A prova di regista
Domenica 15 novembre 2015 all’interno del Roma fiction fest si è tenuta una masterclass con Andrew Davies, a tutti noto per I diari di Bridget Jones e come autore della miniserie inglese House of Cards, derivata da un romanzo di Michael Dobbs, dalla quale sono state tratte le diverse stagioni della omonima serie Netflix .
Le masterclass del RFF sono condotte in forma di intervista, le domande vengono poste inizialmente dal giornalista cinematografico Marco Spagnoli e poi dal pubblico.
Fosca Gallesio ha seguito la masterclass di Andrew Davies per la Writers Guild Italia.
MS: Siamo molto onorati che Andrew Davies sia qui. È un’occasione straordinaria incontrare un grande artista e un grande professionista, oltre che un uomo eccezionale. Come prima domanda vorrei chiedere come ha iniziato a scrivere? E perché scrivere proprio per il cinema e la televisione?
AD: Sono uno scrittore sin da quando ero bambino. Adoravo scrivere a scuola e gli insegnanti mi apprezzavano molto. Le mie poesie e i miei racconti venivano appesi al muro e dicevano “Guardate Andrew che belle cose che ha scritto”. Tempo dopo, verso i dodici anni, la mia scrittura ha iniziato a diventare satirica, scrivevo storielle volgari sugli insegnanti che circolavano a scuola attraverso i ciclostilati.
Dei ragazzi più grandi mi chiesero quasi minacciosi se fossi io l’autore di quelle storie e io risposi di si e loro dissero “Bravo! Sono una figata!”. E poi come sono arrivato alla sceneggiatura… Quando avevo dodici o tredici anni c’era un insegnante molto bravo a scuola che un giorno ci mostrò una sceneggiatura di un film dicendo “Avete mai visto una cosa scritta così?” E mostrò anche uno storyboard spiegandoci che era una storia raccontata con le immagini. Ci propose di provare questo nuovo modo di scrivere storie, e mi ricordo che facendolo mi piacque molto e questo avveniva molto tempo prima che diventassi uno sceneggiatore professionista. Mi ci sono buttato molto giovane, poi dopo ho scritto prima per la radio e poi per la televisione e il cinema.
MS: Mi colpisce che un’insegnante abbia fatto vedere una sceneggiatura con uno storyboard… è un’idea geniale. Cosa significa per lei questa possibilità di raccontare con le immagini?
AD: Quando leggo un libro io ho sempre visualizzato delle immagini, anche prima di diventare sceneggiatore. Credo che succeda a molte persone, leggendo si vede il volto della protagonista con chiarezza. Per questo quando vediamo un film tratto da un romanzo che abbiamo letto siamo spesso delusi dagli attori.
MS: Lei ha uno stile peculiare e anche quando adatta romanzi di altri autori li fa suoi. Volevo chiederle del rapporto con la scrittura altrui, come nasce questa alchimia?
AD: Un critico una volta ha detto che i miei adattamenti si insinuano strisciando nell’opera altrui, come una specie di larva di ragno, per cui il materiale lo mastico e lo digerisco facendone una cosa mia. Naturalmente per il critico questa era una cosa negativa, ma io invece ne sono contento: è proprio quello che faccio!
MS Si anche perché se no si tratterebbe di letteratura illustrata. Si dice che adattare è un po’ tradire il testo d’origine, lei è d’accordo?
AD Si di solito, ma soprattutto in rapporto ai grandi classici della letteratura, la gente è impaurita e troppo umile. Questi autori del passato in fondo sono come noi, solo un po’ di più. Ma soprattutto con le opere del passato mi piace mostrare quanto siano sexy e divertenti, perché spesso questi aspetti sono sottostimati nella loro importanza. Il motore della storia è quasi sempre una questione di sesso o soldi o entrambi. Queste forze sono così potenti che fanno agire le persone in maniera divertente e quindi sono questi elementi che mi piace tirare fuori dalle storie. Io sono sempre stato abbastanza spericolato nell’adattare queste opere, non mi faccio intimorire facilmente, per adattare un grande libro bisogna essere un po’ arroganti e io lo sono.
