Soap Opera
Ciao, Alessandro, come ti è venuta l’idea del film? Cosa ti premeva raccontare?
L’idea viene, come sempre, da esperienze di vita e raccontarle direttamente diventa una sorta di seduta di psicanalisi, si sublima a partire da quello che ti capita e si trasforma in storia. I personaggi possono essere persone, che stanno intorno a te, e diventano personaggi sulla carta. Il tema principale è un tema d’amore: cosa succede alle persone nel momento in cui sono stravolte da questo sentimento. Si hanno sempre due possibilità di raccontare, uno è drammatico e l’altro è la commedia. Io preferisco la seconda: in questo periodo della mia vita, mi diverte molto cambiare il punto di vista, quello che ci può sembrare tragico o drammatico, se lo guardi appunto da un altro punto di vista, può diventare comico. In questo caso, l’idea parte da una piece teatrale. Originariamente, doveva essere una miniserie per il teatro in 4 puntate che il pubblico avrebbe visto in 4 spettacoli differenti, uno a settimana, e nell’ultimo giorno ci sarebbe stata una maratona finale. Ma non è stato possibile metterla in scena a teatro, perché era un progetto molto costoso che prevedeva un cast nutrito e una scenografia troppo impegnativa. Ma è stato forse un bene, perché credo che la forma migliore per raccontare questa storia sia appunto il linguaggio cinematografico. Quindi ne ho tratto una sceneggiatura, è stato fatto il cast ed eccoci qua.
Più in generale, da cosa nascono le tue storie? Da una premessa narrativa intrigante? Dal mondo del racconto? O dai personaggi?
In generale, io parto da un argomento e poi cerco di immaginarmi un mondo che non sia reale. In questo momento non sono molto affezionato al realismo, se non dal punto di vista della recitazione, perché guardandomi intorno vedo un mondo che non mi piace. Senza volermi erigere a giudice, penso però che non sia bellissimo. Quindi, raccontare il sociale, in questo momento, è una cosa che non mi piace molto. Preferisco inventarmi dei mondi fantastici, dentro ai quali muovo dei personaggi che, seppur bizzarri e surreali, raccontano delle storie che possano coinvolgere tutti. Quando vado al cinema, mi piace essere proiettato in un mondo che non c’è e che è stato creato apposta per me spettatore, apprezzo quando nei film c’è fantasia e creatività. Se penso al mondo reale, invece, mi guardo intorno e mi sembra che ci sia un preoccupante abbassamento di gusto. Se è vero che il cinema è anche forma, allora penso che dentro ci debbano essere delle cose belle. Mi ritrovo molto di più nel passato, non solo quello della mia giovinezza e trovo che sia un corto circuito interessante raccontare personaggi che vivono l’oggi, ma lo vivono in modo leggermente spostato rispetto al reale.
Come si è svolto il processo di sviluppo del copione?
Avevo la traccia della pièce teatrale che avevo scritto ma che aveva dei toni molto più neri, era più cupa e siccome mi era stata richiesta una commedia – anche perché ho dei contratti che devo rispettare – ho cercato di spostare un po’ tutto verso quel modello narrativo. Venendo dal teatro – ho fatto l’attore per 15 anni quindi è una realtà che conosco abbastanza bene – sono abituato all’idea di compagnia, di avere un gruppo di attori che, in teatro, cambiano continuamente costumi e girano l’Italia per gli spettacoli: volevo che si ricreasse un po’ quel clima. Ne ho parlato agli attori che conosco e con cui mi ero già trovato bene a lavorare nei miei precedenti film, tutti hanno letto il copione teatrale e tutti erano abbastanza entusiasti e volevano farne parte. Da qui, ho iniziato a scrivere la sceneggiatura. La difficoltà era condensare tutti i personaggi in un film che preveda ci siano colpi di scena, tempistiche da rispettare, un lieto fine, tre atti… Insomma sono dovuto rientrare nel paradigma di quella che è una struttura cinematografica.
Ecco, a proposito degli attori, hai scelto l’intero cast del film a copione ultimato o avevi già in mente alcuni attori prima di terminare la fase di scrittura? E, in caso, quanto e come hai cercato di cucire addosso il personaggio all’attore nella stesura della sceneggiatura?
Mancavano solo i personaggi di Ricky Memphis e di Elisa Sednaoui. Tutti gli altri, più o meno, già li conoscevo ed avevano già tutti accettato di fare questo film dopo aver letto il testo teatrale e ho scritto su di loro… Ma non del tutto perché mi piaceva che fossero catapultati in un contesto un po’ diverso rispetto ai ruoli che spesso viene loro chiesto di interpretare. Ho voluto da loro una recitazione un po’ diversa dal solito, un tipo di recitazione che molti non erano abituati a fare e che alcuni, addirittura, non avevano mai fatto. Ricky ed Elisa si sono uniti alla ciurma perché anche loro erano entusiasti di questo progetto.
