Mia madre
Valia Santella ha scritto con il regista Nanni Moretti, Gaia Manzini e Chiara Valerio il soggetto e con Nanni Moretti e Francesco Piccolo la sceneggiatura di Mia madre. Il film è stato distribuito in Italia ad aprile e viene presentato oggi in concorso al Festival di Cannes.
Valia, la storia di Mia madre è nota, ma ti chiediamo un brevissimo pitch per chi ancora non la conosce.
Aiuto! Devo confessare che il termine “pitch” mi mette ansia. Lo lego a qualcosa di irreversibile. Sicuramente, però, raccontare una storia in maniera sintetica può essere un grande esercizio, e anche una prima verifica, soprattutto con se stessi, della validità di uno spunto. Dunque, Mia madre: Margherita è una regista che sta girando un film sulla chiusura di una fabbrica. Durante le riprese del film, sua madre si ammala gravemente. Da una parte c’è il set, in cui Margherita si trova a scontrarsi con la difficoltà di rendere reale e credibile la finzione cinematografica, e dall’altra parte c’è la verità della vita che inesorabilmente segue il suo corso.
Tra soggetto e sceneggiatura, il film conta ben cinque autori. Quando sei stata coinvolta nel progetto? E come si è svolto il processo di sviluppo del copione?
In fase di soggetto. Nanni ha chiamato me e due scrittrici: Gaia Manzini e Chiara Valerio. Successivamente, invece ha deciso di lavorare sul trattamento e sceneggiatura con Francesco Piccolo e me.
Come è stata la collaborazione tra voi? Eravate un team o i diversi autori hanno lavorato in modo più indipendente con il regista? Quali sono stati i vantaggi e gli svantaggi?
Le riunioni coinvolgevano sempre tutti gli autori. Nella scrittura del soggetto io, Gaia Manzini e Chiara Valerio incontravamo Nanni, durante le riunioni prendevamo appunti che man mano si fissavano per trasformarsi poi in una scaletta e quindi in un soggetto. Anche in fase di trattamento e sceneggiatura il metodo di lavoro è rimasto sostanzialmente uguale. Non vedo svantaggi nel lavorare in questo modo. La cosa importante è non avere fretta.
E’ evidente che per Moretti questo sia un film molto personale, come si approccia la materia narrativa quando il regista mette sul piatto una forte componente autobiografica?
Per quanto riguarda gli sceneggiatori c’è bisogno di qualcosa che è alla base di ogni lavoro collettivo: fiducia e rispetto reciproci. Per quanto riguarda il regista, quindi in qualche modo l’autore principale del film, o comunque colui che attinge in prima persona dalla propria vita, la grande difficoltà sta nel non autocensurarsi, nel non proteggersi troppo.
Il film alterna momenti emotivamente molto intensi ad altri più leggeri, quanto è difficile in scrittura trovare il giusto equilibrio tra le scene?
Questa, sinceramente, credo che sia una grande dote di Moretti.
Non è la prima volta che scrivi al fianco del regista, che differenza c’è a lavorare a stretto contatto con chi poi dirigerà il film? E cosa cambia tra lo scrivere per altri e scrivere per se stessi?
A mio parere scrivere insieme ad un regista, che è l’autore del film in senso ampio, è più facile che scrivere senza un regista. Bisogna cercare di capire qual è lo stile, l’immaginario del regista e entrarci dentro. Molto del lavoro sta nel sapere ascoltare e poi rielaborare ciò che si è ascoltato. Quando si scrive per se stessi forse bisognerebbe semplicemente lasciarsi andare. Ovviamente non voglio assolutamente teorizzare o stabilire una regola, sono semplici riflessioni che scaturiscono dalla mia piccola esperienza.
Com’è stata la collaborazione col regista? In che modo venivano prese le decisioni su scene, personaggi e snodi narrativi? Tutte le scelte sono sempre state fatte insieme e di comune accordo?
Sì, si parla molto e con il tempo e con il lavoro diventa sempre più chiaro cos’è il film, quindi le scelte sono naturalmente condivise. Poi ci sono i gusti personali e può capitare che uno degli autori sia meno convinto degli altri su una scena o su una battuta.
Moretti è un regista molto importante, la sua “ingombrante” presenza autoriale sul film accentra mediaticamente su di sé tutti i meriti (o demeriti) del progetto e fa ombra agli altri autori. Come vivi personalmente questa realtà? Può essere frustrante non essere appieno riconosciuta per il tuo contributo o è confortante sapere che il peso della responsabilità del film graviti tutto intorno al regista?
Devo dire che l’esposizione mediatica non mi sembra certo l’aspetto più gratificante del nostro lavoro.
Non è questo il caso ma spesso, in Italia, il regista chiede ed ottiene la firma sulla sceneggiatura anche se, oltre ad un normale contributo creativo (e non potrebbe essere altrimenti visto il ruolo), ha effettivamente scritto poco o nulla. Trovi giusta questa corsa alla firma sul copione da parte di molti registi?
Non credo vada valutato il quanto materialmente si scrive sul foglio bianco. Un regista che propone un punto di vista, pensa a dei dialoghi, immagina delle scene, deve firmare il copione. Ovviamente poi ci sono la buonafede e l’onesta intellettuale delle persone.
Parliamo un po’ più di te: da cosa nascono le tue storie? Da una premessa narrativa intrigante? Dal mondo del racconto? O dai personaggi?
Il mio lavoro nasce sicuramente dall’incontro con gli altri autori. Non credo di avere delle ”mie” storie. Posso dire che sono attratta dagli esseri umani e dalle relazioni che li legano, quindi mi piace pensare ad un personaggio e immaginare come reagirà in determinate situazioni.
