Quasi morta
Il segreto della felicità
Amy, ci siamo: il primo aprile verrà annunciato ufficialmente che il tuo romanzo Quasi Morta Il segreto della felicità è stato candidato al Premio Strega. Toglici subito una curiosità, che succede adesso?
Il primo aprile ci sarà l’ufficializzazione dei candidati che dovrebbero essere all’incirca venticinque. Il quattordici aprile saranno resi noti i nomi dei dodici finalisti, che, dopo essere stati valutati da una giuria molto larga e trasversale, composta da cinquecento giurati – Gli amici della domenica, più altre componenti – diventeranno cinque il 15 giugno.
L’8 luglio, in una importante serata ripresa in tv – la location del settantesimo compleanno dello Strega quest’anno sarà l’Auditorium – verrà proclamato il vincitore.
Per quanto mi riguarda sono già molto felice così. Se si pensa al numero di libri che vengono pubblicati in un anno, far parte della ristretta rosa di candidati del premio più importante del paese è già una vittoria.
E di felicità parla il tuo libro, o meglio il racconto scritto dalla tua protagonista che inizia a pagina 51 del romanzo e porta come titolo appunto: Il segreto della felicità. Perché questi due livelli di scrittura?
Non c’è un piano razionale nella struttura del romanzo. Non volevo una scaletta precostituita e sono andata avanti nella scrittura senza sapere prima dove mi avrebbe portato la storia.
Senza cadere nello spoiler, ci fai un pitch delle due storie?
Dal mio punto di vista la storia è una sola e compatta, anche se articolata attraverso due piani narrativi e due diverse voci.
C’è un personaggio spaesato, una donna che fa la sceneggiatrice di soap opera e che perde il lavoro mentre suo figlio va via di casa. Tutto dentro e fuori di lei cambia. Deve accettare il cambiamento, ma deve esserne lei stessa l’artefice. Così ritrova il suo centro scrivendo. Non accetta più di essere parte di un copione deciso da altri. Questa è la sua sfida. Attraverso il personaggio della storia che scrive, la bellissima Nina, si addentra nel sottosuolo della Stazione Termini, dove Nina lavora in un chiosco, circondata da una corte di personaggi strampalati e poetici. Quando un bambino che non parla si affida a Nina, costringendola a risolvere il mistero che lo avvolge, l’azione prende il sopravvento…
La protagonista del tuo libro non ha un nome né un cognome, mentre la protagonista del racconto si chiama Nina. E’ una differenza che riguarda anche i linguaggi delle due storie: uno che tende all’assoluto, e l’altro che s’incarna di più nella realtà. Perché questa scelta?
Le due donne a ben vedere sono una sola. La faticosa messa a fuoco iniziale del personaggio che scrive ha determinato lo sviluppo successivo della storia, che man mano si è svolta in modo sempre più naturale, spontaneo.
Il grande fascino è proprio quello di lasciarsi andare al processo creativo, che è irrazionale. In questo senso scrivere è, come dice Bukowski, “fare una cosa pericolosa con stile”. Ma è un rischio che vale la pena correre.
Il tuo romanzo ha per protagonista una sceneggiatrice di soap opera e questo, ovviamente, ci interessa molto. Ti chiediamo un pitch per chi non lo sa: cos’è una soap opera?
Ti rispondo con la battuta di uno sceneggiatore: “La soap opera è un porno senza le scene di sesso”. E mai definizione fu più calzante. Quando la soap non esce dai suoi angusti confini è un genere anaffettivo e falso, tanto che anche i rapporti fra le persone che ci lavorano rischiano di diventare tali.
Per questo una lunghissima serialità che tenga conto davvero della drammaturgia nel rispetto del pubblico, dovrebbe chiamarsi real drama.
Pensa a Un Posto al Sole, non si può certo chiamarlo soap opera…
Nel tuo romanzo, scrivi di “rigidissimi limiti entro i quali il linguaggio si appiattiva”… Quali limiti e quale linguaggio si appiattisce nella scrittura della soap? Ci fai degli esempi?
Nella mia esperienza gli sceneggiatori più bravi con la lingua e i più profondi nella scrittura, sono quelli che hanno avuto vita più dura nel gruppo di scrittura di una soap. Anche solo perché più originali e meno conformi a un prodotto standard.
E’ come aver conseguito un master di specializzazione in matematica applicata per poi riprodurre solo la tabellina del due. Il lavoro sta tutto, e questa volta cito Woody Allen, nel “togliere ogni parvenza di sapore al pollo”.
Nel tuo romanzo la protagonista viene licenziata dal suo posto di lavoro nella scrittura della soap. Si direbbe – nella realtà – che è stata vendicata dai fatti, visto che al momento attuale la lunghissima serialità è “quasi morta” come genere, licenziata dalle Tv, che dal 2000 ne ha aperte e poi falcidiate una decina… Cosa ti auguri per la lunghissima serialità?
Hai ragione. Costretta dagli eventi,la protagonista del mio romanzo non solo sopravvive ma riesce a coincidere di più con se stessa.