A quali generi/modelli ti sei ispirato?
La commedia che mi piace è quella classica di Billy Wilder e Blake Edwards. Quella incentrata molto sui personaggi, quel mondo dove le commedie erano girate tutte nei teatri di posa. Mi sento vicino a quel tipo di cinema lì.
Finora ti sei cimentato sempre nella commedia. Hai in programma o ti piacerebbe esplorare altri generi?
La commedia ha tanti sottogeneri, ma in generale è un modello di racconto che mi affascina, trovo bello poter fare per lavoro l’intrattenitore. Mi piace pensare che il pubblico entri in sala e ne esca come è entrato, ma ha trascorso un’ora e mezza piacevole nella quale viene loro raccontata una storia che abbia regalato loro degli assaggi, dei momenti emozionanti, ma che subito dopo si sia ritrovato a ridere. Mi interessa molto dare alla gente un mix di emozioni e risate. Sicuramente in futuro vorrò esplorare altre cose, ma questo è un momento in cui molti produttori chiedono la commedia perché garantisce degli incassi. È un momento particolare da un punto di vista storico. Ho anche dei soggetti che non sono esattamente di commedia e piano piano spero di poterli realizzare. Per ora ho fatto 3 film, non 30, quindi questo è un linguaggio che sto ancora imparando e per me ogni film è ancora un’opportunità per sperimentare cose nuove da un punto di vista di tecniche di ripresa e di regia in generale. Ho 40 anni, non ne ho 82: credo che il tempo per fare, poi, cose diverse ci sia.
E’ il primo film che scrivi completamente da solo. E’ un caso o una scelta? Perché?
Il soggetto era stato acquistato da Maurizio Totti, il produttore della Colorado Film, insieme ad un’altra pièce teatrale da cui Salvatores ha tratto il film “Happy Family”. Quindi la storia era già lì e, rispetto ad altri, questo era un progetto un po’ più personale, parla di cose alle quali tengo e rappresenta il mio mondo da un punto di vista creativo. Quindi ho premuto per riuscire a realizzarlo, anche perché gli altri miei film avevano incassato bene, per cui un po’ di fiducia per fare una cosa alla quale tenevo di più me l’ero un po’ guadagnata.
Nei tuoi film precedenti hai firmato la sceneggiatura una volta con il regista (Salvatores) e altre due con il tuo attore protagonista (De Luigi). Come è stata la collaborazione tra voi? Quali sono stati i vantaggi e gli svantaggi?
Come ho detto, con Gabriele Salvatores c’era già il testo teatrale. Ho chiesto di avere una parte all’interno del film perché mi interessava imparare a girare e a scrivere per il cinema. Insieme cercavamo di capire se la scena era efficace o meno, ne parlavamo e poi andavo a scrivere. Più o meno, è andata così anche con Fabio De luigi. Secondo me, alla fine, la mano deve essere una. E’ come dipingere un muro, se lo si fa in due o in tre c’è il rischio di confusione; invece, parlare prima del colore, del materiale da usare, del pennello, quello è secondo me un confronto costruttivo. Dopodiché, nel momento in cui si scrive, è meglio che la mano sia una. Non mi è mai successo di trovarmi a dividere le scene da scrivere, le parti o i personaggi: se ne è sempre parlato prima, ma chi scriveva ero io.
Come funzioni? Quali sono le tue abitudini quando scrivi?
Entro in una bolla, quindi cerco di fare prima tutte le altre cose, lavarmi ad esempio, altrimenti poi corro il rischio di arrivare alla sera senza essermi ancora lavato i denti. Quindi, quando mi sveglio, prima faccio colazione, metto a posto casa, mi lavo e poi mi metto al lavoro. Una volta avuta l’idea inizio a scrivere i personaggi e i caratteri e lì ci entro con un approccio quasi d’attore, inizio a mangiare quello che mangerebbe il personaggio, a leggere i libri che potrebbe leggere lui, a vedere mostre e film che vedrebbe lui, tutto per cercare di capirlo fino in fondo. Diventa un gioco, una sorta di metodo Stanislavskij della scrittura, credo molto in questa cosa. Provo le battute da solo, cerco di capire se possono stare bene in bocca agli attori. Mi prendo la libertà di vivere una realtà leggermente spostata, un approccio attoriale che, se non facessi questo lavoro, sarei un pazzo: invece, così, mi sento giustificato a farlo. Poi, in generale, vado abbastanza spedito, uso la “tecnica del pomodoro”. Per 20 minuti faccio una cosa ma devo fare solo quella, quindi non rispondo al telefono e non penso ad altro. Poi 5 minuti di pausa e poi riprendo per altri 20 minuti. Faccio questa cosa per 5 volte e ho scoperto che si lavora molto e bene. Poi una pausa più lunga, magari una passeggiata… e poi riparto. Mi rendo conto che è una cosa molto pragmatica però è quella che mi fa produrre di più. Sono abbastanza veloce a scrivere, ci metto un mese circa per una prima stesura. Gli steps sono i soliti: parto da un soggetto, poi trattamento, scaletta e poi scena per scena finché non arrivo alla fine. Poi, inizio con le revisioni.
