Alaska
Guido Iuculano firma con Filippo Gravino e il regista Claudio Cupellini la sceneggiatura di Alaska. Il film è il terzo ed ultimo film italiano, in ordine cronologico, nella Selezione ufficiale della Festa del Cinema di Roma.
Ciao, Guido, qual è il pitch del vostro film?
Il pitch serve quando il film non esiste ancora e si cerca un produttore da coinvolgere. Adesso però Alaska è stato già prodotto e sarà in sala dal 5 novembre, quindi la cosa migliore che posso fare è descrivertelo così com’è, senza rivelarti nulla di troppo concreto. Diciamo allora che è una storia d’amore, di ambizione, di ascesa sociale e disperato desiderio di vivere. È una storia ampia, che dura parecchi anni e coinvolge due persone che sono lo specchio l’una dell’altra: lui vuole dimostrare quanto vale e lei pensa di non valere nulla.
Non è un caso che il titolo sia Alaska: è il nome di una discoteca di Milano, ma per me evoca l’immagine della corsa all’oro, un mondo freddo dove si lotta, si cade, ci si rialza, si fa fortuna o si muore.
Come è nato il progetto? E in che modo si è sviluppato?
Con Cupellini e Gravino ci siamo incontrati al Centro Sperimentale, e da allora sono passati più di dieci anni. Abbiamo scritto insieme Una vita tranquilla e da quel momento abbiamo stabilito che avremmo continuato a scrivere insieme il più a lungo possibile. Quando quel film è uscito in sala e ci siamo chiesti da dove volevamo ripartire per il film successivo, dunque, ci siamo accorti d’essere tutti e tre animati dal desiderio (non completamente ragionevole) di fare un passo verso una forma più ampia, non facile da gestire ma capace di contenere le vette e gli abissi dell’esistenza. Volevamo un film eccessivo, epico: non un frammento, ma un’immagine grandiosa della vita intera e delle possibilità che contiene. Doveva essere un film-romanzo e non un film-racconto, un poema vasto e pieno di contraddizioni, non un epigramma dalla forma cristallina. Per questo abbiamo deciso di rinunciare all’unità di tempo, di spazio e di azione su cui avevamo costruito Una vita tranquilla. Non so quanto ne eravamo consapevoli, ma è certo che stavamo cercando di prendere una strada nuova e di pensare un tipo di film che non è frequente nella cinematografia nazionale.
Abbiamo provato diverse vie. Guardavamo There will be blood e La moglie del Soldato, leggevamo Una famiglia americana di Joyce Carol Oates e Libertà di Franzen. Alla fine Cupellini stabilì di puntare in una direzione precisa: facciamo una cosa come Il Grande Gatsby (era l’inizio del 2011, il film di Luhrman non esisteva ancora).
Adesso non potrei giurarci, perché sono passati cinque anni, ma da quel momento credo che il tema sia rimasto sempre fisso davanti ai nostri occhi: volevamo parlare di amore, denaro e desiderio. E dev’essere così che ci è venuta in mente l’immagine di un cameriere del Ritz. Un ragazzo di venticinque anni che assiste ogni giorno allo spettacolo d’una ricchezza insensata, un lusso che non serve a nulla ma dà alla testa, perché ti dice: se non hai queste cose non vali niente, sei zero. Abbiamo preso questo cameriere, quindi, e l’abbiamo chiamato Fausto pensando al Faust di Goethe: “A te ti basta la vita che facciamo?” dice a un certo punto del film, “a me non mi basta”.
Di chi doveva innamorarsi un uomo fatto in questo modo? Abbastanza presto abbiamo pensato a una ragazza che per caso, senza saper fare nulla e senza aver coltivato nessuna ambizione, viene proiettata esattamente dove Fausto vorrebbe arrivare. Una che alla domanda “Perché vuoi fare la modella?” risponde: “Non lo so, sei tu che dici che posso farlo”. Da queste due frasi (e la seconda, devo dirlo, la dobbiamo all’amico e montatore Giuseppe Trepiccione) è venuto poi tutto il resto. Dalla prima idea all’ultima stesura ci sono voluti quattro anni e almeno tre riscritture complete (nella prima, per darti un’idea, Nadine si chiamava Marja Christova, veniva da Mosca e aveva sedici anni).
