Tre tocchi
Scritto da Francesco Frangipane, Riccardo de Torrebruna e il regista Marco Risi. Il film è stato presentato il 21 ottobre alle 22, alla sala Sinopoli nella sezione Gala.
Marco, Francesco e Riccardo, potreste raccontare in poche righe la vicenda?
MR: Tre Tocchi è la storia di sei attori che si ritrovano il mercoledì a giocare a calcio in un campo di periferia. Si parla di confronti, di gelosie, rancori e rabbie di attori che vorrebbero fare il loro mestiere e che invece sono costretti a fare altro. FF: Una commedia amara in cui si intrecciano le vite di sei uomini, che vivono quotidianamente la schizofrenia di un mestiere assurdo, che li fa oscillare continuamente fra gioie e delusioni, passioni e grandi frustrazioni, successi ed enormi delusioni. RdT: Sono sei personaggi che si arrampicano sulla superficie sdrucciolevole del presente, di questo presente, di questa malconcia industria dello spettacolo, per cercare di tenere viva l’illusione di un cambiamento. Siamo in Italia e loro vivono l’Italia di oggi, come tutti gli altri precari del nostro Paese. Per dirla in altri termini, sei attori-antieroi che non hanno modo per diventare altro da se stessi.
Tre tocchi è un film scritto a sei mani. Com’è nato il vostro sodalizio?
MR:Il film è nato dal fatto che anche io gioco nella squadra della ItalianAttori da sette anni e in tutto questo tempo ho avuto modo di studiare i “miei” attori per cercare di capire i loro desideri e le loro frustrazioni. FF: Un giorno, un attore (Leandro Amato, che è poi diventato uno dei protagonisti) dopo l’ennesimo provino andato male, ebbe uno sfogo negli spogliatoi inveendo contro i registi, rei di far lavorare sempre gli stessi attori: la sua invettiva colpì a tal punto Marco che. qualche tempo, dopo si ripresentò agli allenamenti, dicendo che avrebbe fatto un film con noi. Sembrava una boutade e, invece, non si è poi rivelata tale. C’è stata una naturale divisione dei ruoli: io e Riccardo lo abbiamo affiancato nella scrittura del soggetto e della sceneggiatura e tutti gli altri si sono “giocati” i ruoli dei protagonisti, e non solo, attraverso le storie che ci hanno raccontato. RdT: ItalianAttori è la squadra nata per iniziativa di Pasolini e poi sopravvissuta negli anni. Punto fermo e nostro allenatore è Giacomo Losi, un mito per i romanisti, e io lo sono fin dall’infanzia. Sono anche uno scrittore e Marco se n’è accorto, così è stato del tutto naturale che mi ritrovassi a palleggiare anche queste storie.
Cosa vi premeva raccontare della storia?
MR: Le attese, le speranze, le aspettative, le rabbie, mascherate dalle goliardie dello spogliatoio, per le delusioni continue, aspettando il prossimo provino. Il mestiere dell’attore, al contrario di quello che immagina la gente, è il più precario del mondo, quello che, più di ogni altro, dipende da qualcuno che neanche ti conosce.
Questi non sono attori famosi, sono bravi ma non li conosce nessuno e vivono nell’attesa continua che qualcosa succeda nella loro vita. Con questo film hanno avuto un’occasione! FF: Il punto di vista, assolutamente condiviso da tutti e tre gli sceneggiatori, era riuscire a sdoganare il luogo comune del mondo del cinema e del teatro, raffigurato sempre come un’isola felice tutti lustrini e paillettes, raccontando invece un sottobosco artistico, molto romano, abitato da uomini che , ostinati, combattono tutti i giorni per riuscire a portare avanti la propria vocazione, ma che spessissimo per sopravvivere devono far tutt’altro, alimentando così esponenzialmente quei mostri che accompagnano quotidianamente le loro schizofreniche esistenze.RdT: Ho fatto parecchi film come attore, e diciamo che, per vent’anni, è stata la professione che mi ha permesso di continuare a scrivere, quindi conosco le dinamiche e le situazioni intime che un attore attraversa, quando lavora, e soprattutto quando cerca di farsi strada per lavorare. Oltre a questo, da quando è nata mia figlia, insegno nel mio Studio Acting a Roma. So cosa significa affrontare un provino, sfiorare un ruolo importante e mancarlo di un pelo, per l’altezza, il colore dei capelli, l’età, le fisime di un regista o di un funzionario televisivo. So cosa si prova e so che nel tempo questa tensione ti logora, ti stende, ti fa diventare anche cattivo, cinico, distruttivo. Ti chiedi perché hai scelto un lavoro del genere. Poi, basta un’occasione in cui ti offrono un ruolo e rinasci, come l’araba fenice. M’interessava raccontare questo esile filo che tiene un attore attaccato al carro della vita.