A proposito di revisioni, di solito quante ne fai? La sceneggiatura che arriva sul set quanto è cambiata rispetto alla prima stesura?
Diciamo che da contratto le revisioni sono 3, poi però finisce che ne faccio almeno 15. Una volta scritta, la prima stesura viene data in pasto agli attori, ai produttori e agli editor che ti presentano una scheda. Su quello, poi, discuti e fai delle modifiche: si arriva ad una seconda stesura e, poi, riparte più o meno la stessa cosa. Lavori sugli appunti che ti vengono fatti e su una terza stesura, che precede quella definitiva. Poi però, una volta arrivati alla versione definitiva, cioè battezzata come buona, inizia tutto il lavoro di pre-produzione, la ricerca delle location, del cast e lì chiaramente le cose si modificano. Se hai scritto una scena ambientata in un luogo preciso e poi non lo trovi, allora devi riadattare la scena a quello che hai.
Quanto è cambiato il copione sul set, rispetto allo script? Per quali ragioni?
Io non faccio prove, primo perché le prove hanno anche dei costi e poi perché gli attori sono sempre pieni d’impegni quindi è difficile, soprattutto per film corali come questo, avere tutti gli attori a disposizione, prima dell’inizio delle riprese. Ma a me sta bene così, perché preferisco anche che arrivino sul set freschi, di modo che siano più malleabili. E’ una tecnica di direzione degli attori che utilizzo sempre. Dopodiché, il copione diventa una partitura da seguire per suonare la musica, ma mi piace lasciare spazio alla gemma dell’improvvisazione degli attor,i piuttosto che ingabbiarli in modo rigido sul testo. Ovviamente, tutto però parte dalla traccia della sceneggiatura. Va anche detto poi che ci sono attori che preferiscono cambiare alcune parole, perché se le sentono meglio in bocca, altri invece preferiscono imparare tutto a memoria e lavorare sui toni e le intenzioni, partendo pedissequamente da quello che c’è scritto. Il mio lavoro sta anche nel cercare di armonizzare tutti i loro modi diversi di lavorare.
La WGI intervista gli sceneggiatori per coprire un vuoto d’informazione. Di solito, ai festival si parla solo di registi e attori. Anche se la questione non ti riguarda direttamente perché sei anche regista del film, che ne pensi di questa abitudine?Ritieni che in Italia la categoria degli sceneggiatori sia sufficientemente tutelata e riconosciuta?
Io personalmente mi sento molto fortunato, toccando legno, finora è andato tutto per il verso giusto. E’ un lavoro molto difficile il nostro. Per presentare un lavoro significa che devi averlo fatto, ed è complicato inventare e scrivere una storia dai meccanismi cinematografici. In Italia poi, i film che vengono prodotti e che vedono l’uscita in sala sono pochissimi rispetto alle sceneggiature. Però, questa è un’arte e come ogni arte è mossa da passione. Sono contento di fare anche il regista, perché passare 6 mesi a scrivere e gli altri 6 mesi a girare e montare è un privilegio. Scrivere è, di solito, un’arte solitaria che non puoi fare senza un amore per la scrittura e l’immaginazione molto forte. Non so dire se gli sceneggiatori siano sufficientemente tutelati o meno. Qualsiasi lavoro artistico è tutelato un po’ da te stesso, bisogna credere molto in quello che si sta facendo, ci vuole la presunzione dell’artista, credere fortemente che ciò che pensi sia interessante per te, lo sia anche per gli altri e per il pubblico. Quindi penso che sia molto soggettiva la tutela rispetto a questo.
E ti senti tutelato anche dalle leggi sul diritto d’autore? O cambieresti qualcosa?
