In guerra per amore
Marco, puoi farmi il pitch del film?
E’ la storia di un cameriere italiano, Arturo, interpretato da Pif, che lavora a New York ed è innamorato di Flora, una ragazza che è promessa sposa al figlio di un boss della mafia. Per impedire il matrimonio e anzi per sposarsi lui stesso con la ragazza, Pif deve tornare in Sicilia a chiedere la mano al padre di lei, solo che in quel momento è in corso la Seconda Guerra Mondiale. Così si arruola nell’esercito americano quando scopre che cercano italo-americani per lo sbarco in Sicilia. La storia è in realtà più complessa, ed è formata da altre linee narrative che si intrecciano con la principale per dare vita ad un affresco di forte impatto spettacolare ed emotivo.
Dunque è ancora una commedia e tuttavia propone, in chiave del tutto nuova, il racconto di un pezzo importante della storia d’Italia, della Sicilia e della mafia. E in qualche modo prosegue il percorso iniziato con La Mafia Uccide Solo d’Estate.
Come ne La Mafia Uccide Solo d’Estate, la componente politica del film è molto forte. Possiamo dire che tematicamente è quasi un prequel dell’esordio di Pif. In questo caso l’originalità del tema è data da una precisa accusa estremamente documentata all’esercito americano che, per agevolare la sua avanzata verso la Germania nazista, prima e durante lo sbarco in Sicilia ha permesso ad un sistema corrotto di stampo prettamente mafioso, e di fatto per gli americani anti-fascista, di prendere il potere sull’Isola. In questo modo l’equo scambio tra americani e mafiosi, con la benedizione di Lucky Luciano direttamente dal carcere negli USA, ha facilitato le operazioni militari ma ha posto le basi di una solida ramificazione di Cosa Nostra che è rimasta fino ad oggi potenziandosi esponenzialmente con il passare degli anni. In questo modo si potrebbe leggere tra le righe che ogni guerra, ogni “invasione”, ogni intervento militare, soprattutto americano, ma certamente non solo, ha fortissime responsabilità rispetto alla geopolitica del paese coinvolto. Si pensa troppo spesso all’immediato, alla veloce risoluzione del conflitto, e non si pensa quasi mai alle conseguenze che l’invasione avrà sul territorio nei decenni successivi .
Come avete lavorato sul personaggio di Flora, interpretato da Miriam Leone, per ottenere il cui amore il personaggio interpretato da Pif, attraversa addirittura l’oceano e si arruola?
Nel lavoro di scrittura con Pif ed Astori, una volta precisati la storia da raccontare ed il tema, si parte subito con la caratterizzazione dei personaggi, senza mai dimenticare di trattare temi importanti, anche drammatici, con il tono lieve della commedia. Quindi i personaggi devono avere alcune caratteristiche particolari, che si adattino al tono, a tratti romantico, a tratti lieve, a tratti persino surreale dei film firmati da Pif regista. La cosa più difficile nell’esordio di Pierfrancesco Diliberto è stato proprio mettere a fuoco il tono. Ciò che ha colpito positivamente il pubblico italiano, ma anche quello straniero, è stato proprio l’originale mix di spietatezza della storia recente e di levità dei personaggi, che però, pur nella loro eccentricità, avevano una forte componente realistica. Anche In Guerra Per Amore ha questa attenzione al tono. Probabilmente il film ha una narrazione più tradizionale del primo, più classica, ma il tono ed i personaggi che lo animano sono molto simili.
Tu che sei umbro, sei nato a Spoleto e da tanti anni vivi a Roma, come sei riuscito a raccontare una realtà così complessa e altamente connotata come quella siciliana?
Bè, ma questo è il bello del nostro mestiere di scrittori, fatto dell’immergersi in realtà diverse, completamente lontane da quelle delle proprie origini, ma non per questo meno stimolanti. E poi a parte viaggi e sopralluoghi (per La Mafia Uccide solo d’Estate avevo soggiornato a Palermo e studiato i luoghi delle uccisioni di Boris Giuliano, Dalla Chiesa e degli altri martiri della mafia) scrivere con due palermitani DOC come Pif e Astori per mesi e mesi mi ha aiutato moltissimo a capire come ragionano i Siciliani.
