Dallo scarabocchio all’industria: il segno del sé.
Cristiana, in una masterclass dello scorso settembre, Giuseppe Tornatore elencava una serie di processi di costruzione di un film come una serie di riscritture, a partire dall’idea del soggetto, passando per la sceneggiatura e le riprese, per finire al montaggio e al mix. A noi questo concetto piace: ogni volta che si mette mano a una fase della realizzazione si tocca anche il concetto e l’identità del prodotto. Sei d’accordo?
Il processo di costruzione di un film prevede sicuramente una serie di scritture il cui risultato è determinato dalla loro somma.
Il primo passo è la sceneggiatura ma subito dopo ci sono le riprese, la recitazione, la fotografia, la colonna sonora e ultimo ma non meno importante, il montaggio. Tutte queste fasi richiedono competenza e professionalità diverse, e ognuna di loro, senza una guida predeterminata, ha il potere di stravolgere il senso originale del film e deviarne l’identità. La domanda a cui ogni volta bisogna rispondere prima di intraprendere tale processo è: Chi sarà il maestro d’orchestra tra tutte le voci dello stesso coro?
Nel cinema la risposta è semplice perché il regista in Italia è il direttore d’orchestra preposto ad indirizzare tutte le competenze artistiche necessarie alla realizzazione di un film.
Il problema si pone quando parliamo di serie tv e quindi di fiction. Formato in cui i registi sono spesso una delle voci del coro e non sempre la voce dominante.
Tutta la scrittura, dallo scarabocchio del bambino, alle firme e ai simboli graffiti sulle pareti dei bagni pubblici, degli ascensori, sui sedili delle panchine, infine alla lavagna continuamente riempita dei social, nasce dal desiderio di lasciare un segno di sé. Ciò che esce dalla documentazione del presente e può diventare opera d’arte è il segno del sé che contiene anche il segno degli altri, in cui gli altri si possono riconoscere. Ogni espressione artistica si nutre dell’equilibrio tra singolo e collettività. L’audiovisivo, opera collettiva e frutto di processo industriale, procede nello stesso modo?
L’audiovisivo inteso come espressione solitaria, e cioè da film maker che scrive gira e monta, può essere inteso come lo scarabocchio del bambino o segno del sé. L’audiovisivo inteso come opera collettiva e frutto di un processo industriale procede secondo impulsi meno personali e più programmatici. Questo non significa che non possa rispecchiare il sé o la collettività ma sicuramente lo fa in maniera più condizionata.
Nella tua intensa carriera, hai sperimentato molti modi e livelli di scrittura dell’audiovisivo: film, soap, format d’intrattenimento, serialità tv, produzione. Cominciamo da dove si comincia sempre: soggetto e sceneggiatura. Secondo te è il momento più intenso, più vicino all’espressione del sé o – più banalmente – si comincia solo a scegliere e mescolare gli ingredienti?
La scrittura è semplicemente il momento in cui nasce qualcosa che prima non esisteva… partendo da tale presupposto potremmo definirla l’anima del processo creativo di un audiovisivo. Con la sceneggiatura viene alla luce una realtà nuova che possiede una propria identità, un racconto fatto di sentimenti ed emozioni che nell’audiovisivo prendono forma con il volto degli attori, con la capacità fotografica di mostrarli, con quella musicale che ne interpreta le emozioni e con l’intervento del montaggio che ne stabilisce il ritmo. A tutelare e potenziare questa identità nel cinema c’è il regista. Non a caso infatti molto spesso il regista di un film partecipa anche alla sua scrittura.
A tutela invece di audiovisivi come la soap o come i reality ci sono gli head writer o i capoprogetto. Questo perché sono gli unici artefici delle varie fasi della scrittura seriale. Le altre figure si alternano in maniera modulare e non possono garantire continuità al progetto, né tantomeno proteggere la sua identità. E’ per questo che negli Usa con l’avvento della tv e delle serie televisive nasce la figura dello showrunner o capoprogetto.