Di lunghissima serialità mi auguro che, con un’inversione di tendenza, ne venga prodotta sempre più. Ma più evoluta. La struttura che prevede linee narrative multiple, è alla base delle serie americane, ma anche inglesi, israeliane, etc. E’ un processo di trasformazione ineluttabile. Anche in Italia stiamo andando nella stessa direzione.
Che cos'è una soap opera
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Si chiama soap opera un modello di lunghissima serialità televisiva, costituita da puntate quotidiane della durata di venti/trenta minuti contenenti ciascuna una molteplicità di storie (multi strand) intrecciate, che fanno capo a una coralità di protagonisti.
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Il termine soap deriva dalle origini del programma: la Colgate-Palmolive-Peet, specializzata in prodotti per la casa e l’igiene personale, fu il primo sponsor ufficiale nel 1931 di un serial radiofonico americano con protagoniste femminili.
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Esiste una forte tradizione europea di lunghissima serialità che richiede un complesso meccanismo di scrittura: una squadra di sceneggiatori, a diversi livelli e con diverse modalità, prima costruisce l’idea in sedute di brainstorming, poi inserisce l’idea nella narrazione progressiva della serie, e poi ancora fraziona la narrazione in episodi e poi, con i trattamenti, in scene dei singoli episodi. Segue la scrittura dei dialoghi all’interno delle sceneggiature di puntata e infine il coordinamento di esse, per mantenere in continuità personaggi e storie.
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Alle lineee orizzontali che sviluppano le storie dei protagonisti nell’arco dell’intera stagione, s’intreccia la verticalità, ovvero eventi più o meno lunghi che si concludono all’interno di uno o più episodi.
Torniamo alla letteratura, al tuo romanzo. Al centro c’è, prepotente, il mondo delle emozioni femminili, dominato dal legame madre-figlio che sembra per te l’unico capace di garantire una continuità o un senso all’esistenza. E’ così?
La maternità spesso è raccontata attraverso luoghi comuni assolutamente falsi. Nella realtà si tratta di un rapporto pieno di gioia ma anche di dolore perché c’è in gioco, fin dall’inizio, la separazione. Separarsi da un figlio avuto quasi nell’adolescenza è difficilissimo. Lacerante e necessario, perché apre per entrambi nuove prospettive e possibilità di vita.
L’altro aspetto del romanzo è la sessualità, i diversi rapporti delle tue protagoniste con gli uomini. Sono avventure sempre intense, brucianti, molto spesso brevi. Sembra che a voler vivere, questo sia l’unico modo di farlo: bello, ma difficile.
Il desiderio è uno dei temi del romanzo. L’amore di Nina per il suo amante, s’ispira liberamente al mito di Amore e Psiche. La sessualità che racconto è autentica, come diceva Prevert ne Les enfants du paradis, “dopotutto l’amore è semplice“ Da una sessualità vissuta con pienezza originano l’identità e la libertà. Ma anche la solitudine.
Una domanda sul linguaggio: chiedi molto ai tuoi lettori, procedi per flash emotivi, descrivi poco, i ganci logici ridotti all’osso… O uno entra nella tua dimensione poetica e si lascia trascinare o, forse, si perde.
Perdersi e ritrovarsi è uno dei piaceri della lettura. La linearità non è del romanzo, non di quelli che amo.
In Quasi Morta, c’è una parte più interiore, più profonda, relativa al personaggio che scrive, e poi c’è il plot della storia di Nina, che è dettagliato, incalzante, molto visivo.
Certo è che la comprensione razionale non mi interessa quando scrivo. E nemmeno quando leggo. Kafka pubblicò La metamorfosi pretendendo dall’editore che non ci fossero immagini in copertina. Non voleva spiegare o descrivere. Ma solo evocare immagini profonde in chi leggeva. Forse è questa la vera differenza tra la lingua di un romanzo e quella di una sceneggiatura che, al contrario, ha l’obbligo di descrivere le immagini il più oggettivamente possibile.
Sulla quarta di copertina troviamo un brindisi “Alla bellezza che salverà il mondo”. Nel romanzo, attribuisci alle due protagoniste, la scrittrice e Nina, un rapporto molto conflittuale con la propria bellezza, come fosse un impedimento alla vita, invece che un vantaggio. Aiutaci a capire: davvero pensi sia la bellezza – e quale bellezza – a salvarci?
“La bellezza salverà il mondo” l’ha detto Dostoevskij. La bellezza commuove e fa star bene. Ciò che è bello in senso profondo è onesto. Sincero. Tutto ciò che è ingiusto, brutale, privo di affetti è sempre esteticamente improponibile. E tuttavia troppa bellezza offende chi non ce l’ha. Anche nelle favole le fanciulle belle dovevano nascondersi sotto pelli d’asino e sporcarsi il viso con il nero fumo per non diventare bersagli. Rita Levi Montalcini diceva una cosa che condivido: “Una donna o è un oggetto di lusso, o qualcosa da distruggere”.
Perseguire la bellezza può essere una chiave esistenziale di resistenza se l’estetica contiene l’etica. Aggirare ciò che è brutto e falso è il contrario dell’egocentrismo e dell’egoismo e ha a che fare con l’amore e l’interesse per gli altri.
Grazie, Amy! Faremo il tifo per te.