MS: C’è qualche scrittore che le ha rimproverato di non aver capito nulla e di aver rovinato il suo lavoro?
AD: Per fortuna la maggior parte degli scrittori su cui ho lavorato sono morti… No poi quando ho adattato autori contemporanei di solito sono sempre stati contenti e comprensivi rispetto a quello che facevo. Con l’autore dei romanzi di House of Cards non eravamo d’accordo su nulla perché io ho trasformato tutto in una satira del governo conservatore e Michael Dobbs, lo scrittore, era dichiaratamente di destra, quindi non si aspettava assolutamente quello, ma a me non importava nulla.
MS: Dopo aver visto una clip dell’originale House of Cards britannico possiamo dire che tutti gli elementi fondamentali della serie c’erano già. La versione americana è proprio una copia, ma tutto è stato creato dalla mente di Andrew. E poi volevo chiedergli se si aspettava che la sua serie dopo vent’anni diventasse così importante in America e non solo, al punto di essere considerata lo specchio della politica attuale.
AD: No sono stato piacevolmente sorpreso quando ho saputo che Netflix voleva cannibalizzare la mia serie, perché mi ha fatto guadagnare un sacco di soldi. E spero che la serie duri per sempre, perché ogni volta che fanno una nuova stagione io guadagno dei soldi e non devo nemmeno fare nulla.
MS: House of Cards è la serie che più ha influenzato la politica moderna, soprattutto nello sguardo che noi abbiamo verso il cinismo e l’ipocrisia e il racconto di una scalata al potere senza freni e senza regole. Lei ha creato l’archetipo della politica moderna.
AD: Sì e per certi versi mi sento colpevole per questo. Mi piacerebbe che la politica fosse più idealista di così. Non so se lo sapete, ma in Inghilterra è stato eletto un nuovo leader del partito laburista (Jeremy Corbyn), che è un socialista alla vecchia maniera e critica aspramente il sistema attuale dove ci sono troppe divisioni e ineguaglianze, e propone di ritornare ai vecchi valori del socialismo. Molti commentatori dicono che il suo progetto fallirà, ma io invece spero che riesca e spero che la mia visione del potere in House of Cards si riveli sbagliata.
MS: Lei ha creato un personaggio che è la cattiva coscienza della politica del XXI secolo, crede che ci sia ancora spazio per singoli individui come Corbyn o Papa Francesco? C’è la possibilità che un intervento di queste personalità possa cambiare il corso degli eventi?
AD: Fino a un certo punto. Il problema è che devono riuscire a convogliare il favore della gente. Devono riuscire a convincere abbastanza persone. Sarà interessante vedere cosa riuscirà a fare Papa Francesco e anche cosa potrà fare Jeremy Corbyn in Inghilterra. Ma bisogna che la gente creda in loro.
MS: Cosa l’affascina del raccontare biografie? Cosa le piace delle persone: le loro contraddizioni, la loro debolezza? Lei spesso ha scritto dei personaggi, come Mr. Selfridge, che sono dei visionari, che hanno creato qualcosa che gli altri non vedevano.
AD: Mi hanno dovuto convincere per fare Mr. Selfridge, inizialmente pensavo parlasse solo dello shopping, che è una cosa che odio. Ma sono rimasto affascinato dal personaggio. Questa serie per me è il contraltare di Downtown Abbey, che racconta il mondo dell’aristocrazia tradizionale, sono persone privilegiate, mentre Selfridge parla di un uomo che si fa da solo, che fa qualcosa di veramente nuovo e vive il sogno americano in Inghilterra. Mi sembrava un contrasto interessante con Downtown, che è una serie che mi piace, ma penso che in Mr Selfridge ci siano dei valori più forti e più sani.
MS Vorrei chiederle come lei scrive i dialoghi. Prima di tutto le piace scrivere i dialoghi?
