Sicilian Ghost Story
Antonio Piazza, insieme a Fabio Grassadonia, ha scritto “Sicilian Ghost Story”, una delle 12 sceneggiature selezionate dal Sundance Institute per lo Screenwriters Lab dello scorso gennaio, un workshop intensivo per scrittori della durata di una settimana circa che si è tenuto presso il Sundance Mountain Resort nello Utah, a pochi chilometri da Park City dove si tiene il Sundance Film Festival. Delle 12 sceneggiature, 9 erano americane, 2 inglesi e una sola, appunto quella di Fabio e Antonio, italiana.
Al termine di questa esperienza, Fabio e Antonio hanno vinto il SUNDANCE INSTITUTE GLOBAL FILMAKING AWARD, consegnato in una cerimonia durante il festival. Si tratta del premio che ogni anno, come spiegato nelle motivazioni, onora “registi emergenti dalle diverse parti del pianeta che posseggono l’originalità, il talento e la visione per essere celebrati come il futuro del cinema mondiale”.
Antonio, innanzitutto complimenti, da me e da tutta la WGI, per questo importante riconoscimento internazionale che tu e Fabio avete ottenuto. Il premio, sul quale torniamo più avanti, arriva alla fine dello Screenwriters Lab organizzato dal Sundance Institute: ci spieghi bene che cos’è questo corso?
Grazie mille per i complimenti, prima di tutto. Felice di parlare con te, avendo notato da lettore l’attenzione e la cura che mettete nel seguire gli sceneggiatori italiani. Il January Screenwriters Lab del Sundance Institute non è un corso, non si “studia”, è un laboratorio di sceneggiatura. O potremmo dire che si “studia” come migliorare il tuo copione. Si tratta del primo laboratorio fondato da Michelle Satter e Robert Redford e rimane ancora oggi il cuore della loro attività.
Scusa ma DEVO interromperti, per forza, con una domanda frivola: avete conosciuto personalmente Robert Redford?
Sì. È venuto a trovarci. Ci tiene a conoscere i registi e gli sceneggiatori selezionati. Redford e Michelle Satter hanno creato il laboratorio e sono ancora personalmente coinvolti. Le fortune del cinema indipendente – americano e non – devono molto a entrambi. Sono molto attivi e appassionati nel sostenere i giovani registi.
Michelle Satter è stata con noi per tutta la durata del laboratorio e Robert Redford è venuto per una master class su “Quiz Show”, il suo film del 1994. Paul Attanasio, lo sceneggiatore del film, per altro di origini calabresi, è stato uno degli esperti coinvolti dal laboratorio quest’anno. A lui si devono film bellissimi come “Donnie Brasco” ed è il produttore esecutivo della serie “Dr. House”.
Dicevi dunque che è un laboratorio di sceneggiatura. Raccontaci bene in cosa consiste.
Con questo laboratorio il Sundance Institute inaugura ogni anno l’attività, subito prima dell’inizio del Sundance Film Festival. Si tratta di un laboratorio intensivo di sceneggiatura, di altissimo livello, presso una struttura alberghiera di montagna che si chiama Sundance Mountain Resort, in una valle che Redford stesso ha salvato dalla speculazione edilizia. Un posto incantevole e perfetto per un laboratorio intensivo. Le montagne e la neve creano un’atmosfera intima, raccolta. I partecipanti discutono del loro copione con un gruppo di esperti, sceneggiatori americani e internazionali. In poche parole, un gruppo di 5 o 6 sceneggiatori disseziona, analizza il tuo copione, approfondendo ogni aspetto, dalla trama, allo sviluppo dei personaggi, al tema. Noi abbiamo lavorato con Bill Wheeler, Michael Goldenberg, Thomas Bidegain, Marcos Bernestein, Erik Jendresen, Tyger Williams, tutti sceneggiatori di grandissimi film. Thomas è lo sceneggiatore di Jacques Audiard in film come Il profeta (Un prophète), uno dei nostri preferiti degli ultimi anni. Durante il lab gli esperti ogni mattina fanno il punto tra loro, dunque nelle discussioni che seguono non hai mai la sensazione di ricevere pareri contraddittori o di ripartire ogni volta da capo, è come una conversazione ininterrotta sul copione, anche se ovviamente ogni esperto ha il suo approccio, il suo metodo e dà il suo specifico punto di vista. Fabio ed io conosciamo bene il mondo dei laboratori di sceneggiatura internazionali, abbiamo partecipato ad alcuni con il copione del nostro primo film e adesso collaboriamo come consulenti noi stessi con molti di questi laboratori. Diciamo che non è facile stupirci… In questo caso è successo. Il livello del Sundance Lab è incredibile. I consulenti non sono semplicemente story editor, essendo sceneggiatori e registi si mettono totalmente dalla tua parte, sono complici nel farti ottenere dal copione quello che vuoi, rispettando le tue intenzioni originali. E danno generosamente tante idee.
