricordi, la paura vissuta sin da bambino a causa di quel padre così violento, incapace di relazionarsi con la propria famiglia se non attraverso la sopraffazione e il terrore. Traslare tutto ciò in una sceneggiatura non è stato agevole, poiché si rischiava costantemente di cadere nelle tipiche trappole retoriche dei racconti di violenza di genere, rischio a nostro parere evitato. Ne risulta un racconto denso di sfumature, con particolare riguardo alla figura materna, Licia, che sarebbe stato comodo raccontare come vittima passiva e inerte, ma che invece rispecchia una personalità fragile quanto complessa. Licia è piena di contraddizioni, compie scelte in apparenza inspiegabili, che però rispondono a un solo impulso: l’amore per i figli, oltre che all’indomabile speranza che in famiglia torni la pace. A conti fatti, è la figura di Licia il vero cuore pulsante del film.
Quali sono per lei i punti più toccanti di questa storia?
Ce ne sono due, magistralmente orchestrate da Francesco: la scena in cui gli assistenti sociali intervengono pesantemente nella vita della famiglia, con una violenza paragonabile solo a quella coniugale; e ce n’è un’altra, che a ogni visione mi fa male come se la vedessi per la prima volta, nella quale Licia viene aggredita dal marito in ascensore, sul posto di lavoro di lei. La prima che ho citato è la rappresentazione perfetta di un altro livello di violenza, molto importante per il nostro racconto, quella istituzionale. La totale inefficienza delle forze dell’ordine, della magistratura, delle strutture di assistenza sociale di fronte a casi come questo che raccontiamo, integra o aggrava le disfunzioni già in essere a livello domestico e familiare. Non esistono sfumature nell’intervento istituzionale: o sono totalmente indifferenti oppure se intervengono lo fanno in modo travolgente, distruttivo. Lo definisco analfabetismo istituzionale, laddove non tutti i giudici, i burocrati, i funzionari, gli impiegati e gli agenti degli apparati che a vario titolo si occupano di queste vicende, hanno gli strumenti per farlo adeguatamente. Questo è un problema serio che richiede interventi altrettanto seri.
Familia tratta una storia di violenza, ma, sebbene non neghi la comprensione della gravità della vicenda, il film non indugia in questo aspetto e allo stesso tempo cerca di estrapolare il racconto dal più classico (e a volte abusato) contesto sociale della periferia degradata. Come mai questa scelta?
Con Francesco Costabile e Vittorio Moroni abbiamo discusso a lungo di questo aspetto. Sappiamo bene che i film ambientati nelle periferie corrono un grande rischio, cioè che la periferia diventi un altro personaggio del film, con tutte le conseguenze del caso. Ritengo che per noi sia stata una scelta obbligata, perché quando parlavo di rispetto del testo originario intendevo anche questo. Sono queste le origini della famiglia Celeste e non c’era né l’esigenza né un motivo valido per inventarsi un’ambientazione diversa. Anche su questo livello del racconto abbiamo lavorato in profondità, per evitare che la periferia si sentisse oltre il necessario, cioè oltre la mera funzione di sfondo. E si è lavorato anche in base a una convinzione che tutti e tre avevamo: non esiste alcun nesso causale tra origini umili e proliferare della violenza domestica. L’esperienza e le cronache ci insegnano che storie del genere non conoscono distinzioni di censo o classe sociale. La violenza è trasversale, colpisce chiunque e miete vittime anche – e forse soprattutto – in famiglie agiate, in apparenza insospettabili, e di certo non distingue tra ghetti e quartieri alti. Anche se non sembra, anche se non la pratichiamo o subiamo, la violenza ci riguarda tutti, a prescindere da chi siamo e da dove veniamo.