Come ti sei trovato a lavorare con il regista?
Cupellini è un amico. Condividiamo letture, gusti e visione del mondo, e direi che questo è il punto di partenza ideale per scrivere insieme un film. Ma nel caso specifico c’è un altro vantaggio: non so quanto possa fargli piacere leggerlo, ma Cupellini ha la mentalità di uno sceneggiatore, si interessa alla storia più che alla metafora, cerca il racconto prima del simbolo. E questo è esattamente quello che distingue i grandi registi che amo dai grandi registi che non amo, Truffaut da Godard, Scorsese da De Palma, e qui mi fermo per non rivelare in due parole tutta la mia ignoranza in fatto di critica cinematografica.
Cosa pensi che un regista dovrebbe imparare da uno sceneggiatore e cosa uno sceneggiatore dal regista?
Non credo che ci siano cose che gli sceneggiatori in generale sanno e i registi in generale non sanno. Posso dirti che in concreto ho imparato da Cupellini a buttar via un sacco di scene apparentemente ben fatte, sensate, logiche e necessarie dal punto di vista della correttezza, ma inadeguate dal punto di vista della narrazione: messe lì solo perché in teoria ci dovevano essere. Il fatto curioso è che forse Cupellini da me ha imparato esattamente la stessa cosa. E allora, probabilmente, non è giusto dire che s’impara l’uno dall’altro. Probabilmente si impara insieme, facendo un film, che non tutto quel che c’è da dire dev’essere detto, e che una storia è fatta soprattutto di salti e di ellissi e di strappi in avanti. Perché la logica e la gradualità uccidono il fascino principale di ogni racconto cinematografico, così come d’ogni esperienza. Un fascino che non sta nella chiarezza e nella comprensibilità, ma nell’imprevedibile necessarietà di quel che succede sullo schermo.
Quanti cambiamenti, se ce ne sono stati, avete apportato durante le riprese rispetto all’ultima stesura della sceneggiatura? Ce ne parli?
Abbiamo continuato a scrivere quasi fino all’inizio delle riprese, e così sul set non ci sono state modifiche rilevanti. Naturalmente questo non significa che le parole scritte nella sceneggiatura siano state recitate tutte, una per una, così com’erano: né io, né Gravino pensiamo mai ai dialoghi come a una parola poetica incisa nel marmo, ma sempre come a una traccia a partire dalla quale gli attori e il regista, durante le prove e le riprese, trovano una verità più alta. A volte basta recitare le battute come sono scritte, a volte bisogna dire di più, e molto spesso di meno.
Sei stato presente sul set? Pensi che lo sceneggiatore dovrebbe sempre esserci durante le riprese?
Personalmente non vado volentieri sui set, ho avuto una faticosa esperienza da assistente alla regia e da allora ho deciso di evitare tutto quello che ha a che vedere con sveglie antelucane, cestini, cavi, pioggia, freddo, attesa e scene da portare a casa. Mi sento inutile e di impaccio, un ospite con cui tutti devono essere gentili ma che in realtà non serve a niente e porta solo fastidio. Inoltre invidio tantissimo il senso di comunità che nasce tra i membri di una troupe, quella specie di cameratismo da band of brothers di cui mi sono però sempre sentito incapace.
Ci regali la tua scena preferita di Alaska? Ce la commenti?
Non ti regalo la mia preferita, perché vorrei che quella gli spettatori la vedessero al cinema senza averla letta. Te ne regalo, invece, una che è stata girata ma non inserita nel montaggio finale. Lo faccio per dimostrare quello che dicevo prima, quando mi hai chiesto cosa si impara da un regista: rinunciare alle scene semplicemente corrette. La scena era la quarta o forse la quinta del film: la cosiddetta presentazione del personaggio.