Qualche elemento ancora sul Lab, più “materiale”: chi lo finanzia e a che scopo? Come funziona la selezione (ossia, chi può partecipare e chi sceglie)?
Il laboratorio è interamente finanziato dal Sundance Institute, che è un’organizzazione non-profit che ha plurime fonti di finanziamento e sostegno, moltissimi gli sponsor privati. Il Sundance Institute supporta il lavoro dei cineasti indipendenti, attraverso anche la partecipazione ai corsi di grandi professionisti, la cui consulenza rende molto ambita la frequentazione ai programmi di sviluppo artistico gestiti dall’istituto. Si ripropone di aiutare i registi e gli sceneggiatori di opere prime e seconde a sviluppare i loro film, difendendo l’originalità della loro voce.
La selezione avviene attraverso una application online, aperta a tutti.
I copioni vengono letti e valutati dal team del Feature Film Program del Sundance, guidato dalla grande esperienza di Paul Federbush, che viene dal mondo della distribuzione della produzione, è la persona che con la Warner Indipendent ha sviluppato progetti come The Millionaire (Slumdog Millionaire) di Danny Boyle o Paradise Now di Hany Abu Assad. Il processo di selezione è molto difficile e ricevono moltissime application. Negli Stati Uniti il Sundance può davvero fare la differenza per i giovani registi e sceneggiatori. Per altro, non si chiude tutto in quella settimana. Il supporto del Sundance va avanti e hanno svariati altri laboratori, di regia, montaggio, sound design. Alcuni partecipanti tornano nello Utah per curare anche questi aspetti del film. Ricordi per esempio il film Re della Terra Selvaggia (Beasts of the Southern Wild), il film che racconta di una bambina di sei anni che vive assieme al padre in una comunità bayou nelle paludi nel profondo sud della Louisiana?
Lo ricordo bene, mi piacque molto. La Natura e l’Essere Umano, senza alcuna presunzione ma con una storia. Tra documentario, favola e poesia. L’ho amato.
Infatti, bello. Vinse la Camera d’Or al Festival di Cannes nel 2012. Il regista e sceneggiatore Benh Zeitlin fu accompagnato dal Sundance in tutti questi passaggi creativi di cui ti parlavo, dalla sceneggiatura al sound design.
Torniamo a voi e al Lab. Come mai avete deciso di partecipare? È stata un’iniziativa vostra o dei vostri produttori? C’erano molti altri progetti italiani, che hanno tentato la selezione? Raccontaci com’è andata.
Sicilian Ghost Story, il nostro nuovo film, racconta una storia a cui siamo molto legati emotivamente. Vogliamo che il pubblico provi lo stesso attaccamento, le stesse emozioni intense che provoca in noi raccontare questa storia. Ci sembrava che il Sundance Lab fosse il posto giusto dove discutere del copione per l’importanza che gli americani danno allo storytelling, al coinvolgimento emotivo del pubblico. E avevamo ragione. L’iniziativa di partecipare è stata nostra, ma ovviamente approvata dai produttori, che sono Nicola Giuliano e Carlotta Calori per Indigo Film e Massimo Cristaldi per Cristaldi Pics, che ci segue dal nostro primo corto e ha prodotto anche “Salvo”, il nostro primo lungometraggio.
Matthew Takata del Sundance Institute aveva visto e amato Salvo, quando lo presentammo in Messico e all’epoca avevamo avuto lì una bella conversazione. Da quel momento siamo rimasti in contatto, Matthew era molto curioso di quello che avevamo in mente di fare dopo Salvo. Così alla fine ci ha convinto a presentarci per la selezione, il cui processo è molto lungo, prevedendo anche delle conversazioni via skype. È andata bene e ne siamo felici. Francamente non so se ci fossero altri sceneggiatori o registi italiani che avevano fatto domanda. Al laboratorio Fabio ed io eravamo gli unici non di madre lingua inglese. So che il Sundance ha organizzato recentemente un laboratorio in Italia, a Capalbio, e i partecipanti in quel caso erano tutti italiani. Organizzano svariati laboratori in giro per il mondo, perché sono costantemente alla ricerca delle voci più originali e interessanti, ovunque esse siano.