Non nasci sceneggiatrice ma ti sei fatta per anni le ossa sul set. Al contrario, molti sceneggiatori non hanno quasi mai messo piede sul set. Ritieni sia utile per uno sceneggiatore conoscere le dinamiche del set per scrivere? Lo è stato per te?
Non me la sento di generalizzare, per me l’esperienza di set è un’ esperienza profondamente formativa, probabilmente anche per fare tutt’altro tipo di lavoro. Il set ti insegna a gestire l’emergenza, la crisi, la mancanza di tempo… poi per quanto riguarda la sceneggiatura può aiutarti a sviluppare una certa sensibilità sui dialoghi e nel mio caso, avendo fatto la segretaria di edizione per molti anni, una buona visione di insieme e una grande attenzione alla struttura del racconto.
In questo caso, sei stata sul set? Quanto è cambiato il copione in fase di riprese rispetto all’ultima stesura della sceneggiatura?
Il lavoro di scrittura non è continuato sul set. La sceneggiatura è cambiata poco durante le riprese. Ci sono state alcune improvvisazioni di Turturro che poi Moretti, di ciak in ciak, ha “fissato”. Poi in alcuni ambienti Nanni Moretti ha voluto aggiungere delle piccole scene, quindi magari ci chiamava e noi gli mandavamo la scena via mail, oppure ci incontravamo per qualche ora il sabato, quando lui non girava. Si tratta di piccoli cambiamenti che andavano nella direzione di approfondire meglio cose già presenti in sceneggiatura.
Come funzioni? Quali sono le tue abitudini quando scrivi?
Quando scrivo da sola a casa, riesco a concentrarmi veramente bene nelle prime ore del mattino. Fino alle dieci e mezza, undici. Poi inizia la fase casinista, in cui mi alzo molte volte e comincio a fare cose diverse tutte insieme: preparo la lavatrice, accendo la radio, faccio la lista della spesa… Ovviamente quando lavoro insieme agli altri sono molto più disciplinata.
Riguardo la stesura delle sceneggiature, quanto ti affidi a strutture e archetipi narrativi e quanto lasci libera la tua creatività di esplorare una storia senza “regole” di sorta?
Come abbiamo detto prima, il mio percorso professionale è un po’ particolare, sono arrivata alla sceneggiatura non attraverso degli studi ma dopo aver lavorato a lungo sul set. Di conseguenza non ho un approccio teorico, non seguo regole. Credo, però, che ogni lavoro abbia il suo percorso che dipende sia dalla storia che si vuole raccontare, sia dalle persone con cui si lavora.
Hai esordito dietro la macchina da presa più di dieci anni fa con Te lo leggo negli occhi. Com’è stata quella esperienza? Essere la regista ha influenzato il processo di scrittura?
Rispetto al mio film, e più in generale al mio lavoro, io cerco di capire quali possano essere i miei errori, i miei limiti. Di conseguenza quando lavoro con altre persone alla scrittura di un film cerco di capire e imparare da loro. Il fatto di aver realizzato un film può essere utile quando si scrive per essere sempre attenti alla realizzabilità di una scena. Non parlo solo di qualcosa di tecnico, ma del fatto che alcune scene che sembrano belle sulla carta, oppure necessarie, poi hanno una potenza cinematografica decisamente minore. Scrivendo, mi capita di chiedermi come girerei io una determinata scena, se mi divertirebbe farlo o se invece non ne avrei voglia. E può essere molto utile. Se un regista non ha voglia di girare una scena è molto probabile che ci sia un problema di scrittura.
Non hai per il momento diretto altri film per scelta o perché non ne hai avuto la possibilità? Ti piacerebbe dirigere ancora e hai in programma di farlo?
Sinceramente non lo so. Da una parte mi piacerebbe fare un altro film perché amo molto lavorare con gli attori, mi piace vedere i personaggi che prendono corpo con le loro case, i loro vestiti… Mi piace cercare il giusto punto macchina, le inquadrature giuste dal punto di vista narrativo… Tutto questo mi piace e mi terrorizza al tempo stesso. Realizzare un film è un lavoro molto complesso e ci si arriva spinti da una forte determinazione e da una grande carica emotiva, un innamoramento (o un’ossessione) per una storia, per un personaggio, per un’immagine… Diciamo che per ora quest’innamoramento non è scattato.
La WGI intervista gli sceneggiatori per coprire un vuoto d’informazione. Di solito, ai festival si parla solo di registi e attori. Che ne pensi di questa abitudine? Ritieni che in Italia la categoria degli sceneggiatori sia sufficientemente tutelata e riconosciuta?
La questione non riguarda solo gli sceneggiatori, diciamo che il modo in cui si scrive di cinema (ma anche di letteratura o di teatro) tende ad essere un po’ superficiale. Si danno delle informazioni ma si entra poco nell’analisi del lavoro. Questo vale soprattutto per i grandi organi di informazione, mentre trovo che ci sia una parte sana di internet che ha cominciato a colmare questa mancanza. Spesso in rete si trovano articoli molto interessanti, di reale approfondimento ( e non parlo solo di cinema).
Cosa pensi della situazione del nostro cinema in questi anni?
Volevo saltare questa domanda, perché è una domanda troppo ampia e non vorrei dare una risposta banale e generica… ma, una cosa che mi sembra molto positiva è lo spazio che si sta creando in Italia per un modo di raccontare che deriva in parte dal documentario, più precisamente da quello che viene definito cinema del reale, e che sta proponendo una reale ricerca sul linguaggio. Penso ad autori come Leonardo Di Costanzo, Alice Rohrwacher, Pietro Marcello e tanti altri. Ma anche ad un film come N – Capace di Eleonora Danco.
Diritto d’autore: ti senti tutelata? Cosa cambieresti?
Confesso la mia ignoranza in materia.
Grazie, Valia, buon lavoro!