Tu hai scritto e ideato diverse soap opera (Vivere, Centovetrine) dove a scrivere e riscrivere una stessa puntata concorrono diverse persone, diverse menti e quindi diversi desideri di sé. I rischi di una scrittura collettiva sono evidenti: da una parte il caos, dall’altra la dittatura dell’ultimo che ci mette mano e seleziona tutto il materiale precedente, modificandolo a suo gusto. Come si organizza tutto questo? E’ necessario un sistema gerarchico con un capo?
Un sistema gerarchico con un capo è l’unico metodo possibile per scrivere una lunga serie.
Le competenze di tutti gli altri sono precise ma non presenti in ciascun episodio. L’unico che ha il controllo totale di tutto il processo creativo è il capoprogetto o showrunner.
Essere a capo di una scrittura collettiva, vuol dire farsi carico anche della delusione e del risentimento di qualcuno, ma – mi sembra, ed è quello che ci interessa qui – costringe la mente ad agire su più piani (il lavoro dei singoli) e su più livelli (le capacità espressive dei singoli) e trovare un equilibrio tra molteplicità e unità. Insomma, insegna a scrivere in modo diverso, più articolato, più complesso. Ma di che cosa ha bisogno il capo scrittore per governare questo processo? Di che cosa deve tener conto e a cosa si deve ispirare per mantenere la barra del timone nella giusta direzione?
E’ molto più semplice di quello che sembra… Lo showrunner è colui che ha l’idea originale per la serie. Un’idea semplice che si può raccontare in una frase e sintetizzare in un titolo. Il titolo è fondamentale perché deve racchiudere in sé cosa ha di diverso quella serie da tutte le altre di quel genere.
Lo showrunner prima di iniziare la scrittura della serie, come prima cosa, sceglie gli scrittori con cui avviare questo processo e queste selezioni avvengono già in funzione di un’intesa con i prescelti e tra i prescelti. Questo è un equilibrio di competenze e personalità che ogni head writer deve avere molto a cuore per poter procedere in maniera armonica.
La prima qualità di un bravo Head Writer è saper formare un gruppo creativo coeso e stimolante.
La seconda qualità è quella di saper mettere in luce le abilità altrui guidandole verso la direzione più efficace per lo svolgimento del racconto.
La terza qualità è quella di ricordare che è il progetto su cui si sta lavorando il fulcro che regola ogni decisione e non l’ego di chicchessia.
A un certo punto del tuo percorso professionale, sei andata negli Stati Uniti proprio a studiare il loro sistema produttivo che mette al centro lo showrunner. Ci racconti com’è andata? Presso quale struttura sei andata? Quanti giorni sei stata lì?
Stavo scrivendo Amiche Mie e la Endemol mi ha dato l’opportunità di partecipare ad un programma di interscambio dedicato a professionisti del settore audiovisivo. Questo il link della società che ancora oggi offre tale servizio.
Ho passato con loro un paio di settimane. Mi hanno fatto incontrare una decina di show runner. Alcuni di loro ci hanno ospitato nella loro writing room e lì ho assistito all’infallibile organizzazione quotidiana del lavoro di scrittura. Ho avuto la fortuna di affiancare per qualche giorno David Milch (creator e showrunner di serie come Deadwood e NYPD Blue) nella writing room, sul set, nel montaggio e a mensa. Insomma una full immertion in cui ho imparato molto sul sistema produttivo industriale. Riassumerlo qui non è semplice. Ci vorrebbe un saggio dedicato.
Posso dire soltanto che in Italia non abbiamo nulla di simile nella scrittura delle prime serate. Parlo ovviamente di sistema produttivo (distribuzione delle competenze, tempi di consegna, sistemi di ricerca, rapporti con i network, scelta e gestione degli attori, sistema di alternanza dei registi, sistema di alternanza dei montatori, controllo sul set della scrittura)
E’ un sistema produttivo industriale, quindi studiato per avere alte potenzialità produttive. Tutto verte a contrarre i tempi di scrittura e produzione affinché si possa andare in onda con un cuscinetto di circa 4 puntate tra quella che si sta scrivendo e quella on air. Questo permette alla scrittura di cambiare rotta qualora piaccia un personaggio piuttosto che un altro e permette ai broadcast di interrompere la produzione se la serie non ha successo.
