Andiamo a quel paese
Ciao, ragazzi, potete raccontarci in poche righe di cosa parla la vostra nuova commedia?
Il film racconta la storia di Valentino e Salvo, entrambi disoccupati, costretti a trasferirsi dalla grande città al piccolo paese, dove la vita è meno cara ed è più facile tirare a campare. L’arrivo della coppia sconvolgerà il paese, mettendo a repentaglio le pensioni dei molti anziani che ci vivono.
Com’è nato il film? Cosa volevate raccontare?
P: Le idee, quasi sempre, nascono per puro caso. Ultimamente in televisione si sente parlare spesso di ammortizzatori sociali, di giovani che campano sulle spalle degli anziani, che non si sa come vivrebbero senza l’aiuto dei genitori. Abbiamo deciso, quindi, di affrontare questo tema delicato con la nostra comicità, ma non per questo sminuendolo.
F: Volevamo raccontare questo difficile periodo italiano, ciò che stanno vivendo tanti amici e tante persone vicine a noi. Sempre con maggior frequenza, purtroppo.
Quale peso date all’elaborazione della sceneggiatura nella creazione dei vostri film?
P: La sceneggiatura è fondamentale! La cosa importante, però, è capire che può essere adattata a quello che stai girando. Se si rimane troppo fedeli alla sceneggiatura, si rischia di commettere un errore. Non è detto che quello che giri sia come te lo immaginavi quando l’hai scritto. Soprattutto nel caso in cui, come il nostro, si è autori e attori.
F: La scrittura della sceneggiatura credo abbia il peso più importante nella realizzazione di un film, direi un 90%. Senza una buon copione o con uno di cui non siamo convinti non iniziamo a girare. Esiste una “legge” che dice che un film si scrive tre volte: con la stesura della sceneggiatura, con le riprese e con il montaggio. È indubbio, però, che se non hai un buono scritto di partenza, non puoi andare a girare. Anche se, in fase di riprese, il testo può variare.
A tal proposito, quanto è cambiato il copione sul set rispetto allo script? Per quali ragioni?
P: È cambiato perchè una battuta improvvisata sul set può risultare più vincente, rispetto alle cinque righe di monologo scritte nel copione. Però la sceneggiatura rimane assolutamente il lavoro più importante, da cui non si può prescindere. Se uno pensa “vabbè, tanto poi la sistemiamo sul set” ha sbagliato in partenza.
F: Essendo noi autori, attori e registi, ci concediamo il lusso di sentirci liberi di improvvisare, di continuare ad elaborare la sceneggiatura, cercando di sentire cosa ci dice il film. E’ una libertà che concediamo anche agli altri attori con cui abbiamo il piacere di lavorare. Per quanto tempo si dedichi ai sopralluoghi e alla preparazione prima di iniziare a girare, una cosa è scrivere un film e un’altra girarlo. Ma senza un’ottima base non si va da nessuna parte.
Come per tutti i vostri film, avete scritto insieme il copione del film, supportati da Fabrizio Testini, Edoardo De Angelis e Devor De Pascalis. Potete raccontarci come portate avanti il processo di scrittura? E quanto hanno inciso gli altri autori?
P: Si parte sempre da un’idea che convince me e Salvatore. Poi, si cerca di capire se questa idea può diventare un film, se riusciamo, cioè, a trovare risposte alle mille domande che ci facciamo. Non sempre le idee che ci piacciono hanno una forza tale da diventare un film. Molte volte si adattano meglio a un cortometraggio o a uno sketch comico. In ogni caso, per nostro metodo di lavoro, siamo sempre pronti ad arrivare alla fine e, se non convinti, buttare tutto e ricominciare da capo. Non ci diamo mai delle scadenze. Quest’ultimo film, infatti, esce a distanza di tre anni dal precedente.
F: I film che abbiamo diretto, finora, sono nati tutti da un nostro input. Poi, però, scriviamo sempre in collaborazione con altri autori, altrimenti c’è il rischio di darsi ragione da soli. Persone mettono in dubbio e alla prova le nostre idee sono fondamentali. Il contributo di altri sceneggiatori è assolutamente notevole.
La WGI fa queste interviste per coprire un vuoto d’informazione. Di solito, ai festival si parla solo di registi e attori. Voi siete anche sceneggiatori. Che ne pensa la vostra “terza” professione delle altre due? Facciamo bene a darle spazio?
P: Fate benissimo! Vorrei ricordare che un film non è soltanto attori e registi, ma è anche sceneggiatori, direttori della fotografia, operatore della macchina, montatore. Spesso queste figure sono messe in secondo piano, senza sapere che un’inquadratura che piace tanto al pubblico può essere un’idea dell’operatore o essere stata inserita nel film su proposta del montatore.