Be’, a me fa sempre un po’ impressione il fatto ch,e con una firma su un contratto, tu di fatto cedi all’infinito e in qualsiasi forma tutto quello che è il frutto del tuo lavoro e della tua creatività: in cambio, poi, di neanche tantissimi soldi. Dopodiché ti arrivano delle gratificazioni economiche, attraverso i passaggi televisivi ecc dalla Siae che di fatto detiene il monopolio delle opere. Non so se sia giusto o meno, ma non saprei neanche quali sarebbero i vantaggi di un duopolio. Il principio base comunque deve essere sempre quello, scrivere una cosa e preoccuparsi che sia tutelata e di questo, appunto, da un po’ di tempo se ne occupa principalmente la Siae. Alla fine penso che si debba andare un po’ dietro a quello che c’è: questa è la legge e questa si segue. Magari non sarà perfetta, ma non mi sembra, per quella che è la mia esperienza, che ci siano dei furti rispetto a questo. Io personalmente non mi sono mai sentito sfruttato.
Cosa pensi della situazione del nostro cinema in questi anni?
Senza presunzione, tolti alcuni registi, non mi sento molto vicino al cinema italiano che si occupa molto dell’attualità, della socialità. A me non piace molto guardare il mondo di oggi, perché mi fa abbastanza schifo. Preferisco sempre spostarmi in mondi che non ci sono. Da un punto di vista visivo, immaginifico, ci sono cose molto più interessanti nel cinema francese e anglosassone. Quindi è istintivamente a questo cinema che m’ispiro, anche da un punto di vista narrativo e di sceneggiatura. Mi piacciono i mondi di Kauffman, di Spike Jonze, di Wes Anderson. Lavorano con la creatività e portano avanti un discorso che, da un punto di vista cinematografico, è molto più interessante di quello che stiamo facendo noi. La nostra mi sembra un po’ una palude abbastanza comatosa, dove si tende sempre a carpire dalla realtà e soprattutto si tende al risparmio. E la trovo quasi un’ingiustizia, soprattutto nella commedia. E’ il genere che il pubblico va a vedere in massa, sono i film che producono maggiori incassi e, per assurdo, sono quelli secondo me meno curati. Penso sia disonesto nei confronti del pubblico. Se un prodotto è quello che incassa di più, dovrebbe essere quello più curato, girato meglio, le commedie dovrebbero essere i fiori all’occhiello del nostro cinema. I registi che in Italia si preoccupano di innovare ci sono ma non sono molti: mi vengono in mente solo Garrone, Sorrentino, Salvatores e anche Tornatore che con “La migliore offerta” ha dimostrato che si può raccontare una storia diversa, ma che incassi comunque tanti soldi. Per il resto, non noto delle personalità di spicco, noto un’omologazione, pochi registi danno un’impronta al loro film, un marchio di fabbrica che li possa rendere riconoscibili rispetto ad altri. Piuttosto, c’è un amalgama che a me non piace molto.
Pensi che questo dipenda dal sottovalutare il gusto del pubblico e la sua capacità di distinguere ed apprezzare una commedia ben fatta rispetto alle altre?
Veniamo da 25 anni in cui, secondo me, c’è stato un deterioramento e istupidimento generale, e purtroppo non sono pochi perché coinvolgono più di una generazione. Non che il mio film sia particolarmente innovativo: è ambizioso, ma la storia è molto semplice e lineare. Si è puntato molto sull’avere degli attori che fossero un po’ dei beniamini del pubblico, ma in più ho cercato di aggiungere una leggera originalità. Secondo me il pubblico è pronto. Se si riesce a dare qualche cifra in più sullo schermo, dalla ricerca musicale, alla cura registica, il risultato può essere quello di avere un film, che non sia solo televisione su grande schermo. Il cinema è diverso, è un altro linguaggio e questo per me è importante, è la mia piccola rivoluzione. E cerco di farlo senza togliere nulla di quello che viene richiesto, quell’intrattenimento e quelle risate che il pubblico e i produttori vogliono. Ma è difficile, perché i produttori hanno sempre paura che se tu racconti qualcosa di leggermente diverso rispetto ai canoni standard, che il pubblico possa scappare invece che accogliere positivamente la novità. Spero, nel mio piccolo, di poter dimostrare con questo film che non è così.
Ci regali la tua scena preferita del copione? Perché l’hai scelta?
E’ la scena più sentimentale, forse quella meno divertente, la prima scena tra Fabio De Luigi e Cristiana Capotondi che parlano al bar all’inizio del film. E’ da un po’ che i due personaggi non si vedevan,o ed è la scena da cui parte il film. E’ una scena semplice, registicamente parlando, campo, controcampo e totale, è l’abc della regia dal punto di vista visivo ma mi sembra bella, una scena ambigua, una scena d’attori e loro due sono stati molto bravi, hanno dato quell’aspetto umano ed emotivo ai personaggi che a me piace ci sia sempre, anche in un film d’intrattenimento. Potete leggerla: SOAP OPERA _scena
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