Senza Lasciare Traccia
Lea Tafuri, socia WGI, sceneggiatrice e story editor di tante produzioni tv, ci racconta la sua prima esperienza cinematografica con il film Senza lasciare traccia diretto da Gianclaudio Cappai. Lea è autrice della sceneggiatura insieme a Gianclaudio e anche produttrice del film con la società indipendente Hira Film.
Senza Lasciare Traccia inaugura mercoledì 8 giugno alle 20:30 al cinema Adriano di Roma la rassegna Indipendenti Italiani.
Ciao Lea, come sempre come prima cosa ti chiedo: mi puoi fare il pitch del film?
È la storia di un uomo reduce da un periodo di malattia, che si trova, per un’offerta di lavoro ricevuta dalla sua compagna, a tornare in una città del nord dove aveva vissuto quand’era bambino. Lui non ha mai raccontato a nessuno quello che gli accadde allora, ma adesso capisce che quel trauma taciuto per tanto tempo ha a che fare con la sua malattia e che per guarire veramente deve prima di tutto affrontare quel passato che ha sempre cercato di rimuovere, di dimenticare. Per questo torna alla fornace abbandonata dove tutto è cominciato, alla ricerca di un colpevole, di una vendetta, di una catarsi.
Quindi il tema è il rapporto tra un trauma passato e la malattia?
Sì, c’è un ritorno al passato legato alla malattia, che è una malattia fisica, ma con radici profonde, psicologiche, in qualcosa che non si detto e non si è superato. Ci siamo ispirati alla storia reale di una nostra amica malata di cancro, che sentiva che il suo tumore era dovuto a un trauma che non aveva superato, anche se non ci ha detto quale. Quindi da un lato abbiamo lavorato con l’immaginazione dall’altro ci siamo documentati e abbiamo trovato molti studi sulle cause psicosomatiche del cancro. In particolare il libro Malattia come metafora di Susan Sontag parla proprio del fatto che i malati hanno bisogno di trovare un significato alla malattia nel loro vissuto, e che spesso il tumore è avvertito da chi ne soffre come un accumulo di rabbia inespressa. E questo ha ispirato il percorso del nostro personaggio.
Che tono di racconto avete scelto? Vedendo il trailer sembra un film noir…
Direi che è un thriller, sebbene sui generis. Nel racconto abbiamo seguito molto il personaggio e il suo tormento interiore: deve lottare non solo contro un nemico esterno ma anche con i suoi fantasmi interiori e “interni”. Quindi potremmo dire che è un thriller esistenziale, che trova nell’inquietudine visiva della regia di Gianclaudio Cappai un corrispettivo stilistico e che si serve anche dalle atmosfere e dai luoghi in cui abbiamo girato, nella bassa padana, tra Lodi e Piacenza. È un paesaggio di campagna industriale abbandonata, con il relitto di un’antica fornace: un paesaggio che incarna ed esprime appieno le inquietudini del film.
Come è nato il progetto?
Ho conosciuto il regista Gianclaudio Cappai a Venezia nel 2009, dove presentava il suo mediometraggio So che c’è un uomo, che io ho trovato bellissimo e che mi ha quasi folgorato. Sono andata a conoscerlo, poi pian piano abbiamo cominciato a collaborare. Abbiamo lavorato insieme su un progetto abbastanza complesso e ambizioso, che poi non è stato realizzato, anche per l’incertezza del produttore. A quel punto abbiamo deciso di lavorare su qualcosa di più fattibile, anche di più contenuto nei costi, e quindi si può dire che Senza lasciare traccia è nato come una costola dell’altro progetto. Poi a poco a poco ha preso forma coagulandosi intorno ad altre idee: la storia della nostra amica, il luogo della fornace, che era anche una suggestione di memorie d’infanzia. Inizialmente abbiamo provato a sottoporre la nuova storia al produttore dell’altro progetto, però poi abbiamo capito che era meglio farlo in autonomia.
E come ha funzionato la vostra auto-produzione?
Io sono entrata in società con il regista e un altro socio, Massimo Ruggini. Abbiamo trovato degli investitori esterni, facilitati in questo dal tax credit, che sono entrati in associazione in compartecipazione. Sono tutti italiani, tranne una società con sede in svizzera. Abbiamo usufruito inoltre dei fondi regionali della Lombardia Film Commission e della Film Commission del Lazio.
E la fase di scrittura quanto è durata?
Abbiamo iniziato a scrivere ad aprile del 2013 e l’abbiamo girato un anno dopo. Quindi circa un anno, tra soggetto e sceneggiatura.
La sceneggiatura ha subito modifiche sul set?
Abbiamo lavorato in fase di preparazione con gli attori, con Riondino e la Radonicich soprattutto, ma nel complesso si è girata la sceneggiatura come l’avevamo scritta. Ci ha anche fatto piacere che Vitaliano Trevisan, uno dei protagonisti, che è prima di tutto uno scrittore, abbia “approvato” la sceneggiatura così com’era, salvo poche modifiche nei dialoghi. Poi però è stato al montaggio che siamo dovuti intervenire, per correggere il tiro rispetto a cose che funzionavano sulla carta ma meno al montaggio. A quel punto è arrivato il momento doloroso dei tagli…
Quali sono state le difficoltà e i vantaggi dell’essere sia autrice che produttrice?
