A pein j’ouvre les yeux
Ciao, Leyla, ci puoi fare un breve pitch del film?
Il film è la storia di Farah, che ha 18 anni e ha appena fatto la maturità. Si svolge nell’estate del 2010, l’estate prima della rivoluzione tunisina. In quel periodo in Tunisia c’era un’atmosfera molto soffocante, con un senso di paranoia diffuso, la gente era molto sorvegliata. Farah è una giovane cantante di un gruppo di rock alternativo, che come tante ragazze della sua età, scopre la vita e l’amore e vuole vivere la sua vita. E’ un percorso iniziatico, che racconta come Farah si oppone alla sua famiglia, soprattutto a sua madre, per poter cantare e poi si trova di fronte ad altre opposizioni nella società e nel suo paese.
E’ dunque una storia di iniziazione al femminile, che si concentra molto sul rapporto tra madre e figlia. Non ne vediamo molte di queste storie al femminile, soprattutto in un paese come la Tunisia. Da dove ti è venuta l’ispirazione?
L’idea viene da due cose. In rapporto al momento storico quando c’è stata la rivoluzione mi sono detta che era necessario parlare delllo stato di polizia di Ben Ali, che è stato molto duro per i giovani tunisini. Questo per quel che riguarda il contesto del film. Poi volevo raccontare il rapporto tra madre e figlia, avevo già fatto un cortometraggio su questo tema e volevo continuare a esplorarlo con il personaggio di una ragazza molto libera e impulsiva, senza limiti, e una madre che si oppone alla libertà della figlia, ma che alla fine evolve e impara da sua figlia. La colonna vertebrale è davvero il rapporto tra la madre e la figlia, insieme al tema della libertà e dell’opposizione alle convenzioni e ai limiti della società.
Hai preso ispirazione anche dalla tua esperienza personale o da persone che conosci?
Sì, ci sono molte storie reali che hanno nutrito il film, alcune esperienze mie personali, ma anche quelle di un’amica molto libera che ha vissuto molte resistenze nella società tunisina. Ci sono cose differenti che hanno ispirato la storia.
La sceneggiatura è scritta insieme a Marie-Sophie Chambon, come avete lavorato insieme?
Ho iniziato a scrivere da sola per tirare fuori le prime idee, ma non troppo. Marie-Sophie è un’amica e avevamo già lavorato insieme e le facevo leggere tutto quello che scrivevo, confrontandomi sui problemi, su degli elementi che non funzionavano, abbiamo discusso molto. E lei mi ha aiutato moltissimo a sbloccare delle questioni, proponendomi soluzioni e dopo queste discussioni io riscrivevo e poi ci vedevamo di nuovo per discutere tutte le settimane. Questa è stata la prima fase del lavoro. Dopo queste discussioni abbiamo costruito la struttura del film e poi io ho scritto una prima stesura sulla quale poi abbiamo lavorato reciprocamente: ognuna scriveva e ci rimbalzavamo i materiali. Ci siamo confrontate molto sui personaggi e la struttura del film, prima di procedere con la scrittura, per diversi mesi. Tutto questo processo alla fine è stato abbastanza rapido, la fase di discussione è durata circa tre mesi e in totale la scrittura è durata un anno. Poi io ho continuato a riscrivere preparando il film, facendo i casting e i sopralluoghi per le location, riscrivevo i dettagli delle scene. Ma la struttura di fondo del film, una volta che l’abbiamo definita, non è mai cambiata. Il film è strutturato classicamente in tre atti, con un cambiamento di punto di vista dalla figlia alla madre all’inizio del terzo atto.
Si sente che il film è molto strutturato e anche a livello visivo di messa in scena si sente la ripartizione.
Sì, il film parte in maniera più vivace, con molti colori e movimenti di macchina e andando verso il finale diventa più cupo e anche più essenziale, con un’atmosfera più grigia e un uso maggiore della camera fissa. E questo movimento, questa struttura era già definita nella sceneggiatura.
E durante le riprese hai fatto dei cambiamenti alla sceneggiatura, c’è stato spazio per improvvisazioni?
Non ci sono stati cambiamenti strutturali. Tranne il finale, l’ultima scena non era nella sceneggiatura, l’ho trovata solo alla fine e non l’ho mai veramente scritta in dettaglio. Ma all’interno delle scene ci sono stati dei piccoli cambiamenti, delle precisazioni direi. Ho fatto molte prove, soprattutto per le scene con la band e abbiamo trovato alcune cose anche con il contributo degli attori.
Questa struttura molto forte è qualcosa a cui sei arrivata o si è definita dall’inizio?
I tre atti li ho sentiti fin da subito. Il film parte molto di slancio, all’inizio c’è una grande energia, poi il secondo atto è ambientato durante il ramadam, dunque prende un ritmo diverso e poi nel finale c’è l’emersione del personaggio della madre, quando Farah è imprigionata.