Il fatto che i tempi siano stretti e rigorosamente determinati non significa che la qualità del prodotto ne risenta perché le competenze di ciascun protagonista del processo produttivo sono estremamente elevate e continuamente verificabili. Ognuno ha la sua responsabilità e non ha modo di evitarla.
Che cosa hai imparato che ha cambiato il tuo modo di vedere la scrittura fino a quel momento?
In realtà ho imparato delle tecniche produttive in più e ho conosciuto dei grandi talenti che mi hanno aperto la mente, ma non ho cambiato modo di vedere la scrittura. Avendo già lavorato come script editor per Un Posto al Sole e avendo creato Vivere e Centovetrine conoscevo bene il sistema di scrittura industriale. La soap purtroppo in Italia rimane l’unico modello di scrittura industriale esistente. Il suo sistema di produzione è uguale a quello delle serie di prima serata americane. Oltre ai costi l’unica differenza sostanziale è il minutaggio prodotto a settimana (2h30′ contro i 50’ di una prima serata in Usa) che ne stabilisce i limiti creativi e ne determina la qualità.
Sei stata la prima scrittrice italiana a diventare anche produttrice creativa con Amiche mie. Hai fatto davvero lo showrunner come negli USA o qualcosa di quel potere non ti è stato concesso?
Non ho fatto lo showrunner come concepito negli Usa perché non ho avuto voce in capitolo circa l’organizzazione produttiva. Infatti in Italia i piani di produzione sono organizzati in modo sostanzialmente diverso e le puntate vengono girate una di seguito all’altra solo in rari casi. Più frequentemente le scene di tutta la serie vengono accorpate per essere girate location dopo location. E questo è stato il caso di Amiche Mie. Ho però supervisionato tutte le fasi creative dalla scelta degli scrittori, dei registi, a quella degli attori e delle location. Il tassello mancante è stata la connessione con la parte produttiva organizzativo/economica, e cioè non sono stata messa a conoscenza del budget per poter ottimizzare le risorse a partire dalla sceneggiatura.
Questo ha causato tagli di scene e revisioni successive che potevano e dovevano essere evitate se lo showrunner avesse fatto parte anche del processo produttivo/finanziario.
Cartier Bresson diceva che fotografare “è porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore. È un modo di vivere.” Cosa deve allineare lo showrunner di una serie? Qual è il suo modo di vivere?
Deve allineare la propria idea con la fattibilità economica, con le esigenze di mercato e saper cogliere chi meglio la rappresenta tra le varie competenze creative necessarie per attuarla.
Infine deve avere una gran capacità di convincimento per fare in modo che tutta la troupe, artistica e tecnica, remi nella direzione da lui stabilita per raggiungere il porto auspicato.
In molti pensano che la scrittura della serialità sia l’espansione creativa di un film, più potente di un film, altri invece che sia il massimo punto di allontanamento di un prodotto dalla possibilità di diventare espressione artistica. Comunque sia perché pensi che l’unità artistica di un film venga lasciata per tradizione nelle mani del regista e invece per una serie si ritiene utile e costruttivo chiamare uno scrittore al comando?
Anche qui dipende dai mercati a cui ci si rivolge. Non è tradizione degli Studios americani infatti affidare completamente l’unità artistica del film nelle mani di un regista. O almeno dipende dai film.
Infatti solo i film in cui il regista è anche autore del soggetto e della sceneggiatura sono affidati per lo più nelle sue mani perché essendo colui che ha creato l’idea originale è chiamato ad esprimerla appieno.
Una serie nasce dall’idea di Uno per poi essere affidata a diverse mani durante le fasi di scrittura, di produzione e di post produzione.