E questo ti fa onore, non è cosa poi tanto facile, e te lo dice una siciliana. Ma entriamo nel merito del processo creativo. Come avete lavorato con Pif? Qual è il metodo che utilizzate? Chi scrive? Anche Pif scrive?
Si scrive tutti e tre insieme. Non ci si divide le scene. Si ragiona molto insieme, si studiano libri di storia e saggi, si guardano immagini di repertorio e documentari. Il lavoro di documentazione nei film di Pif è fondamentale perché tutto deve partire da una base storica inoppugnabile. E’ lo scheletro reale del film. Parte tutto da lì, dalla realtà. Una volta compiuto il lavoro di ricerca, si comincia ad inventare la storia, a dar vita ai personaggi, a creare la struttura vera e propria.
Sei sceneggiatore, insieme a Fausto Brizzi, Saverio Costanzo, Mario Gianani e Lorenzo Mieli sei socio di Wildside, ma sei anche regista. Tuo è Cemento Armato (2007), e non solo, possiamo dire che sei sempre stato accanto a Fausto (Brizzi) sul set dei film scritti da entrambi, e ti sei occupato di dirigere intere parti dei vostri film.
In cosa cambi e sei diverso, quando scrivi piuttosto che quando dirigi? Che cosa ti piace di più: la scrittura o la regia?
E a quale dimensione senti di appartenere di più?
Sono due mestieri talmente diversi che è quasi impossibile metterli sullo stesso piano. La regia è un’esperienza eccitante ed appagante, adrenalina pura che vive sul Carpe Diem. Una professione che utilizza creatività, diplomazia e capacità decisionali contemporaneamente. La scrittura invece è un processo creativo più lento, più costante e pacato, ma non per questo meno appagante. Non saprei dire cosa mi piace di più. Posso solo dire che la mia unica esperienza di regia di un lungometraggio (tralasciando gli spot o i video musicali) è stata meravigliosa. E’ un mestiere che solamente quando ci sei dentro capisci se ci sei portato oppure no. La scrittura invece credo mi appartenga di più come indole. Avere comunque avuto esperienze di regia mi ha di sicuro aiutato nella scrittura. Conoscere il mezzo cinematografico, avere coscienza di quali sono le sue potenzialità e i suoi limiti, aver soprattutto lavorato in montaggio… tutto ciò è un’esperienza formativa fondamentale per la scrittura.
Pensi che la figura dello sceneggiatore sia ancora troppo sacrificata in italia?
Assolutamente si.
Quindi anche tu pensi che il film appartiene ancora troppo solo al regista, o le cose stanno cambiando?
Secondo me le cose non stanno cambiando. E’ proprio una questione culturale. Nelle interviste, solo per fare un esempio, i giornalisti chiedono com’è stato il lavoro sul set, quali siano state le scelte del regista, chiedono del cast. Mai, o quasi mai, i media, e di conseguenza la gente comune, si interessano del processo creativo che ha portato il film a nascere, crescere e a concretizzarsi sul set. La verità è che il regista è glamour, lo sceneggiatore no. La cosa che spesso mi fa arrabbiare è che quasi tutti i registi italiani sono anche sceneggiatori. Ma quando lo sceneggiatore diventa regista ecco che finalmente anni di frustrazione, di oblio, di indifferenza cadono all’improvviso. Tutti si interessano al suo lavoro mentre prima nessuno lo faceva. Questo, mi rendo conto, crea un certo scossone emotivo… e porta nella stragrande maggioranza dei casi a concentrarsi sul proprio lavoro di regista dimenticando quello che si è fatto in lunghi mesi di scrittura; in sostanza, a dire IO invece che NOI.
In Francia o in America, il regista che non è anche lo sceneggiatore del suo film non viene considerato in modo disdicevole. Qui sembra quasi Lesa Maestà. Ma come? Il regista non ha anche scritto il film? Il vero problema, come dicevo prima, è puramente culturale. Per di più l’eccesso di influenza del regista che ha potere assoluto sulla scrittura gli viene dato prima di tutto dal produttore, poi dagli stessi sceneggiatori, che molto spesso si disinteressano del film una volta che il lavoro si è spostato sul set. E questo è un errore grossolano.
