Dobbiamo parlare
Lo scrittore salernitano Diego De Silva firma con Carla Cavalluzzi e il regista Sergio Rubini la sceneggiatura di Dobbiamo parlare.
La pellicola, che sarà nelle sale il 5 novembre, viene presentata oggi 21 ottobre, per la selezione ufficiale, con doppia proiezione alle 19.30 e alle 20, alla Festa del cinema di Roma.
Caro Diego, ti lanciamo la sfida che affrontano tutti gli sceneggiatori quando devono vendere un progetto, il pitch, cioè raccontare la storia di Dobbiamo Parlare in quattro righe.
Una lunga polemica incrociata fra due coppie di diversa estrazione sociale (ma soprattutto intellettuale) che in un interno romano borghese si trovano per incidente a fare i conti con le contraddizioni e le insoddisfazioni delle loro vite sentimentali.
Considerato che mi avevi dato quattro righe, e ne ho usate poco più della metà, quasi quasi mi faccio l’applauso.
Da chi è nata l’idea del film? Dal regista Sergio Rubini, da te, o dai tre autori della sceneggiatura insieme? con voi firma infatti anche Carla Cavalluzzi.
L’idea di partenza – l’estenuante discussione sentimentale a quattro che nell’arco di una notte trasforma un attico in un campo di battaglia – è di Sergio, ma il lavoro è stato eseguito interamente in diretta, scena per scena, giorno per giorno, parola per parola, da noi tre insieme; senza scaletta, senza ripartizione del lavoro, in piena e totale collaborazione.
Del resto, quando hai un attore del livello di Sergio Rubini che si alza in piedi e ti recita in tempo reale una scena che hai appena scritto, non solo ti esalti, ma ti diverti da morire. Infatti abbiamo riso tantissimo, scrivendo questo film.
Oltre ad essere uno scrittore di grande successo, tradotto in moltissimi paesi, fai lo sceneggiatore, e nel caso di Dobbiamo Parlare sei autore anche della omonima drammaturgia teatrale. Puoi raccontarci la differenza che esiste tra scrivere romanzi, sceneggiature e copioni per il teatro? Cosa cambia, e come cambi tu, nell’affrontare i tre diversi linguaggi?
Sostanzialmente il fatto che il lavoro di sceneggiatura si svolge quasi sempre in gruppo. Devi quindi tenere costantemente in conto il punto di vista degli altri, incrociarlo col tuo, trovare delle strade comuni che portino a un risultato che alla fine ti sembri addirittura preferibile a quello che avresti raggiunto scrivendo in solitudine.
L’altro elemento è la minor quantità di problemi retorici che la scrittura per immagini e per scene pone rispetto a quella letteraria: in un romanzo, la parola è protagonista; in un film (se funziona), la parola sparisce nella voce e nel corpo dell’attore che la pronuncia.
Qual è il tema di Dobbiamo Parlare? Sembrerebbe trattarsi d’amore, ma il discorso pare vada molto più a fondo. Fino a toccare l’umano, il sociale, il politico?
Il tema è quello del rapporto di coppia, che personalmente considero un argomento molto più spinoso e vasto dell’amore in sé. Interrogarsi sull’amore che provi per qualcuno è un esercizio tutto sommato semplice. Molto più complicato – e rischioso – è domandarti quanto sei felice con la persona con cui hai scelto di dividere la tua vita. Di questo, soprattutto, parla il film.
Insieme agli altri due autori avete scelto un genere, o la classificazione in un genere vi sta stretta? Potremmo definire il film una Black Comedy, o il nero, secondo te che col noir hai cominciato, in questo caso è una tinta troppo forte?
A me piace pensare a Dobbiamo parlare come a una commedia d’autore. Un film in cui si ride spesso e di gusto, ma nella consapevolezza costante che il tema di cui tratta è serissimo, e per nulla leggero. Mi piacerebbe (sogno) che chi esce dal cinema lo consigli agli amici dicendo: “Vai a vederlo, parla di noi”.
Nell’esito finale del duello tra le coppie, sembra avere la peggio quella degli artisti “disinteressati” al profitto e al “vile metallo”, mentre la coppia/azienda regge le tempeste emotive e non si spezza. Cos’è? Definitivo pessimismo sull’amore? O solo su i due specifici personaggi che evidentemente s’ingannavano sui loro sentimenti e ancor più su se stessi?
Sinceramente non vedo alcun pessimismo nella conclusione del film; anzi, penso si possa cogliere della speranza nell’idea di una separazione che proietta il futuro in una cornice più autentica. Una luce fredda, semmai, è lanciata sull’efficacia del denaro come strumento di superamento delle contraddizioni, capace di anestetizzare il dolore e l’umiliazione più profonda con una potenza mortificante.
Nulla come i soldi genera la pace infelice, una condizione in cui vivono e muoiono in tanti e a cui tanti (questo è il vero dramma) addirittura aspirano.
Ce l’avete con gli artisti o solo con un certo tipo di artisti?
Figurati se ce l’abbiamo con gli artisti. Un tema inesauribile da trattare, soprattutto con il senso del ridicolo, però, è la frustrazione dell’artista. Lì, finisci per diventare cinico anche se non avevi intenzione di esserlo. Diventi colpevole di cinismo preterintenzionale, ecco.
La tua è una scrittura brillantissima, profonda e comica, nel senso più alto del termine, ovvero che affonda nel tragico e nel dolore, condividi? Quanto sono importanti per te le parole? Come le scegli? Quanto contano nei rapporti umani e quanto in una sceneggiatura per il cinema?