Sul sito del Sundance si può leggere la sinossi della vostra sceneggiatura ma a me piacerebbe sentirla direttamente da te: qual è la storia di Sicilian Ghost Story?
È la storia di Luna, una ragazzina siciliana che non si rassegna alla sparizione di Giuseppe, il ragazzino che ama. Pur di ritrovarlo, discende nel mondo oscuro che lo ha inghiottito e che ha in un lago, nei pressi di un bosco sulle montagne siciliane, una misteriosa via d’accesso. Una via dalla quale il loro indistruttibile amore la fa riemergere nell’infinito spazio aperto della vita. Salvo era giocato su temi e stile noir, questa volta volevamo proprio una favola con dei bambini, che si portasse appresso un ambiente, dei paesaggi e delle situazioni che non ti aspetti in Sicilia, una Sicilia sognata, diversa, come un mondo dei Fratelli Grimm di foreste e orchi che a un certo punto collide con il piano di realtà di cui la nostra terra è inevitabilmente portatrice.
Che cosa, di questa vostra sceneggiatura, ha colpito i selezionatori del Sundance?
Credo proprio il fatto che sia una favola siciliana e che all’interno dei generi scelti, ghost story e storia d’amore di ragazzini, tenti di raccontare temi che ci stanno molto a cuore. Ci confrontiamo con i nostri “fantasmi”, ma all’interno di una storia che vuole parlare a un pubblico anche internazionale. Gli americani sono da sempre innamorati della Sicilia, anche questo credo ci abbia aiutato. La Sicilia è un bacino incredibile di storie inesplorate e anche di paesaggi da raccontare.
Una favola, dunque. Come mai questa scelta? Cosa vi permette, come narratori, questo genere?
Non so davvero cosa ce lo permetta, se non un po’ di sana incoscienza e la passione di raccontare quello che ci sta a cuore, in modo originale, prendendoci dei rischi. I generi erano molto usati dal cinema italiano negli anni d’oro che tutti sempre rimpiangono: spaghetti western, thriller, horror, peplum, polizieschi… Non vedo perché non possiamo farlo oggi, non vedo perché dovremmo censurarci, censurare la fantasia. Anzi, ti confesso che se continueremo a fare questo lavoro, se saremo bravi abbastanza, abbiamo in mente di scrivere una commedia e un mystery, un sci-fi, cioè continuare la nostra esplorazione dei generi.
Nel vostro film precedente, Salvo (Prix Révélation e Grand Prix alla Semaine de la Critique nel 2013 a Cannes, n.d.r.), avete raccontato la storia di un miracolo. Oggi il fantastico, ieri il sovrannaturale: perché? La realtà non vi basta?
Cos’è la realtà cinematograficamente parlando? Quello che chiamiamo “realismo” altro non è che una convenzione, un certo modo del racconto per cui tutto ci sembra “vero”, “reale”, per via delle scelte dello sceneggiatore e del regista. Per esempio, se racconto una storia ambientata, che so, tutta in un condominio a Gallarate, se uso la macchina da presa con riprese a mano, mosse, se faccio largo uso di primi piani, se magari non uso particolari luci, e faccio determinate scelte in termine di correzione del colore, allora tutto sembra più “vero”.
Ma è appunto solo una convenzione, cioè è altrettanto “finto” di un fantasy con draghi ed elfi o di un western. Noi viaggiamo su un crinale diverso, che pur partendo da quello che tu chiameresti “realtà” approda altrove, al confine del sogno. E poi sì, la realtà non ci basta, hai ragione. Non mi sembra che sia la modalità di racconto giusta adesso per raccontare certe storie al cinema, il così detto realismo è “consumato” dalla fiction televisiva, con risultati a volte ottimi e a volte pessimi. Al cinema vogliamo altro, ci piace sognare e far sognare. E qualche volta questi sogni sono al nero. Il mio autore preferito, per dire, è Roman Polanski, il grande maestro dei luoghi oscuri, degli incubi. Non certo un narratore “realista”, anche se ha raccontato nei suoi film temi che gli stavano molto a cuore, oscuri paesaggi dell’anima, esperienze biografiche della sua infanzia.