A questo proposito, allora parlaci della tua esperienza con i registi con cui hai lavorato.
Nella mia esperienza personale ho incontrato e lavorato con molti registi che avevano un grande rispetto per la scrittura e per lo sceneggiatore… ma sono stato fortunato.
Pif, per esempio, è uno dei rarissimi casi di regista che non viene dalla sceneggiatura, ma ha un percorso televisivo fatto di programmi, inchieste… La Mafia Uccide Solo d’Estate è stata la sua prima sceneggiatura per il cinema. Ed è stato bravo a mettersi al servizio di chi questo mestiere lo fa da tanti anni. Rispettoso del lavoro di scrittura. E questo rispetto lo ha portato anche sul set, non cambiando una virgola della sceneggiatura, fidandosi del lavoro che avevamo fatto insieme. E alla fine le soddisfazioni sono state condivise da tutti.
Cambiando un attimo argomento, nella televisione italiana, secondo te, le cose sono diverse riguardo al ruolo dello sceneggiatore di cinema?
Bè, intanto in televisione, soprattutto nella lunga serialità, il ruolo del regista è meno “importante” di quello del produttore. Tranne naturalmente in casi particolari come nelle serie TV che nascono dall’intuizione del regista il cui nome basta a chiudere i contratti. Penso per esempio a Sorrentino con The Young Pope prodotto da noi di Wildside. Ma sono casi isolati. In effetti il ruolo di Sorrentino nella serie coprodotta con HBO è stato equiparabile a quello dello showrunner americano. In America lo showrunner difficilmente è il regista del film, tuttavia ha un potere immenso. Questa figura professionale fa in modo che le varie fasi di sviluppo del progetto, dalla scrittura delle singole puntate, al cast e alla regia mantengano lo spirito iniziale dell’idea.
In Italia il produttore non si farà mai soppiantare da uno “scrittore” per quel che concerne la responsabilità dello sviluppo, del cast e dell’ultima parola sulla regia e sul montaggio. Ce lo vedi Pietro Valsecchi, solo per fare un esempio, a delegare a uno scrittore le fasi di sviluppo, di cast e il montaggio delle puntate? E poi lui che fa?
A meno che, appunto, i produttori non abbiano tra le mani il regista star. Ma in questo caso lo lasciano a capo di tutto perché gli conviene. Il business è business. E questa è la lotta che lo sceneggiatore italiano deve affrontare per vedere realizzato il suo sogno di “controllo” sul suo lavoro di scrittore. Ma diversamente dagli Stati Uniti, dove c’è un rispetto fondamentale per l’idea e c’è la fiducia che i responsabili del network ripongono sullo sceneggiatore, qui la strada è ancora lunga da fare. Fin quando sentiremo che il regista cambia le sceneggiature sul set e nessuno ha nulla da ridire, gli attori importanti cambiano le battute, intere scene o addirittura il senso del proprio personaggio solo per un capriccio, quando il produttore interviene nel montaggio della puntata cambiando il senso alla storia… non bisogna essere dei geni per pensare che quella fiducia non ci sia. Ammetto che molto spesso le sceneggiature non sono di livello, che il tempo per scriverle è poco, i soldi ancora meno, che le note dei network non sono precise e spesso sono contraddittorie, che occorre lavorare continuamente di compromessi… ecco, tutto questo accade sempre perché non c’è la fiducia nella scrittura. Parlo per esperienza diretta: quando le sceneggiature funzionano le cose sono sempre più facili. Si spende meno denaro sul set e c’è molto meno lavoro per tutti. E i risultati arrivano. Ma per farle funzionare, le sceneggiature, abbiamo bisogno di più tempo. Per pensarle, per scriverle e per revisionarle. E non si deve andare sul set con la serie ancora da scrivere. Mai.