Questa tripartizione si avverte molto anche a livello estetico.
Sì, ho lavorato molto con il direttore della fotografia su questo, sui colori del film. Queste diverse atmosfere si avvertivano già nella scrittura e abbiamo lavorato per riprodurle al meglio a livello visivo.
Nel film la musica è fondamentale, attraverso i testi delle canzoni di Farah passa il suo messaggio di contestazione, ma anche i suoi sentimenti e le sue emozioni rispetto alla storia d’amore. Hai scritto tu i testi?
Nella sceneggiatura c’erano dei testi indicativi, perché le canzoni avevano per me una funzione drammaturgica e dei colori espressivi differenti: c’è la canzone più cool, quella più militante e quella più melanconica. Ma siccome io non mi sentivo abbastanza capace in poesia in arabo per poterli scrivere da sola, i testi erano indicativi, poi sono stati adattati da un amico che scrive musica e ha scritto le canzoni per il film, sulla base della sceneggiatura. Abbiamo parlato di ogni canzone, su quello che doveva dire ed esprimere.
Hai pensato a un pubblico di riferimento per il film mentre scrivevi?
No, l’unica cosa che pensavo è che volevo essere rispettosa del momento storico. Dopo la rivoluzione in Tunisia sono successe molte cose, ci sono stati momenti di violenza e momenti di entusiasmo, momenti in cui la rivoluzione ci sembrava giusta e altri meno. Quindi sono stata molto attenta a essere giusta rispetto ai fatti che erano accaduti.
Rispetto a questo scenario politico complicato hai avuto difficoltà nel produrre il film?
No, dal momento in cui ho iniziato a lavorare con la produttrice ci tenevo ad essere abbastanza veloce nel processo di realizzazione. Poi abbiamo avuto il sostegno del ministero della cultura tunisino e il fatto che fosse ambientato nel passato ha permesso di non avere troppe preoccupazioni. Poi in Francia abbiamo avuto il sostegno di Cinema du monde e c’è stato anche un finanziamento svizzero e uno belga e uno di Abu Dabi. Non è facile finanziare un’opera prima in tunisino, con attori non professionisti, ma mi pare che sia andato tutto bene. Abbiamo avuto tutto grazie alla sceneggiatura.
Il linguaggio del film è misto, c’è molta ironia e la prima parte sembra una commedia giovanilista, poi il film diventa più cupo. Questo corrisponde al percorso della protagonista che è una ragazza un po’ ingenua all’inizio.
Si è un percorso di presa di coscienza. Inizialmente è un film intimista, una sorta di favola familiare. Poi poco a poco si passa a un discorso più sociale e politico, anche più duro.
Il personaggio della madre è molto interessante, anche perché, come la figlia, ha una sua crescita.
Sì. la madre ha paura per la figlia, non è contraria a livello ideologico, ma la vuole proteggere dai pericoli. Si capisce che anche lei è una donna forte, che ha avuto una vita difficile, dove ha sofferto e ha dovuto lei stessa abbandonare i suoi sogni e le sue passioni. All’inizio appare una donna dura, ma nel corso del film lei stessa comprende che non serve a nulla mettere dei limiti alla figlia e alla fine è proprio la madre che chiede a Farah di continuare a cantare.
E com’è la situazione delle donne in Tunisia, in rapporto alla libertà di scelta?
La donna in Tunisia ha uno statuto che è abbastanza moderno rispetto ad altri paesi arabi. Ci sono molte donne forti, le tunisine sono donne forti. La situazione difficile riguarda soprattutto la politica, bisogna sempre battersi, bisogna sempre spingere i limiti e fare rivendicazioni. Nulla è acquisito, è un braccio di ferro quotidiano per i diritti delle donne, per la libertà, c’è sempre una minaccia su queste cose.
Quali sono i tuoi riferimenti cinematografici?
Per la scrittura non tanto, ma per le immagini molte foto. Poi si alcuni registi come Fatih Akin, il regista turco, il suo film La sposa turca, dove ci sono due parti, una più energica e una seconda parte più melancolica, è un film che amo molto. Poi i film di Asghar Farhadi, il regista iraniano di Una separazione e About Elly, sono delle favole sociali che hanno qualche cosa di intimo e allo stesso tempo anche un discorso socio-politico.
Dall’Italia vediamo la Francia come un paese generoso con il cinema, che riesce a produrre molti film. Come hai vissuto da tunisina che ha studiato in Francia la tua esperienza di giovane regista? Concordi con la dichiarazione del presidente della mostra Barbera che ci sono troppi film low budget e che questo porta a una scarsa qualità?