La mafia c’è, comunque, in entrambi i film: Salvo è un killer al soldo di un boss mafioso; del vostro prossimo film Sicilian Ghost Story Variety ha scritto “Cosa Nostra meets the Brothers Grimm”. Sembra che nei vostri film la mafia ci sia, ma non al centro del racconto: piuttosto, fa da ambientazione, da connotazione… è una presenza inevitabile per personaggi che vivono in Sicilia. È vero, è così? Parlami di questa scelta drammaturgica, è singolare e interessante.
Prima di tutto, trovo che quello che dici sia azzeccato. Rispetto a ciò che per noi è “al centro” della narrazione e ciò che invece costituisce “lo sfondo”, il contesto. Prendi il caso di “Salvo”, il protagonista, come dici, è un killer di mafia, la co-protagonista femminile, Rita, è sorella di un altro mafioso, che viene ucciso da Salvo all’inizio del film. E tuttavia non è la mafia il cuore del racconto, ma l’incontro tra Salvo e Rita, cioè il vero miracolo nel film, un incontro che per entrambi è un’occasione di redenzione e cambiamento, seppur molto doloroso. Dunque, la narrazione prende una direzione tutta sua, che non è quella del tipico film, appunto, “di mafia”. Apparteniamo a una generazione di scrittori e registi siciliani che si è dovuta, anche per motivi biografici, confrontare con i terribili fatti accaduti in Sicilia negli anni 80’ e ’90. Da quelle storie siamo ossessionati e da lì partiamo, come altre generazioni hanno raccontato per anni la guerra in Vietnam, il terrorismo o la Seconda Guerra Mondiale. Quelle storie, purtroppo, ci appartengono, sono scritte nella nostra carne. E da lì ripartiamo per capire oggi cosa farne, per capire chi siamo adesso e chi saremo domani. E tuttavia, almeno per quanto ci riguarda, quelle storie non vogliamo e possiamo affrontare dritto per dritto, abbiamo bisogno di ingressi laterali, punti di vista obliqui, che ci schiudano esperienze morali ed emotive che altrimenti non potremmo scoprire. Non possiamo ripetere l’ovvio, ma andarci a cercare ciò che ovvio non è. Da qui il fatto che la mafia, eventualmente, sia solo il contesto e non il cuore della storia. E poi c’è da dire un’altra cosa. Sino a pochi anni fa il racconto di mafia sembrava potesse darsi solo all’interno del così detto “cinema civile”, di quello che i francesi chiamano le cinéma engagé, cioè il cinema esplicitamente impegnato su temi politici e sociali, che prende posizione, che divide i buoni dai cattivi. In questo filone si sono fatti dei grandissimi film, ma poi anche molto cinema e fiction televisiva di maniera, di un’antimafia più recitata che reale. Adesso anche da noi si è capito quello che gli americani o i francesi hanno sempre fatto e che cioè nel contesto criminale puoi declinare storie di tono e genere diverso, puoi perfino fare una commedia, come hanno fatto per esempio Roberto Benigni o i palermitani Ficarra e Picone, con buoni risultati.
Per te e Fabio, lo accennavi anche prima, il Lab del Sundance non è stato la prima esperienza di alta formazione all’estero. Con la sceneggiatura di Salvo partecipaste a un altro progetto internazionale a Berlino. Ci racconti brevemente anche quell’esperienza? Quali sono le principali differenze con questa americana?
L’esperienza che dici è il Berlinale Talents del Festival di Berlino. Partecipammo alla loro Script Station con il copione di Salvo. Anche quello è un laboratorio di sviluppo di sceneggiature, nel contesto però della piattaforma del Berlinale Talents, dove ogni anno selezionano 300 “talenti creativi” dai vari campi della produzione cinematografica e delle fiction televisive a puntate, dunque non solo sceneggiatori ma anche produttori, montatori, registi, direttori della fotografia, fonici, ecc. È un evento focalizzato anche al così detto networking, cioè a metterti in contatto con gli altri partecipanti e, più in generale, con il mondo del cinema europeo, sfruttando lo scenario e le opportunità della Berlinale. Ma la Script Station di Berlino non fu l’unico laboratorio a cui partecipammo con Salvo, che fu selezionato anche al Binger Filmlab di Amsterdam, all’Atelier di Angers Premiers Plans e soprattutto al Torino Filmlab. Il Torino Filmlab fu il luogo cruciale dove sviluppammo il copione, trovammo lì la co-produzione francese e vincemmo un premio di produzione, primo mattone della costruzione finanziaria del film. Durante il Torino Filmlab lavorammo con un grande story editor tedesco, Franz Rodenkirchen. Un’esperienza molto lunga, perché con i loro diversi programmi ci hanno accompagnato per più di un anno, e molto formativa. È un laboratorio fondato in Italia, ma che ormai è tra i più ambiti e riconosciuti a livello internazionale. Il loro programma di sviluppo di sceneggiature, Script and Pitch, è molto diverso dal Sundance Lab di gennaio che è intensivo e dura una sola settimana. Script and Pitch del Torino Filmlab invece si articola in svariati incontri, a distanza di mesi, coprendo dunque un lungo arco di tempo.