Cosa ti ha insegnato a titolo personale sceneggiare questa storia?
FF: E’ stata come una lunga seduta dallo psicanalista. Le storie che abbiamo raccontato, sono anche la mia storia e quella di migliaia di artisti. Storie fatte di sacrifici, frustrazioni, delusioni. E questo continuo Déjà vu, vivendolo però questa volta da protagonista, mi ha aiutato a digerire e sconfiggere quei mostri che accompagnano le nostre misere esistenze. RdT: Mi sono reso conto che da una situazione d’isolamento, che è tipica in questo ambiente, siamo riusciti a creare un gruppo di lavoro e soprattutto un gruppo di valori e di amicizie rare, dove non c’erano più maschere, perché su un campo di calcio giochi, bene o male che sia, per come sei fatto dentro e in questo film ognuno ha fatto la sua parte partendo da chi è veramente.
Quale peso dai in generale all’elaborazione della sceneggiatura nei tuoi film?
MR:E’ inutile dire che la sceneggiatura è fondamentale. Quando a Billy Wilder hanno chiesto le tre cose fondamentali per fare un buon film, ha risposto: la sceneggiatura, la sceneggiatura, la sceneggiatura!
Il tuo rapporto personale con la scrittura? Preferisci scrivere da solo? O in gruppo? Perché?
MR:Dipende da film a film, con Andrea Purgatori mi è capitato di scrivere insieme. ma in genere mi confronto con gli sceneggiatori molte volte, insieme facciamo la scaletta e poi, via, ognuno a scrivere da solo per, poi, scambiarsi quello che si è scritto e a correggere.
Come si è svolto esattamente il processo di scrittura a sei mani nello sviluppo del copione? Ci sono dei consigli che daresti a chi si cimenta in una scrittura di gruppo?
FF: Non mi sento assolutamente di dare consigli a nessuno, essendo io il primo ad averne ancora bisogno e tanto. Vista la mia limitata esperienza mi sono affidato molto al metodo di lavoro che ci ha proposto Marco Risi e che alla fine si è rivelato molto efficace: in primis abbiamo incontrato i sei attori protagonisti, che ci hanno raccontato vari aneddoti della loro vita, quindi abbiamo scritto uno scalettone per ognuno dei 6 personaggi e, a seguire, li abbiamo miscelati andando a costruire un’unica scaletta del film. A quel punto ci siamo divisi 2 personaggi a testa (a me sono toccati i personaggi di Max ed Emiliano) e separatamente abbiamo scritto una prima stesura delle scene assegnate. Naturalmente, poi, ogni scena veniva condivisa e rielaborata da tutti. Infine, messe insieme tutte le scene, abbiamo ricominciato a lavorare di squadra fino al raggiungimento della stesura finale. RdT: Abbiamo incrociato i percorsi di ciascuno, sapendo che il centro di gravità del film era quell’illusione di farcela, di passare la linea di fuoco, quel provino che grava sulla testa di ogni attore, la sua croce-delizia, il suo supplizio di tantalo. Naturalmente abbiamo aggiornato di continuo le versioni e l’esperienza di Marco ha fatto da filtro, senza mai rinunciare a ricredersi, quando era necessario.Quello che posso consigliare a chi scrive in gruppo è di scegliere un soggetto, una storia che si conosce e in cui si sia certi di avere qualcosa da dire.
Quale peso credi abbia avuto effettivamente la sceneggiatura in questo film?
FF: Fondamentale. Naturalmente non per la qualità della scrittura, che non sono certo io a dover giudicare, quanto per la centralità della sceneggiatura nel progetto. Le sei storie che raccontiamo non sono semplicemente le storie dei sei protagonisti, ma sono le storie degli attori stessi che le interpretano. Perché tutti gli attori del film, o quasi, interpretano se stessi e rivivono le situazioni che ci hanno raccontato. Se posso azzardare, questo film è un nuovo esempio di “neorealismo”: fatti realmente accaduti e interpretati dai protagonisti stessi degli eventi raccontati, solo che questi protagonisti presi dalla “strada” sono attori che interpretano se stessi. RdT: La sceneggiatura ha fatto lievitare il potenziale che ogni storia, ogni protagonista aveva espresso, o non espresso. Scrivere su una persona viva, e questi sono esseri umani vivi, capaci di fare cazzate e di ridere, ma anche di piangere con la sincerità degli uomini feriti, è un privilegio, un dono che uno scrittore riconosce e al quale s’inchina con il dovuto rispetto
Quanto è cambiato il copione sul set, rispetto allo script? Per quali ragioni?