E’ vero che in Francia in rapporto al cinema c’è una situazione molto fortunata, c’è una politica molto buona, c’è un sistema complesso che aiuta il cinema. Io ho avuto la fortuna di frequentare una scuola molto buona, la Femis, anche il sistema di finanziamento del cinema in Francia funziona bene, si producono molti film. Ma allo stesso tempo è vero che il cinema è soggetto a un processo di impoverimento, i film sono sempre più poveri e questo non va bene. Si può fare un primo film a basso budget, ma non tutti i film. Quindi sono d’accordo che fare solo film a basso costo è un problema. Ma il sistema di finanziamento del cinema francese è abbastanza protetto e questa è una fortuna.
In Francia poi i film circolano nelle sale, mentre in Italia spesso abbiamo delle difficoltà, soprattutto per i piccoli film, nella fase di distribuzione.
Sì. in una città come Parigi ci sono moltissimi film che si possono vedere, anche in lingua originale, è davvero la città dove si possono vedere tutti i film che ognuno desidera.
Come vedi il futuro del cinema, soprattutto in rapporto alla fruizione in sala, in un momento in cui il web ha un ruolo sempre più importante nel diffondere contenuti audiovisivi?
Io sono patita della sala cinematografica. Penso sia un’esperienza unica poter vedere un film in una sala, al buio, sul grande schermo, con altre persone, che condividono le stesse emozioni. Vivere questa proiezione consente un’identificazione che è unica ed è qualcosa che va difesa a tutti i costi, ci sono film che non possono essere visti che al cinema. Quando vediamo un film su un piccolo schermo a casa non c’è la stessa emozione, specialmente in film di paesaggio, più contemplativi, anche la durata del film non viene percepita nella stessa maniera, perchè siamo in uno spazio altro, non siamo distratti dalle cose di casa, non si può mettere pausa per controllare il telefono o altro. Mi piace anche il rapporto intimo che si può avere vedendo un film sul computer, ma in un secondo tempo. Non c’è la stessa emozione della visione su grande schermo, al buio che può portare anche a uno shock. Penso sarebbe una perdita e credo che davvero bisogna difendere la sala cinematografica.
Di solito chiedo agli sceneggiatori come si sentono considerati. Spesso sono un po’ negletti, quando invece la sceneggiatura è la fase in cui nasce veramente il film e sulla carta ancora ci possiamo permettere di sognare e cercare di esprimere quello che vogliamo. Come è la situazione della professione in Francia?
Anche in Francia è dura per gli sceneggiatori, io lavoro anche come sceneggiatrice per altri registi, perché mi piace molto scrivere e adesso sto collaborando alla scrittura di un film che è in corso di finanziamento e dovrebbe essere girato l’anno prossimo. E’ un mestiere molto difficile, è vero che non è molto considerato, anche se poi i film sono finanziati sulla base della sceneggiatura, quindi bisognerebbe prendersi cura degli sceneggiatori, mentre spesso si ha l’impressione che non siano persone che lavorano davvero, spesso non si capisce cosa fanno. Anche in rapporto alla produzione è difficile perchè spesso la sceneggiatura è scritta ancora prima che arrivi una produzione, quindi le persone non vengono pagate o vengono pagate poco. Quindi è molto dura, si dice che si fanno dei film d’autore, quando invece lo sceneggiatore è mal considerato.
E come sceneggiatrice come lavori con altri registi? Come funziona la collaborazione?
In questo caso è un regista con cui ho già lavorato a dei cortometraggi. Sento molto meno la pressione e l’ansia di quando lavoro ai miei progetti. Come sceneggiatrice cerco di essere al servizio della visione del regista, senza chiudermi nel mio universo, è anche molto riposante immergersi nell’universo di qualcun’altro e proporre soluzioni che permettano al suo cinema di esprimersi. Lo trovo un processo interessante, che mi appassiona molto.
Quindi per te la sceneggiatura è un lavoro collaborativo?
Sì, è un lavoro che si arricchisce dei contributi di diverse persone, le discussioni fanno davvero avanzare il lavoro. E’ possibile certo scrivere da soli, ma credo che sia molto difficile, dipende dal tipo di film. Io finora ho lavorato sempre con collaboratori, ma dipende dai progetti. Nel caso di questo film io penso sia stato necessario essere in due: l’altra sceneggiatrice è francese, non conosce la Tunisia, non c’è mai stata, e per me era interessante vedere quello che lei capiva e quello che non capiva della situazione del paese. Ero attenta al fatto che il film potesse essere capito anche da chi non conosce la Tunisia.
Grazie, spero che ci sarà l’occasione di vedere il tuo film in sala in Italia.
Sì, lo spero anch’io, anche perché questa esperienza veneziana è stata molto emozionante. Grazie a voi!