Ricordo che durante il Berlinale Talents dall’esigenza di lavorare di più su un personaggio nacque l’idea di realizzare il cortometraggio Rita. Quanto è stato importante, quel corto, per te e per Fabio? Noi della Wgi è da un po’ che mandiamo avanti un’indagine sui cortometraggi (qui gli articoli).
È stato importantissimo, l’inizio di tutto. Sì, durante lo sviluppo del copione di Salvo emerse l’esigenza di realizzare un corto. Prima di tutto, per motivi di ordine produttivo: la nostra formazione e il nostro background è da sceneggiatori, in quel momento dovevamo provare di essere in grado di dirigere. Ma anche per motivi essenzialmente artistici. Nel lungometraggio il personaggio di Rita è una donna palermitana non vedente di circa vent’anni. Nel corto Rita invece è una bambina palermitana non vedente di 10 anni. Non possiamo dire che siano lo stesso personaggio a diverse età della vita. Non è solo l’età a distinguerle, anche se il nome è lo stesso ed entrambe sono cieche e palermitane. Il corto è stato un modo essenzialmente per riflettere sulla cecità, su ciò che comporta e su come rappresentarla cinematograficamente. Volevamo raccontare la storia dal punto di vista di un personaggio non vedente e ci siamo interrogati su cosa significasse questo, non solo in termini di sceneggiatura, anche in termini di regia. La scelta del punto di vista di una persona senza vista, un paradosso apparentemente. E le risposte che trovammo realizzando il corto sono state determinanti nella realizzazione di Salvo. Inoltre, il successo del corto, presentato in più di 100 festival internazionali, con più di quaranta premi vinti, ci ha consentito di trovare finanziamenti per il lungo e ci ha dato una bella carica di fiducia.
Tornando al premio del Sundance che avete ricevuto: in teoria arriva grazie a una sceneggiatura ancora tutta da girare, ma la motivazione degli organizzatori, e il nome stesso del premio, fanno riferimento alla vostra visione di registi… Ci spieghi bene di cosa si tratta, allora? Cosa significa, questo Global Filmaking Award, e quali conseguenze, anche pratiche, comporta?
Il premio viene attribuito a registi che hanno partecipato a uno dei laboratori del Sundance, compresi i laboratori che organizzano intorno al mondo. Riconosce il valore del nostro nuovo progetto, Sicilian Ghost Story, ed è un investimento di fiducia nel nostro futuro di registi. Segna una promessa, sta a noi mantenerla facendo un buon film e dimostrando quindi che hanno visto giusto. Il premio consiste di una cifra in denaro, ti dà molta visibilità anche sulla stampa americana di settore, ma soprattutto consiste nel fatto che il Sundance continua a seguirti, a darti aiuto e consulenza, sul piano artistico e produttivo. Subito dopo la consegna del premio ci hanno organizzato incontri con l’industry americana del cinema, produttori, agenti, distributori. Durante il Sundance e per la durata del festival Park City diventa la capitale del cinema americano. Affluiscono tutti lì, da Hollywood e da New York. Il Sundance ti dà la possibilità di avere alcuni incontri che sarebbe molto difficile avere altrimenti. Alcuni di questi incontri daranno frutti, altri no. Staremo a vedere. Il premio, diciamo così, è una scommessa che fanno sul futuro del progetto specifico e più ancora sul nostro futuro di sceneggiatori e registi. Ti mettono nelle migliori condizioni possibili di realizzare quello che desideri, poi sta a te dimostrarti all’altezza.
Una domanda sulla lingua. Immagino che a tutte queste esperienze si partecipi scrivendo in inglese: voi come fate? Scrivete in inglese o lo fate in italiano e poi vi affidate a qualcuno, per tradurre? In questo secondo caso, i traduttori sono anche sceneggiatori?