MR:Questo è un film che dal primo momento ho voluto libero e quindi un po’ è stato modificato durante le riprese, come spesso succede, almeno a me. Alcune scene sono state riadattate con il contributo degli attori. Quella del pusher-ballerino per esempio, che era farina del mio sacco, è stata riscritta con il protagonista della scena Paco Reconti e anche la scena di Max con il suo agente Stefano Chiappi, suo vero ex agente, è stata completamente riadattata dai due. FF: Il lavoro fatto in fase di scrittura è stato da subito molto attento all’idea di messa in scena, fondamentale in questo la presenza del regista tra gli sceneggiatori, e soprattutto in sintonia con gli attori che hanno avuto una parte sostanziale nella fase di scrittura. E quel poco che si è aggiunto o adattato è sempre passato rispettosamente al nostro vaglio. RdT: Non è cambiato granché. Avevamo una sceneggiatura molto solida, proprio perché flessibile ed è normale che un film basato su storie di attori approfitti dei cambiamenti che questi, una volta in scena, siano in grado di proporre. Se poi in sceneggiatura hai previsto che una scena si svolga in una demolizione di auto e invece si gira in una rimessa di imbarcazioni, ben venga la novità.
Eri presente sul set del film? Gli eventuali cambiamenti erano concordati fra te e il regista?
FF:: Assolutamente si. Ho avuto la fortuna di essere anche uno degli aiuto-regista e questo mi ha permesso di seguire passo passo tutto il film e scrivere direttamente sul set i cambiamenti che la lavorazione e le esigenze sceniche richiedevano. Il tutto in un continuo e proficuo scambio artistico con Marco Risi. RdT: Sì, ero spesso presente, ma mai preoccupato dei cambiamenti. Concordati o meno che fossero, i cambiamenti sono necessari, fanno parte dell’energia che scorre su un set, qualcosa di diverso dalla scrivania e dal computer. Oltre tutto ho un piccolo ruolo, quello di un regista che fa le prove di ”Pazzo d’Amore” di Sam Shepard, altro autore che ammiro senza remore
La WGI fa queste interviste per coprire un vuoto d’informazione. Di solito, ai festival si parla solo di registi e attori. Che ne pensi di questa abitudine?
MR:E’ vero, si parla quasi sempre solo di attori e registi ma la fase della sceneggiatura, ripeto, è fondamentale, quindi ben vengano iniziative come questa. Anche la mania dei registi di scrivere sui titoli di testa “un film di…”non trova tutto il mio consenso. Andrebbe regolata e solo in pochi casi concessa… Il film è di tutti, non di uno solo, ma soprattutto di chi lo ha scritto. Mi ricordoche su Time Magazine nelle recensioni c’era scritto il titolo del film, il nome del regista e il nome degli sceneggiatori. FF: Penso sia una pessima abitudine. Penso che la riuscita, e non solo il successo, di un film dipenda principalmente da una bella storia. E la storia di un film è figlia della fantasia e della professionalità degli autori. Un festival importante non può e non deve trascurare questo fondamentale lavoro dietro le quinte. Faccio le mie regie in teatro e proprio per questo credo di saper apprezzare il lavoro drammaturgico. La drammaturgia, e quindi la sceneggiatura. sono l’anima di un film. Hitchcock diceva che un film inizia con un foglio di carta e una matita. Garcia Marquez, che ha fatto il Centro Sperimentale a Roma, diceva che un film presenta troppi compromessi e quindi è meglio scrivere una storia come uno se la sente, senza dover pensare a tutte le complicazioni produttive. Voglio dire che la scrittura in Italia, dove del resto si legge meno che in molti paesi europei, è sottostimata e questo naturalmente mi dà ai nervi.
Cosa pensi della situazione del nostro cinema in questi ultimi dieci anni?
