La felicità è un sistema complesso
Michele Pellegrini ha scritto, insieme a Gianni Zanasi e Lorenzo Favella, il film La felicità è un sistema complesso presentato al Festival del Film di Torino 2015 nella sezione Festa Mobile. Michele era presente a Torino anche con il film-documentario Mia madre fa l’attrice, scritto insieme al regista Mario Balsamo. La nostra intervista si è concentrata sul primo film.
Michele, iniziamo con un classicone: la storia dei film in poche righe.
È la storia di un uomo che fa un lavoro particolare: quando un grande industriale muore o passa la mano, lui convince gli eredi a rinunciare alla loro eredità e a fare spazio a chi ha le giuste competenze. Solo che a un certo punto il protagonista, interpretato da Valerio Mastandrea, si accorge di essere solo un ingranaggio di quel sistema che lui stesso vorrebbe combattere. È un romanzo pieno di cose e di personaggi, parla della scoperta e dell’importanza dei sentimenti. Che poi, vabbè, alla fine è un po’ quello di cui parlano tutte le storie.
Il protagonista fa un lavoro stravagante assai. Come e a chi è venuta l’idea? Raccontami in generale la gestazione del film, il modo in cui è nata, e proseguita, la collaborazione fra voi tre che lo avete scritto.
L’idea di un protagonista che fa un mestiere così particolare è venuta a Gianni.
Subito dopo ci siamo a studiare, a leggere, a interrogare uomini d’affari su uno degli aspetti più arretrati della nostra economia, l’assenza di un ricambio generazionale fra imprenditori basato sulla competenza e non sulla discendenza famigliare, e intanto ci chiedevamo come si potesse sentire una persona che facesse davvero quel lavoro, che lo vedesse come una missione, che cosa provocasse l’inevitabile cortocircuito fra slanci ideali e bilancio del quotidiano. La gestazione del copione è stata lunga, a un certo punto sono uscito dal progetto, ho fatto altro, è arrivato Lorenzo Favella, poi mi hanno richiamato ad affiancarli quando il film era in preparazione…
Il film è una commedia ma il titolo resta… impegnativo, soprattutto di questi tempi, in cui la guerra esplode in tutto il mondo, ci arriva fin dentro casa e ci marchia a lutto. C’è chi ha scritto che gli attentati di Parigi sono stati attentati contro i giovani che credono nella felicità. Il tema che vi premeva raccontare affonda le radici anche qui, dentro questi scenari apocalittici? Parlamene bene, di questo sistema complesso.
Il titolo allude alla responsabilità che abbiamo di trovarci in pace con noi stessi e contiene, a mio avviso, una sua forma di ironia. Per quello che mi chiedi sugli attentati, oddio, non credo di poter dire qualcosa di intelligente anche perché lo stanno già facendo bene scrittori e intellettuali sui giornali di mezzo mondo. Di certo chi spara al pubblico di un concerto o chi è seduto al tavolo di un caffè ha un’idea di felicità tutta sua, violenta e disumana. Ecco, vedi, qualsiasi cosa dica mi sembra una banalità.
Non sei nuovo alla collaborazione con Zanasi, hai scritto con lui anche “Non pensarci”. Come funziona tra voi, nella scrittura? Il fatto che lui sia anche il regista come influenza il vostro modo di lavorare?
Con Gianni ho scritto Non Pensarci, la serie che ne è derivata e un paio di cose che poi non si sono fatte… funziona, fondamentalmente, che lui ha sempre delle idee molto belle e sregolate e io cerco di renderle sensate all’interno di un racconto coerente cercando, disperatamente, soluzioni minimamente originali e fantasiose. Come per la verità succede così con buona parte dei registi con cui lavoro.
Avere già lavorato con il regista ti ha permesso una vicinanza al set maggiore di quella che tradizionalmente spetta agli sceneggiatori? Hai partecipato in qualche modo alle scelte che riguardavano la messa in scena?