F: Ti devo contraddire, però! Ai festival non si parla solo di registi e attori, ma anche di vestiti. E ultimamente si parla anche dei film senza prima averli visti. Molti hanno scritto che la nostra opera non avrebbe dovuto chiudere il Festival. Ma lo hanno fatto quindici giorni prima l’inizio del Festival. Per carità, è legittima la critica di un film. Però prima lo si dovrebbe vedere. Tornando alla tua domanda, fate benissimo a dare voce e spazio agli sceneggiatori.
A proposito del Festival Internazionale del film di Roma, da quest’anno ha rinunciato alle giurie specializzate, con il pubblico giudice unico nella scelta dei vincitori delle varie sezioni. Un bene o un male?
P: E’ una scelta. Ogni festival sceglie la propria impostazione. Io penso che possa essere anche una cosa bella, però è indubbio che la scelta del pubblico sarà dettata più dal gusto che da aspetti tecnici. È chiaramente un’impronta che si vuol dare a questo festival. Personalmente, il fatto che sia il pubblico a scegliere a me piace molto.
F: Dipende dallo scopo che si prefigge il festival: se è quello di dare spazio a quei film che difficilmente raccoglierebbero il consenso del pubblico in sala, una giuria tecnica è più indicata. Se, invece, si vuol dare la possibilità a chi fa cinema di capire i gusti del pubblico, capire i motivi che lo hanno spinto a votare per un film piuttosto che per un altro, è preferibile la scelta che hanno fatto gli organizzatori. Certo, per avere una votazione più obiettiva, tutti i film in concorso dovrebbero essere visti dallo stesso pubblico, cioè dalle medesime persone.
Cosa pensate della situazione del nostro cinema in questi anni?
P: Non ho un’idea molto precisa su questa cosa. Mi verrebbe da chiederti cosa ne pensi tu (ride, n.d.r.). Anche se, una proposta per migliorare il cinema italiano ce l’ho. Come tu ben sai, i registi presenziano sempre alla prima del loro film. Alla fine della proiezione, si alzano tutti in piedi, complimenti, pacche sulla spalla. Le prime sono tutte così, anche se il film è brutto. Un regista che riceve dieci minuti d’applausi è convinto di aver realizzato un capolavoro e tende a farne un altro uguale. Allora, o il regista non assiste alla prima, oppure va anche alle seconde: paga il biglietto e si vede il film in sala, tra la gente comune. Forse, così facendo, il cinema italiano potrebbe fare un passo in avanti. Quindi, occhio alle prime!
F: Penso che ci siano tante cose belle che stanno nascendo, sotto tanti punti di vista. La commedia, ad esempio, si sta rivalutando, si sta interrogando, sta percorrendo delle strade nuove. Ma anche in altri generi cinematografici più “intensi” ci sono persone che stanno dicendo delle cose importanti, penso, per citarne alcuni, a Garrone, Sorrentino o De Angelis, che ha collaborato con noi alla sceneggiatura di questo film e in grado di raccontare storie in maniera non banale, come in Mozzarella Stories.
Diritto d’autore: vi sentite tutelati? Cosa cambiereste?
P: Anche su questo punto sono poco preparato. L’unica cosa che posso dire è che il diritto andrebbe tutelato maggiormente, riconoscendo il giusto merito agli autori, anche per chi opera nei nuovi canali di distribuzione, come il web. E poi, credo che il diritto d’autore debba essere riconosciuto anche ad altri operatori del mondo cinematografico, come ad esempio i montatori, per l’importanza e l’unicità che hanno tutti i componenti dello staff, tecnico e artistico, che realizza un film.
F: Non ti saprei rispondere, mi dispiace. Non sono molto preparato sull’argomento.
Qual è la scena più bella del copione?
P: Una delle scene più belle è quando Salvatore tira fuori il suo essere palermitano. Dopo un mio rimprovero nei suoi confronti per averci messo nei guai, lui da la colpa ai paesani, lamentandosi che sono sempre pronti a mettere il naso negli affari degli altri, mentre a Palermo, nella grande città, una persona può compiere tranquillamente illeciti e tutti si fanno i fatti propri. Si può addirittura fare trattative con lo Stato senza essere disturbati da nessuno! Questa è una scena che, pur chiaramente comica, mette a confronto due diverse realtà: la vita cittadina e quella paesana.
F: La scena più bella non te la posso raccontare perché è il finale. Ti dico solo che è una scena che io e Valentino avevamo in mente da anni e aspettavamo solo l’occasione giusta per poterla “infilare”.