MR: Questa sembra una domandina ma in realtà richiederebbe pagine di risposte, quindi mi limiterò a dire che la situazione del cinema italiano, negli ultimi dieci anni, non è la migliore. Ci sono eccellenze e nuovi registi di prima categoria, ma forse è proprio nelle sceneggiature il punto più debole del nostro cinema. Si fanno troppe commedie senza rischi e molte di queste non fanno neanche ridere. Il pubblico si è disaffezionato e fa fatica a riconoscere il buono dal decente, ormai guastato da ritmi televisivi spesso mediocri. In più, quando si hanno buoni prodotti, le distribuzioni non sono capaci di lanciarli, di sostenerli, di farli capire, accontentandosi delle conferenze stampa, di qualche passaggio promozionale in TV e di qualche articoletto stanco sui giornali… FF: Credo che la crisi del nostro cinema dipenda principalmente da una cieca politica culturale. Non penso minimamente che manchino i talenti e le eccellenze fra le nuove generazioni, penso invece che sia il sistema cinema pubblico e privato a non voler sostenere le nuove istanze. Ci vuole il coraggio di investire e di aiutare il nuovo pubblico ad innamorarsi di questa meravigliosa arte e questo è possibile sostenendo un vero cambio generazionale.RdT: Mi sorprendo quando vedo un film italiano davvero buono, un film che mi tocca e mi fa avere voglia di vivere e di scrivere meglio, ecco cosa penso.
Diritto d’autore: ti senti tutelato? Cosa cambieresti?
MR:Bah, non so, sinceramente. Meglio di quando non si percepiva neanche una lira, ma mi sembra che ci siano molte cose ancora da regolamentare. FF: Ho molta confusione in merito. Sicuramente non mi sento tutelato. Ma è un mondo ancora oscuro per me che non riesco a decifrare e che vorrei imparare a comprendere. RdT: No, non mi sento del tutto tutelato. La Siae è un mammuth che prende poche responsabilità e non tutela gli autori come dovrebbe. Registra, ammucchia copioni, non si pone come garanzia giuridicamente affidabile. Chiede quote annuali esagerate agli autori per mantenere una voluminosa struttura che non dà quanto chiede. Non sono certo che rispetti davvero chi cerca di vivere della propria creatività.
Ci regali la scena più bella del copione? Ce la commenti?
MR:Chissà se sia la più bella. E’ quella fra Gilles e il pusher-ballerino, in un capannone di rimessaggio di barche. Mi sembra che ci sia la fusione giusta fra scrittura, recitazione, ambientazione e musica. Mi sembra che tutto, in questa scena, come per magia, abbia il ritmo giusto. Succede, a volte. (scarica la scena25A_TRE TOCCHI)
FF: Quella che ho deciso di regalarvi probabilmente non è la più bella scena del film, ma sicuramente è quella a cui sono più legato e che stimola maggiormente le mie emozioni.È la scena del ritorno del personaggio di Max in Basilicata. Il ritorno a casa per chi è del sud come me ha sempre un significato particolare. Il legame con le proprie radici è indissolubile. E’ il nido dove ritirarsi nei momenti difficili. È il luogo dove ricentrarsi ritornando ai valori veri, ai rapporti autentici, alla famiglia. Ma è anche il luogo dal quale si è fuggiti. Che dopo un po’ ti soffoca e ti fa scappare di nuovo. Ritornare è ammettere il proprio fallimento…. Insomma, una miscela esplosiva di emozioni per chi, come me, un giorno ha preso la sua bella valigia di cartone ed è partito alla ricerca di se stesso. (scarica la scena FF_tre tocchi)
RdT: Non so se sia la più bella, di certo è una delle più crudeli e originali. Racconta di quanto un attore sia disposto a mettersi in gioco pur di accrescere il suo bagaglio, se volete, di trucchi del mestiere, ma in fondo di strumenti per lavorare. Antonio, uno dei protagonisti, frequenta un corso di recitazione dove una spietata coach straniera, avvalendosi di un traduttore, gli impartisce una lezione durissima. Considerando che Antonio si fa mantenere da una vecchia attrice, la lezione diventa specchio della sua condizione di essere umano. E’ una scena divertente, grottesca, scritta per dare un esempio di fatti sperimentati in tanti anni di training che io ho vissuto, ma poi si è rivelata una metafora calzante per la storia di Antonio. (scarica la Tre tocchi, scena RdT)
A quali generi/modelli ti sei ispirato?