Come ti ho detto, abbiamo lavorato a ridosso delle riprese e le ultime modifiche le abbiamo fatte mentre stava girando le prime scene. Metti inoltre che Gianni appartiene a quel tipo di regista per cui il copione è sempre in divenire, che cambia insieme agli attori, alle suggestioni del set, che non chiude mai le porte a nuove idee e nuovi spunti… più che avermi “permesso” la vicinanza al set, me l’ha imposta. Ma non è che io ami particolarmente il set. Con Gianni c’è sempre un buon grado di coinvolgimento sulle varie scelte. Io tendo a dire la mia soprattutto sulle musiche (con la presunzione di saperne!).
Paul Haggis, in una lezione al Roma Fiction Fest, ha detto che uno sceneggiatore che scrive “per un attore” non gli fa un buon servizio perché significa che lo incastra in un ruolo già noto, in un carattere che l’attore ha già indossato altre volte. Tu sei d’accordo? Quando scrivevate il vostro Enrico voi avevate già in mente Valerio Mastandrea?
Sì, pensavamo a Valerio. O comunque abbiamo iniziato molto presto a pensare a lui. Ora… se Paul Haggis ha detto così io non me la sento proprio di dissentire. In linea teorica è giusto. Ma è anche vero che un bravo attore non ha una sola corda ma molteplici… e che pensare a un attore bravo mentre stai scrivendo è sempre molto divertente e stimolante. E deprimente il contrario, cosa che succede spesso.
Al cinema hai scritto più commedie che “non” (tra queste, Padroni di casa e Il venditore di medicine): è una casualità, frutto anche del fatto che al cinema le commedie vendono di più, o una scelta determinata dalle tue attitudini?
Credo di avere nelle mie corde sia il dramma che la commedia. Ma siccome per il mercato, in questi anni, contava soprattutto la commedia mi sono trovato a scrivere soprattutto film di questo tipo. E’ anche vero, a parte eccezioni, che non riesco mai davvero a capire fino in fondo se quello che sto scrivendo sia un dramma o una commedia.
Lavori anche per la televisione, hai collaborato a serie come Fuoriclasse, i Liceali, Questo nostro amore… Mi racconti quali sono le differenze principali tra i due mezzi, cinema e tv? Sempre per quanto riguarda la scrittura, eh.
Anche qui rischio di essere banale: da una parte si lavora per sintesi nell’altra no. Ma di fondo rimane, dal mio punto di vista, sempre la solita cosa: ritrarre dei personaggi a cui affezionarsi, raccontare delle storie a cui appassionarsi.
Presto andrà in onda sulla Rai un altro progetto che ti vede tra gli sceneggiatori: “Tutto può succedere”, l’adattamento italiano della serie “Parenthood” di NBC. Tra quelle americane non è certo la serie family che propone i temi e i personaggi più dirompenti e innovativi… basta confrontarla con “Transparent” o “Modern Family”. Qual è il senso dell’operazione, allora, secondo te? Perché abbiamo bisogno di rivolgerci agli stranieri anche per idee più tradizionali come questa (ma i casi sono tantissimi)?
La serie Parenthood è un grande affresco, un poderoso romanzo famigliare, e secondo me non è così privo di spunti innovativi nei contenuti e nella forma, ma proprio perché non è una serie così dirompente me la sono sentita di metterci le mani. Nelle sue slabbrature, inevitabili e fisiologici per ampiezza del racconto e numero di personaggi, nelle differenze fra scenario americano e italiano, sento di avere lo spazio per una mia elaborazione, un mio discorso personale. E credo di condividere questa sensazione anche con i miei colleghi Guido Iuculano, Filippo Gravino, Federica Pontremoli e Anita Rivaroli che scrivono con me.
Il fatto che un’azienda privata o un broadcast vogliano affidarsi a un concept già sperimentato credo sia una scelta legittima, l’importante è che nel contempo crescano gli spazi per gli spunti originali, magari da vendere all’estero per un percorso al contrario. Secondo me, tutto sommato, la tendenza è questa.