Tutti questi laboratori di cui ti dicevo, anche il Torino Filmlab, sono in inglese. Si partecipa con copioni scritti o tradotti in inglese e le conversazioni con gli esperti sono in inglese. Conoscerlo ci ha salvato la vita, in un certo senso. Ci ha consentito di trovare persone che in Europa e nel mondo credevano in noi ed erano disposte ad aiutarci. Francamente, credo sia impossibile per un giovane che inizi adesso la carriera di sceneggiatore pensare di farlo senza conoscere e parlare l’inglese. Significa rinchiudersi dentro una gabbia, tagliarsi le gambe. Dunque, bisogna studiare bene l’inglese e anche il francese. Consiglio banale ma indispensabile. Per quanto riguarda il copione, noi scriviamo in italiano e poi traduciamo. Indigo Film collabora con un traduttore formidabile, che ha lavorato anche alla traduzione in inglese delle sceneggiature di Paolo Sorrentino. Non fa lo sceneggiatore, ma i suoi dialoghi sono buoni tanto quanto quelli di uno sceneggiatore provetto.
Da italiano che ormai ha un piede, e lo sguardo, piantati all’estero: come lo vedi il cinema italiano, oggi? Mi piacerebbe anche sapere che ne pensi del “ddl Franceschini”, se lo conosci: quattrocento milioni al cinema non sono pochi, però alcuni hanno riscontrato non poche criticità nel disegno di legge…
Il cinema italiano lo vedo benissimo, in grande ripresa. Gianfranco Rosi ha appena vinto l’Orso d’Oro a Berlino e i documentari vengono infine riconosciuti dai grandi festival e dal pubblico, al cinema o in televisione. I registi italiani amati all’estero sono numerosi. Gli autori italiani hanno voglia di dialogare con il pubblico, di trovarsi un pubblico. E il pubblico comincia di nuovo a fidarsi. Ha voglia di vedere film italiani. Negli anni scorsi grazie a registi come Paolo Sorrentino e Matteo Garrone, l’Italia è tornata sulla mappa del cinema internazionale. Il loro successo non è un fenomeno isolato, come quello di altri autori del passato più o meno recente. C’è la sensazione di un movimento, di un fermento, di un’attività creativa, dopo anni di stasi. Una nuova generazione di autori sta crescendo. La frattura, dannosa, tra cinema d’autore impegnato – magari noioso e senza pubblico – e cinema commerciale non è più la stessa di alcuni anni fa. Si dialoga. Le cose da aggiustare, i problemi sono moltissimi, certo. A molti di questi la nuova legge dà risposte convincenti. L’impianto del disegno di legge è ottimo e se, come spero, verrà approvato – pur con tutte le criticità che dici da risolvere nell’iter di confronto con le categorie e poi di discussione parlamentare – l’industria del cinema italiano potrà guardare con più fiducia al futuro. Dopo l’approvazione del disegno di legge, spero anche che prima o poi si pensi a Roma, a Milano e in altre grandi città italiane a delle nuove cineteche, magari progettate da grandi architetti. Roma, la città del cinema, dovrebbe avere una cineteca bella tanto quanto quella di Parigi o di Copenaghen. Grazie a Salvo abbiamo girato il mondo per presentare il film e abbiamo visto come le cineteche diventano luoghi di incontro meravigliosi. Si va lì per vedere gli amici, per mangiare, per vedere film, per fare ricerca o semplicemente per “stare”, godersi il posto. Luoghi di bellezza. E la bellezza aiuta a vivere meglio. Ti consiglio di includere le cineteche nel tuo prossimo viaggio nelle capitali europee, farai delle scoperte sorprendenti.
Me ne ricorderò. L’ultima domanda, Antonio, è su noi della WGI. Facciamo queste interviste per restituire agli sceneggiatori e alla sceneggiatura la centralità che meritano nel sistema dell’audiovisivo. Tu che ne pensi, facciamo bene?
Sì, la sceneggiatura è il cuore di tutto. Noi ci crediamo, è la nostra filosofia da sempre. Si parte da lì. È il primo e più importante ingrediente per fare un bel film. Senza una buona sceneggiatura, non si va da nessuna parte.
Abbiamo finito, Antonio. Grazie di cuore, e in bocca al lupo a te e Fabio per il vostro film!
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