AD Si è una cosa che mi piace… In relazione alla scena di Mr. Selfridge che abbiamo visto (dove si mostra una donna che si spoglia dietro un paravento mentre la conversazione prosegue) mi ricordo di quando andavo al cinema da bambino e c’erano molte scene di questo tipo, con delle donne dietro il paravento e io le adoravo, era come dare una spiata di nascosto, ero solo un ragazzino. E avere una conversazione mentre si sta spiando qualcuno dietro il paravento è molto divertente ed è bello da scrivere.
MS Lei partecipa alla scelta degli attori insieme ai produttori?
AD Si adesso sono in una posizione in cui faccio anche l’executive producer e quindi partecipo ai casting, mi consultano, anche se non sempre l’ho vinta io, posso dire la mia. Anni fa ho lavorato con un produttore che mi faceva sempre partecipare ai casting, perché diceva che il cast era una cosa così importante che voleva che tutti fossero presenti, per condividere la responsabilità della scelta.
MS: Lei ha adattato anche il Dottor Zivago, di cui c’è anche un film molto importante. In questo caso quando lavora su un materiale che è già stato messo in scena, come Zivago o Guerra e Pace, tiene conto del lavoro fatto in precedenza?
AD: In effetti nel Dottor Zivago c’era un problema particolare: molti avranno visto il film, non so chi abbia letto il libro, ma leggendo il libro, dopo aver visto il film, si rimane sconvolti perché mancano tutte le grandi scene! Pasternak non le scrisse. Io certo non potevo scrivere una scena che era nel film, ma non nel libro, non potevo plagiare il film. È stato un lavoro molto difficile. Sul Dottor Zivago c’è un’altra cosa da dire: è stato un progetto nel quale il regista ha fatto la differenza. Di solito le mie sceneggiature sono a prova di regista, il regista deve fare come è scritto. In questo caso con Giacomo Campiotti non è stato così: quando fu coinvolto sul progetto era entusiasta, diceva che era da tutta la vita che sognava di fare un film da Zivago, ma sulla sceneggiatura disse che era da buttare e riscrivere da zero. Io ero sconvolto: dissi ai produttori o lui o io, non possiamo lavorare insieme. All’inizio è stato difficile, ma Giacomo aveva delle ottime idee e alla fine è stata una bella collaborazione, perché lui ha immaginato delle cose che a me non sarebbero mai venute in mente.
Giacomo Campiotti è presente in sala per salutare Davies e raccontare la sua esperienza.
GC: Andrew è stato troppo buono, non è vero quello che ha detto. Per me è stato un grande piacere mettere in scena quello che aveva scritto Andrew. Come regista era una sfida. È vero che io adoro Zivago e mi sembrava un segno del destino che mi avessero chiamato su quel progetto, poi conoscevo il lavoro di Andrew e anzi ne ero un po’ intimorito. Forse all’inizio è anche venuto un po’ fuori lo spirito passionale italiano, ma poi abbiamo lavorato molto bene insieme e io ho imparato un sacco di cose.
AD: Giacomo è una persona splendida e quindi, anche quando avevamo idee diverse, era impossibile arrabbiarsi con lui. È stata la nostra produttrice che ha fatto da mediatrice, ha spiegato il mio carattere a Giacomo e a me il suo e alla fine siamo diventati amici.
MS: Una domanda per Campiotti: tu hai lavorato con molti sceneggiatori, quali sono le peculiarità di Andrew Davies?
GC: Direi soprattutto la capacità di rendere le storie d’epoca molto contemporanee. Anche se non viene tradito lo spirito del tempo, si mantiene il fascino del costume, ma non si ha l’impressione di guardare un quadro, c’è sempre un racconto vivace e coinvolgente per lo spettatore.
MS: Mr. Davies lei è ancora quel ragazzino che inventava storie a scuola? Ha sempre quell’insolenza un po’ infantile nell’affrontare i classici della letteratura?
AD: Si credo di si. Provo un grande piacere nel prendere possesso e abitare personaggi come l’affascinante Natascia Rostov in Guerra Pace, è bellissimo essere lei per un po’.
MS Qual è un suo segreto che si sente di consigliare alle nuove generazioni di sceneggiatori?
AD: Di fidarsi di se stessi, seguire il proprio istinto, non copiare gli altri, ma scrivere quello che si pensa e che si vede.