Il Creatore o showrunner supervisiona tutti i passaggi e rimane il portatore dell’identità unica della serie, per questo deve verificarne il rafforzamento dopo ogni passaggio creativo.
Non tutti gli sceneggiatori possono e vogliono diventare showrunner. Al di là del desiderio dei singoli, parlaci un momento da produttore, a chi affideresti questo ruolo? Che qualità deve avere uno scrittore per misurarsi nel ruolo di showrunner?
Gli showrunner devono conoscere il modello di scrittura seriale. Saper scrivere in funzione di un budget dato. Conoscere il metodo per far roteare più unità di regia. Conoscere i tempi necessari a girare una scena in esterni piuttosto che una in interni. Saper strutturare ogni singolo soggetto in funzione dei blocchi pubblicitari… (sulla tv commerciale generalista italiana questa regola così ovvia viene applicata solo nella soap). Last but not least deve avere una visione chiara e potente della propria idea. Dalla sua capacità di convincimento e coinvolgimento dipende l’esito finale.
Amiche mie è del 2008, nel 2009 la Sact organizzò un convegno proprio sulla figura dello showrunner, oggi la WGI ci riprova con progetti di formazione e altro. In Italia si fa fatica ad introdurre questa figura più che nel resto del mondo… Secondo te perché? Semplice pigrizia, forza di gravità di un sistema diverso?
Questa è “LA” domanda. Credo che in Italia non esista un modello industriale di scrittura di fiction perché non esiste un mercato libero di questo prodotto. Non esiste una vera industria in cui vige la semplice regola del funziona o non funziona… I network hanno dei rapporti più con i produttori che con gli scrittori. L’idea non è il cuore da cui tutto parte. E’ quindi una conseguenza ovvia che i poli di potere siano altrove e non tra gli scrittori.
Lo stesso discorso vale per l’intrattenimento… perché in questo paese non si producono idee originali e si fa la corsa all’acquisto dei format? Perché le idee creano nuovi mercati e nuovi centri di potere. Forse chi è seduto sulle comode sedie del vecchio caro sistema non ha intenzione di cedere il proprio dominio… e d’altronde come biasimarlo? In questo paese immobile il mercato delle idee mette paura perché sposta gli equilibri e quindi depotenziarlo è la risposta in atto.
Personalmente confido molto nell’avvento del web e delle tv a pagamento… lì almeno la selezione è naturale perché dove c’è una vera richiesta c’è un vero mercato e quindi vige la semplice regola del funziona o non funziona, se funziona esisti e sei indispensabile, se non funziona possono fare a meno di te.
Ultima domanda su di te: ma che vuol dire scrivere un format come Boss in incognito? Ancora una volta, come entra l’apporto di persone diverse nel processo creativo dell’autore?
Il format Boss in Incognito è stato ideato nel Regno Unito da Stephen Lambert e trasmesso su Channel 4. Io ne ho curato l’adattamento italiano che prevede il raddoppio della durata e l’inserimento di un conduttore. In quello originale il programma dura circa 45 minuti e non ha conduzione ma solo un voice over.
Su questo programma in particolare ho curato tutti gli aspetti, da quello produttivo a quello creativo, passando per la scelta di regista, autori e montatori. Essendo un docu-reality non esiste un’identità da preservare ma solo la necessità di saper raccontare al meglio la realtà in cui ci si imbatte. Ovviamente la mia supervisione e il mio intervento è presente su ogni puntata, mentre i tre autori si alternano una puntata ciascuno per l’intera serie.
Unico momento in cui costruisco l’identità della puntata è nella fase di cast, dove cerco di scegliere i protagonisti in base ad un tema che risuoni anche nel vissuto del Boss. Questo per dare maggiore omogeneità al racconto e alle sue emozioni.
Grazie e in bocca al lupo per tutto.
Grazie a tutti quelli che sono fermamente convinti di avere una storia da raccontare e si impegnano per poterlo fare in modo fedele.
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