MR:Non mi sono ispirato a modelli particolari, ho pensato al mio canto libero, al fatto che, appunto, volevo fare un film libero e, non so perché (o forse sì) mi piaceva pensare che questo film sarebbe piaciuto a Pasolini, forseperché anche lui, negli anni 70, prima di morire, giocava a calcio nella squadra degli attori. FF: Tre tocchi è un film molto particolare difficilmente inquadrabile in un genere. È uno spaccato di vita vera che oscilla tra commedia e dramma. RdT: Mi piace l’economia nei dialoghi e l’imprevedibilità di una situazione. John Cassavetes è un autore che non mi lascia in pace, se parliamo di capacità di impostare una scena e di ribaltarla completamente. Ma è solo un esempio da tenere a mente. Ce ne sono anche altri, ma sono su vette molto alte e io cerco di non dimenticare dove sto
Quanto hai cercato di andare incontro a un pubblico? Hai pensato a chi rivolgerti?
MR:Non ho cercato di andare incontro al pubblico, il che non vuol dire che sia andato contro il pubblico. Ho pensato a me, a quello che mi sarebbe piaciuto vedere sullo schermo. Sai quanti film si fanno credendo di aver pensato al pubblico e poi il pubblico non va a vederli? Bisogna cercare di essere onesti, il pubblico ogni tanto se ne accorge. FF: Abbiamo solo pensato di raccontate una bella storia. E le storie se sono belle piacciono a tutti. Facendo un film sugli attori, il rischio di diventare autoreferenziali ci ha accompagnato per gran parte della scrittura ma poi a conti fatti ci siamo resi conto che i nostri 6 protagonisti andavano oltre la loro collocazione sociale e professionale, perché quello che ne veniva fuori erano 6 ritratti di uomini comuni con tutte le loro problematiche comuni. Quindi lo specchio di qualsiasi spettatore.RdT: Credo che questo sia un film di rivolta, che a suo modo parla di una rivolta, di un’inquietudine che alla fine deve, dovrà avere uno sbocco. Credo che in questo film ci sia una carica nervosa che può contagiare e, nello stesso tempo, intercettare il malessere che percorre una fascia di persone che lottano per arrivare da qualche parte e non sottomettersi allo status quo imposto da un sistema di tenebra del pensiero. Quanto meno, è quello che ho cercato di metterci dentro,
Come funzioni? Quali sono le tue abitudini quando ti metti al lavoro?
MR:Quando lavoro a un progetto penso solo a quello e mi faccio distrarre da poco altro. Anche quando non faccio niente penso al film. Questa ormai è vecchia, la diceva spesso mio padre, è di Conrad: “Come faccio a spiegare a mia moglie che mentre guardo fuori dalla finestra sto lavorando?” FF: Definirsi è sempre difficile. Soprattutto oggi in cui non ci si riesce più a concentrare un solo percorso, ma se ne battono tanti che convergono tutti comunque verso la stessa meta. Io non posso definirmi uno sceneggiatore nel senso canonico del termine. Non passo le mie giornate a cercare l’ispirazione, a buttare giù storie che potrebbero diventare film per gli altri. Passo le mie giornate sbattendomi fra mille faccende: dirigendo un Teatro (il Teatro Argot Studio) e due festival, preparando i miei spettacoli che dirigo e spesso scrivo, andando in tournée, scrivendo e girando documentari, cercando di realizzare il mio primo lungometraggio. Quindi definire le mie abitudini è difficile perché si adattano quotidianamente a quello che la vita mi prospetta. RdT: Se scrivo un romanzo, cerco di comportarmi con metodo e scrivo di mattina presto. Se scrivo per il cinema o il teatro, non ci sono orari, ma in generale preferisco scrivere di notte.
La WGI difende una categoria che in Italia è molto poco tutelata e riconosciuta. Cosa ne pensi?
MR:Credo che stia facendo una cosa giusta. Ma in realtà ne so poco. Non so di concreto cosa stia facendo la WGI. FF: Penso che la mission di WGI sia fondamentale. Gli sceneggiatori hanno bisogno di essere tutelati ma soprattutto è arrivato il momento di dare dignità artistica e professionale a questa categoria. E la WGI si batte ogni giorno per questo e lo fa nel migliore dei modi. RdT: Devo ripetere che sono incazzato? L’ho ripetuto. Credo che siamo molto ignoranti e presuntuosi e che questo sia un fardello insopportabile per un cinema in crisi come il nostro. Ci siamo chiesti davvero da quanto tempo siamo in crisi? E se lo abbiamo fatto, non è possibile che questa crisi dipenda proprio da una scarsa considerazione per quello che ha sempre fatto del cinema il cinema? Cioè, delle storie che valga la pena di raccontare?