Qui Fausto pronuncia le sue prime battute, e capiamo subito che è una perfetta faccia da schiaffi: determinato, sfrontato, capace di incassare e sorridere, ma non di abbassare lo sguardo.(per leggere la scena, scarica il pdf: Scena Alaska)
Eravamo soddisfatti di questa scena, ci piaceva. Eppure, alla prima visione, è stato chiaro che la sua presenza intralciava la fluidità imprevedibile del racconto e rendeva molto meno interessante tutta la sequenza successiva (l’incontro tra Fausto e Nadine, sulla terrazza dell’albergo e poi nella suite). E questo mi fa venire in mente quella regola che Hemingway chiamava il principio dell’iceberg: di tutto quel che si conosce e che si potrebbe dire, bisogna mostrare solo una piccola percentuale.
Una domanda che purtroppo non è più così scontata come sembra: quanto tempo dedichi alla scrittura di idee originali fuori commissione? Ci racconti le tue esperienze?
Non scrivo mai un film, né un soggetto di serie, se non ho la certezza che interessi a qualcuno. In genere, quindi, mi limito a ragionare su un’idea, e quando credo che sia diventata abbastanza precisa la racconto alle poche persone di cui mi fido e al mio agente. Poi, se è un film, ne parlo con il regista con cui vorrei lavorare. Se è una serie, direttamente con un produttore. Ma inizio a scrivere solo se ho un incarico, o almeno la ragionevole certezza che qualcuno alla fine sia disposto a comprare quello che ho scritto. Sarebbe divertente, per una volta, scrivere un copione senza incarico, ma purtroppo ho sempre bisogno di scadenze, di telefonate e di persone che aspettano con ansia di leggere. Se non fossi fatto così male, proverei volentieri a scrivere romanzi.
Come funzioni? Quali sono le tue abitudini quando scrivi?
Appunto, come ti dicevo, funziono malissimo. Ho bisogno di scadenze, di anticipi, gente che mi controlla, cose prosaiche di cui non parlo volentieri. Mi piacerebbe moltissimo avere una routine e delle abitudini mie: sveglia alle otto, lettura dei giornali, tre ore di lavoro dalle dieci alle tredici e così via, come fosse una giornata di Thomas Mann, ma invece mi regolo solo in base all’urgenza di quel che c’è da fare. Per questo, alla fine, non riesco a scrivere senza un incarico.
Il guaio è che anche quando c’è l’incarico e ho due mesi di tempo, per fare un esempio, i primi quarantacinque giorni li passo senza scrivere una sola parola. Leggo, parlo moltissimo, ascolto musica, vado al cinema, immagino dialoghi a vuoto che poi dimentico, perché sono disordinato e non prendo nota quasi di nulla. Poi, quando vedo che inizia a essere un po’ tardi, saluto con gioia l’arrivo dell’ansia. Perché senza ansia non riesco a sedermi alla scrivania. Anche a quel punto, però, non inizio a scrivere. Passo altri due o tre giorni dicendomi che questa volta davvero è tutto sbagliato, che parto, vado a Tahiti, chiedo scusa e restituisco l’anticipo.
Solo alla fine, quando sono fuori tempo massimo e so per certo che se non inizio davvero devo cambiare mestiere, mi rassegno all’idea di dover scrivere. E così inizio (controvoglia) e senza sapere come vado avanti per cinque, sei o sette giorni senza fare quasi nient’altro (il record è ventotto ore consecutive, dalle otto del mattino alle dodici del giorno dopo). Dopo le prime quattro ore non sento più la stanchezza, le idee nascono le une dalle altre, ricordo tutto quello che ho pensato nei due mesi precedenti anche se non ne ho preso nota, e ho la sensazione, sicuramente illusoria peraltro, di essere nato per fare questo lavoro.