Ti ringrazio di questa osservazione perché mi pare che negli anni la mia scrittura sia diventata proprio così come l’hai definita, tragicomica. Oggi, non concepisco una pagina che non sia attraversata da un po’ di senso dell’umorismo, che offra l’occasione di cogliere del ridicolo anche nelle circostanze peggiori. Ovviamente, la scelta delle parole è fondamentale. Detesto la letteratura sciatta, l’imprecisione colposa (non studiata), l’approssimazione. Uno scrittore scava nella contraddizione, ed è lì che deve dare il meglio. Questo vale anche per il cinema. Molti non si rendono conto quanto una battuta raffazzonata, o semplicemente stupida, possa danneggiare un film e minare l’umore e le aspettative di chi lo guarda. Nei rapporti umani, se ci pensi, è la stessa cosa: una parola sciatta, una frase incurante dei suoi effetti, può iniettarti un veleno che resta; allo stesso modo in cui la parola che ti rende felice – magari soltanto perché ti è arrivata nel momento giusto – diventa il conto in banca del tuo amore.
Pensi che davvero sia possibile e giusto dire tutto? Non solo come uomo ma soprattutto come scrittore, e in questo caso scrittore di cinema. Quanto conta per te il sottotesto e come ci lavori? Dopotutto nel cinema è possibile utilizzare la fisicità degli attori, la loro capacità di dar corpo alle parole dette e a quelle non dette.
Nemmeno per sogno. Un romanzo, come un film, è pieno di omissioni. La reticenza, per me, è un elemento essenziale della narrazione. Un buon libro, un buon film, un buon testo teatrale non dice: allude.
Chi ti segue come romanziere resterà sorpreso da Dobbiamo Parlare o ritroverà in pieno il tuo mondo? Quanta empatia hai con questi personaggi? In che cosa ti senti come loro e in cosa, al contrario, sei profondamente diverso?
No, credo che troverà esattamente l’autore che ha conosciuto negli anni, soprattutto da Malinconico (il personaggio dei miei ultimi libri) in poi. L’uscita di Dobbiamo parlare, tra l’altro, coincide con la pubblicazione del mio nuovo romanzo, Terapia di coppia per amanti, che tocca lo stesso argomento.
Il discorso dell’empatia, poi, è abbastanza pericoloso: secondo me bisogna non eccedere nella confidenza che si dà ai personaggi, o si finisce per proteggerli, d’impedir loro di esprimersi per eccesso di cura. Se ci pensi bene, gli scrittori più forti sono quelli che non hanno paura di uccidere l’eroe nel pieno della storia. Io non ne sono mai stato capace, ma confesso la mia ammirazione per quelli che ci riescono.
Come è andato il rapporto con Sergio Rubini? Era il più autorevole tra voi, in quanto regista, o nello scrivere ne ha smesso i panni per calarsi in quelli dello sceneggiatore? Vi siete più divertiti o avete più sofferto nel lavorare insieme?
E’ stato, è, un rapporto bellissimo. Soprattutto, siamo diventati amici: credo che questo dica tutto.
Il pubblico è il motore del cinema, che non può sopravvivere con numeri piccoli. E’ un problema che ti poni quello di produrre incasso al botteghino? O pensi il contrario, che hai già un pubblico forte come scrittore ed è lo stesso che ti cercherà e certamente ti troverà in una sala cinematografica?
Per me, il riscontro di pubblico è sempre sorprendente. Non riesco, e non credo riuscirò mai, a darlo per scontato. Del resto (grazie al cielo) nessuno sa davvero cosa decreta un successo. Tutto quello che possiamo fare, alla fine, è lavorare bene, senza risparmio, senza approssimazione, appassionandoci e giocando.
Per quanto riguarda il mercato secondo te l’Italia deve continuare a fare come fa o deve sforzarsi di entrare di più nel confronto internazionale?
Io personalmente non saprei come entrare nel confronto internazionale. Da autore, racconto le cose che conosco, che so o almeno credo di sapere: anzi, scrivo per capire cos’è che so. Se poi quel che scrivo raggiunge l’attenzione di chi vive lontano da dove abito, ci saranno delle ragioni. Devo dire che mi piacerebbe molto pormi questo problema, se il film ottenesse un successo internazionale e facesse strappare più biglietti degli Avengers.
Il ministro Franceschini ha promesso di varare una nuova legge sul cinema entro l’anno e di chiamare a consultazione le categorie per sentire il loro parere. Ne sei al corrente? Cosa andrai a dirgli o cosa vorresti che la WGI gli riferisse?
No, non ne ero al corrente. Quando conoscerò gli ambiti esatti dell’incontro, ci farò un pensiero.
Noi della WGI pensiamo che di solito si dia poca importanza alla scrittura, e con le nostre interviste cerchiamo di colmare questo vuoto. Tu cosa ne pensi? Si soffre di più come sceneggiatori che come scrittori?
Quali pensi siano i problemi degli sceneggiatori che ancora non si stanno affrontando?
Chiunque sottoconsideri la scrittura non ha capito cosa tiene insieme un film, cosa lo fa muovere, crescere e diventare.
Quanto alla seconda domanda, non saprei risponderti. Io faccio lo scrittore, e di tanto in tanto scrivo anche delle sceneggiature. Uno sceneggiatore che non faccia altro, ha problemi specifici un po’ diversi dai miei, che dunque posso condividere solo parzialmente. Quello che mi pare di capire è che lo sceneggiatore-e-basta fatica ad essere riconosciuto come autore; quasi che la sua attività si limitasse a un servizio artigianale che deve ottenere l’Oscar (o giù di lì) per essere equiparato a quella di uno scrittore letterario. Il che, ovviamente, è una bestialità. Un pregiudizio che si supera scrivendo sceneggiature di alto livello.
Grazie di cuore Diego. E infiniti auguri per il film.
Di niente. Abbracci.