Il vantaggio è stato innanzitutto quello di poter seguire tutto il film e di riuscire a realizzare qualcosa che sento mio. La difficoltà è stata quella di non potersi appoggiare su un produttore che si facesse carico del rischio o di scelte difficili. Un produttore ha certamente una dimestichezza che io non ho con gli aspetti finanziari, organizzativi e commerciali. Io ho dovuto imparare sul campo, il che è stata certamente una grande soddisfazione ma anche una fatica in più.
Tu prima hai scritto molto per la televisione, anche facendo lo story editor, quali sono le differenze di linguaggio, proprio di medium tra il cinema e la tv?
Secondo me sono due mezzi completamente diversi, da cui scaturiscono due linguaggi diversi. In questo sono un’assertrice di McLuhan: il cinema è un mezzo freddo, più specializzato; ha un pubblico attento, che ti segue e non hai bisogno di aiutarlo come nella percezione più distratta e meno specializzata della televisione. Il cinema per questo può permettersi sottigliezza, innovazione, complessità, sperimentazioni molto maggiori della tv. Ciò non toglie che in questo momento storico ci sia un altro grado di sperimentazione nelle serie tv, con risultati spesso sorprendenti. Bisognerebbe poi mettere in conto che la fruizione sta cambiando con la pay tv, il video on demand, Netflix, ecc. e che questo in realtà rimette in gioco anche le classiche distinzioni tra cinema e tv.
Sei d’accordo che la televisione è più dominio dello sceneggiatore appunto perché si dice molto, si conta molto sulla parola, perché lo schermo è piccolo, mentre al cinema comunque la dimensione dello schermo dà molta più rilevanza alle immagini e quindi al regista?
Assolutamente sì. E in questo senso cambia anche il rapporto di lavoro. Per quanto riguarda per esempio Senza lasciare traccia, io mi sono messa a servizio del regista e del suo mondo. Un film – diceva Truffaut – esprime sempre una visione del mondo e una visione del cinema, e questi a mio parere devono essere quelli del regista, anche se naturalmente lo sceneggiatore deve metterci del suo. Il lavoro dello sceneggiatore in questi casi è spesso quello di aiutare il regista a tradurre in termini drammaturgici intuizioni e ossessioni che provengono dal suo mondo o dal suo immaginario.
Per la televisione hai scritto diverse miniserie biografiche, grandi storie, ricche di eventi, mentre Senza Lasciare Traccia sembra un racconto più intimo e personale. È stata una scelta consapevole?
Diciamo che la storia pur essendo intimista non è minimalista, ci sono dentro dei grossi nodi tematici, non è un racconto evanescente. In generale comunque, anche quando si hanno storie massimaliste, a me piace lavorare sulle sfumature, sulla sottrazione.
L’esperienza di Senza lasciare traccia in ogni caso mi ha consentito una libertà, una sperimentazione, che non sono spesso consentiti quando lavori su commissione.
Ti è capitato di rifiutare dei progetti tv per scrivere il film?
Sì, ho dovuto, anche perché il lavoro sul film è stato molto impegnativo.
Cosa vorresti vedere in televisione in Italia?
In tv, come al cinema, vorrei vedere cose che mi sorprendono, il che per fortuna ogni tanto capita. Certo non è facile trovare la strada di un’innovazione “sostenibile”, soprattutto per la tv generalista. Vedo una tendenza a replicare cose fatte all’estero, mentre sarebbe più interessante seguire strade originali.
Adesso stai accompagnando il film nei cinema? Avete una distribuzione?
Si abbiamo un tour promozionale in giro per l’Italia, che proseguirà anche nelle arene. Il film è distribuito da Hirafilm insieme a Il MonelloFilm.
E avete dei progetti futuri con la HiraFilm?
Stiamo pensando al prossimo film di Gianclaudio. Io ho anche un paio di progetti che vorrei sviluppare autonomamente.
Che budget aveva il film e quante settimane avete girato?
Il budget era di 600 mila euro. Abbiamo girato sei settimane, che è il tempo giusto per un’opera prima.
Da un punto di vista della Writers’Guild come vedi la figura dello sceneggiatore in Italia? Credi che sarebbe utile avere gli showrunner?
Qualsiasi prodotto avrebbe tanto da guadagnare dalla presenza dello sceneggiatore o showrunner dall’inizio alla fine del processo. Al cinema questo è un po’ il ruolo del regista, mentre nel caso delle serie è naturale che sia l’autore. Maggiore autonomia e potere decisionale all’autore sono garanzia di una maggiore originalità del risultato finale. Nel mio caso devo dire che siamo arrivati a produrci un film da soli per poter dire qualcosa di nostro, qualcosa su cui un produttore forse non avrebbe scommesso per via delle solite paure e dei soliti preconcetti, che spesso soffocano ogni tentativo anche timido di virare dal già visto o dal già fatto. Quindi credo che ci vogliano gli spazi per consentire agli autori di dire la loro, rischiando in prima persona.