Non voglio essere pessimista però. Anzi, ho molta fiducia che il sistema cambi radicalmente. E secondo me succederà in breve tempo. E lo dico con i dati alla mano: gli ascolti delle TV generaliste stanno andando in picchiata e quindi, se i risultati sono questi, probabilmente qualcuno si dovrebbe fare qualche domanda. Cambiamo qualcosa? Diamo alla scrittura il ruolo che le compete così come succede negli altri paesi?
Hai avuto modo di sperimentare per la TV il ruolo di Showrunner?
Io personalmente ho avuto modo di seguire due film TV su Sky. Due commedie dirette felicemente da Giambattista Avellino, Un Natale Per Due (2011) e Un Natale Coi Fiocchi (2012) che avevo scritto con Saverni e Bencivenni, seguendone tutte le fasi fino alla versione finale del montaggio, con uno scambio intenso e alla pari con i responsabili dello sviluppo del network. E alla fine il grande successo che hanno avuto entrambe è stato per me una soddisfazione doppia. Così come per la serie 1992, sempre prodotta da Wildside, Stefano Sardo ha lavorato per più di due anni e mezzo senza mollare mai fino alla messa in onda. Lo so, sono casi sporadici ma in fondo chi può seguire tutte le fasi di sviluppo di un progetto meglio dello scrittore che quella serie l’ha pensata e sviluppata?
Su questo mi trovi perfettamente d’accordo con te. Lanciare e sostenere anche in Italia il ruolo dello showrunner è uno degli obiettivi più urgenti di WGI. Ma ancora più profondamente, dimmi qual è allora, secondo te, il gap culturale che determina l’insufficiente valorizzazione della professione di sceneggiatore?
In Italia il percorso è quasi sempre: si scrive il film e poi si spera di dirigerlo. Non c’è come negli altri paesi una divisione netta tra i due mestieri. Perché non c’è una cultura scolastica vera e propria che permetta alle nuove generazioni di separare le due professioni. Sì, c’è il Centro Sperimentale, ci sono scuole private, ci sono realtà di scrittura più o meno strutturate ma sono sporadiche. Manca in Italia una vera cultura dell’audiovisivo e della drammaturgia che secondo me dovrebbero essere materia di studio fin dalle scuole elementari. Siamo circondati da immagini, film, tv, contenuti di tutti i tipi… perché tutto ciò non dovrebbe essere materia di studio come la storia o la matematica? E infatti la carenza di grammatica e di drammaturgia si vedono tristemente nei contenuti che le nuove generazioni adottano quando devono esprimersi scrivendo, o creando dei video. Oggi ogni adolescente è potenzialmente un regista e uno sceneggiatore, visti i mezzi tecnici che ha a disposizione solo rispetto a dieci anni fa. Ma i contenuti (i testi) e la forma (la regia) sono terribili perché non si ha nessuna consapevolezza della grammatica filmica e drammaturgica. Questa carenza culturale, devo dirlo, si nota parecchio anche nella narrativa italiana e nel teatro che, rispetto alla consapevolezza drammaturgica della cultura anglosassone, bè… sono indietro anni luce.
Su questo mi piacerebbe molto approfondire e argomentare con te ma restiamo in tema: ai Festival, e in genere in tutte le occasioni più istituzionali, bisogna ancora lottare perché gli sceneggiatori vengano nominati tra gli autori del film insieme al regista. Cosa pensi di questa cattiva abitudine? Cosa devono fare gli sceneggiatori per farsi rispettare di più nella loro identità di autori e creatori dell’opera?
Devono smettere di subire, di pazientare, di lasciar correre. Ma pretendere di essere nominati, rispettati e valorizzati. Pretenderlo non solamente nominalmente, ma anche contrattualmente.
Per concludere, cosa ti auguri per In Guerra per Amore visto che il 27 Ottobre uscirà in sala?
Che sia un grande successo ma ancor di più che abbia un gradimento unanime grazie alla sceneggiatura. La sceneggiatura de La Mafia Uccide Solo D’Estate è stata presa d’esempio da tanti colleghi e giovani cineasti. Molti la utilizzano come metro di paragone o un prototipo da imitare. Quella sì che è la più grande soddisfazione per noi sceneggiatori.
Anch’io faccio un mondo di auguri al film e a te Marco.
E grazie per la passione con cui hai risposto alle mie domande.