A quel punto mi fermo. Dormo. Rileggo. Taglio tutto quello che è di troppo. Riscrivo, ma senza più ansia e quasi con divertimento. Infine, quando consegno nel giorno prestabilito, mi sento perfettamente in pace col mondo. Questa sensazione, che certamente conosci ed è l’unico momento davvero piacevole del nostro lavoro, può durare nei casi fortunati anche un paio di giorni. Poi si ricomincia.
Oltre a scrivere per il cinema, so che stai lavorando anche per la televisione nell’adattamento di Parenthood. Quali sono le differenze?
Ci sono differenze dovute alla forma: due ore di racconto per un film, e ventisei per una stagione televisiva. Differenze dovute al tempo: quattro anni per un copione cinematografico, un anno per ventisei puntate di tv. E ci sono anche differenze dovute al rapporto con il regista (che nel caso di una serie tv non ha la possibilità di intervenire costantemente sulla scrittura). Inoltre, quando si scrive una serie generalista destinata a un pubblico molto vasto, bisogna naturalmente tener conto delle esigenze dell’emittente, della sensibilità dei capi-progetto, dei suggerimenti degli editor e di molte altre voci di cui non esiste l’analogo in campo strettamente cinematografico. Si ha, per così dire, una responsabilità maggiore, e quindi anche meno libertà di rischiare.
Nonostante tutto questo, però, dal mio punto di vista il lavoro è esattamente lo stesso: cercare nell’invenzione di vite immaginarie e di persone che non esistono qualcosa che risuoni con la mia vita, e risuonando la illumini, e illuminandola la renda significativa per gli altri e più sopportabile per me stesso. Mi rendo conto che è una lunga frase impegnativa, questa, e può sembrare insincera. “Una spacconata” penserei, se la leggessi e se a pensarla fosse stato un altro. Ma al momento, davvero, è la migliore descrizione di cui sono capace. È la descrizione che corrisponde meglio, voglio dire, a quello che cerco di fare quando scrivo un film o una serie.
Anche nella scrittura dei film hai sempre lavorato in coppia con Filippo Gravino. Ma in TV spesso si lavora in gruppi di scrittura più ampi. Cosa ti piace di più dello scrivere con altri? Quali sono i pro e i contro?
In realtà sto scrivendo anche questo adattamento televisivo con Filippo Gravino, e oltre a lui con Michele Pellegrini. Siamo in tre, come quando scriviamo un film, e mi sembra il numero ideale. Non vedo svantaggi (come non ci sono svantaggi a fare un castello di sabbia in tre, e certamente è molto più divertente che farlo da soli).
Per quanto riguarda i gruppi di scrittura più ampi, non saprei dirti bene perché non mi è mai capitato. Immagino però che se scrivessi una serie con altre dieci persone sentirei un distacco eccessivo dalla totalità del prodotto finito. Questo potrebbe farmi sentire in qualche modo deresponsabilizzato, e forse rischierei di limitarmi a fare un lavoro corretto, risparmiandomi tutta quell’operazione complicata che ho cercato di descrivere prima.
Da un punto di vista globale e nazionale, cosa pensi cambierà nel panorama televisivo con l’imminente arrivo nel settore produttivo di nuovi broadcaster come Amazon e Netflix?
Perdonami, ma davvero non ho le competenze per rispondere a questa domanda.
Non sei un iscritto alla WGI. Cosa ne pensi? E cosa pensi della divisione tutta italiana tra WGI e 100 Autori?
Sono socio dei 100 Autori ma non ho idea del motivo per cui esistono due sigle diverse. Non credo di poter dire nulla di intelligente a proposito.
In Italia la categoria degli sceneggiatori non è molto protetta e riconosciuta, siamo molto indietro rispetto agli altri Paesi Occidentali. Quali pensi siano le battaglie più urgenti su cui concentrarsi per la tutela dei diritti degli scrittori in Italia?
Anche qui, devi scusarmi. Non conosco le leggi degli altri paesi occidentali, direi solo sciocchezze.