Una domanda scostumata, motivata dal fatto che ci stiamo occupando anche di giovani e accesso alla professione. Tu sei uno degli sceneggiatori della nostra generazione – gli around 40, per intenderci, poco più o poco meno – che lavora di più. Ci riveli la formula magica? Quanto c’è di talento, quanto di fortuna, di studio, di determinazione, di abilità relazionali eccetera? Insomma, note su di te ma anche tips for the youngest: qualche consiglio per chi deve entrare nella professione, da chi è arrivato.
Ognuno ha le sue croci, e io sono insicuro e pieno di ansie, ma questo mi porta a essere totalmente permeabile alle critiche e alle idee degli altri e a non imporre mai le mie opinioni se non attraverso la persuasione. Quindi non dico che lavorare con me sia piacevole, ma sicuramente non troppo faticoso. Se poi riesco a trovare un clima di disponibilità e fiducia da parte dei registi, dei produttori e dei colleghi, riesco anche a tirare fuori qualcosa di buono. Ci tengo a precisare che l’occasione di questa intervista viene da due film dove io non firmo la sceneggiatura ma la collaborazione alla sceneggiatura, come a dire “Michele è bravo, ma a piccole dosi”.
Che dire ai giovani? Quello che diceva Scarpelli: scomparire dietro ai nostri personaggi. Ma io penso anche dietro ai registi, agli attori, ai produttori… sia chiaro che non sto dicendo di annullarsi, ma proprio di scomparire come fanno i maghi o gli illusionisti. I più bravi, quello di cui ci ricordiamo di più, sono quelli più bravi a nascondersi.
E’ dai giorni di Venezia che su questo sito ci stiamo interrogando sul rapporto tra budget e qualità di un film. Tu che ne pensi, rispetto a La felicità è… ? I soldi erano quelli che ci volevano o qualche soldo in più l’avrebbe reso migliore? La qualità di un film dipende anche dalle sue risorse economiche?
Sì, la qualità di un film (e di un serie aggiungo) deriva anche, o soprattutto, dai soldi che ci sono. E questo credo che valga anche per il film di Gianni. Poi è anche vero che ci sono storie che possono essere raccontate con budget piccoli… il film di Mario Balsamo credo sia costato molto poco.
Riesci a dirmi, in poche battute, com’è messo oggi il cinema italiano? Se vuoi puoi usare anche solo tre aggettivi.
Il cinema italiano è pieno di grandi talenti che fanno film belli con pochissimi soldi e io amo particolarmente i film, talvolta un po’ sgangherati sul piano narrativo e formale ma sempre originali e toccanti dei miei coetanei come I primi della lista, Alì ha gli occhi azzurri, Una vita tranquilla, Zoran il mio nipote scemo, Corpo celeste, Short Skin, Smetto quando voglio, N-capace, Vergine Giurata, Hungry Hearts… credo che chi parli programmaticamente male del nostro cinema questi film non li abbia proprio visti.
Netflix è sbarcato in Italia. Domanda 1, giusto per farmi i fatti tuoi: tu ti sei abbonato? Domanda 2, più seria: sta davvero cambiando le carte in tavola? E se sì, come?
Non mi sono abbonato perché ho appena traslocato, sono circondato da scatoloni e non ho avuto ancora modo di metterci la testa. Ma è chiaro che lo farò. Speriamo davvero che la presenza di una nuova sponda creativa e produttiva contribuisca ad alzare ancora di più l’asticella della domanda. Diciamo che sono vagamente fiducioso.
Con le sue interviste agli sceneggiatori, la WGI cerca di colmare un vuoto nell’informazione italiana cinematografica e televisiva, colpevolmente incline a dimenticarsi di citare e parlare degli autori. È un atto culturale ma anche politico, che serve a restituire agli sceneggiatori la centralità che meritano nell’industria dell’audiovisivo. Che ne pensi, facciamo bene?
Fate benissimo. E vi ringrazio da morire per aver intervistato anche me.
Grazie mille, Michele, e in bocca al lupo per i tuoi film!