A passi di Pardo
Il festival di Locarno, storica rassegna cinematografica che si tiene ogni agosto sulle rive del lago Maggiore in Svizzera, è curiosamente dominato dai colori e dalle chiazze dell’animale che fa da premio ai film.
Il Pardo – non ho ancora capito perchè privato del leo o del ghe – impazza ovunque rivestendo qualsiasi superficie, gadget e manifesto di giallo e nero animalier. Ci sono gli occhiali animalier, le cover del telefono animalier, borse, cuscini, magliette e naturalmente ombrelli leopardati. Anche la famigerata Piazza Grande è ricoperta di sedie gialle/nere in un trionfo estetico di stile da far impallidire la settimana della moda. Ma il clou dell’animalier è stata la consegna del Pardo alla carriera ad Agnes Varda: in una rassegna con un occhio attento alla cinematografia femminile, come dichiarato dal rirettore Carlo Chatrian in più occasioni, il premio a una delle poche menti femminili della Nouvelle Vague è un momento commovente dove lo spirito auto-ironico di Agnes le fa ricordare il suo piccolo zoo di premi (Leone, Orso) e la porta a tirar fuori dalla borsa a sorpresa una bellissima tutona leopardata con cui la grande regista lascia il palco in grande stile.
Purtroppo lo stesso entusiasmo non lo posso condividere per i film visti al festival. Premetto che sono stata solo tre giorni e ho perso la maggior parte dei premiati. Colpa mia, dei prezzi elevati che rendono complicata la permanenza in Svizzera per chi non è dotato di stipendio svizzero, e anche un po’ del tempo orribile che ha devastato il nord Italia ad agosto.
In particolare, i film proiettati in prima serata in Piazza Grande, erano molto mainstream.
Hin und Weg del tedesco Christian Zubert è un road movie in bicicletta. Un gruppo di amici fa una pedalata dalla Germania al Belgio: alla fine del primo atto scoprono che uno di loro ha una malattia terminale, un mese di vita, e vuole andare a morire in Belgio, che lì è legale. Litigano un po’: perché non l’ha detto prima di partire? Poi risolvono problemi e pedalano con il malato terminale per la campagna europea, fino ad arrivare a destinazione. A parte la plausibilità, che mi sembra ai limiti, e la messa in scena alla Friends europei, forse imposta dalla distribuzione Warner, la regia di Zubert risulta banale, facendo somigliare il film a un lungo spot pubblicitari, basato su una sceneggiatura schematica con personaggi inutili (a se stessi, agli altri e alla storia).
Va un po’ meglio, ma non troppo, con Marie Heurtin di Jean-Pierre Ameri, film pedagogico in costume. Racconta la storia di una giovane sordo-muta e cieca che è una specie di selvaggia ribelle e viene educata in un istituto di suore in campagna. Marie sembra irrecuperabile, ma la giovane suor Marguerite, malata di tubercolosi, si fa carico dell’educazione della selvaggia: riesce con fatica a insegnarle il linguaggio dei segni, oltre che un po’ di morale ed educazione. Spoiler alert: alla fine suor Marguerite muore, sembra che Marie ripiombi nel suo disagio afasico e invece dopo l’ultimo saluto alla sua maestra diventa (la vicenda è vera) una delle più famose sordomute della storia e grande lettrice di Braille. Buona ricostruzione d’epoca, recitazione realistica e storia semplice e scontata… Quanto share ha fatto? Ah no, scusate la pioggia mi ricorda che sono in Piazza Grande e non sul divano di casa, davanti a Raiuno.
Decisamente meglio dalle parti del documentario, genere di cui il festival è ricco in tutte le sezioni. Sleepless in New York dello svizzero Christian Frei promette bene dal trailer, ma risulta monotono. Intreccia storie di persone lasciate dai fidanzati, che non riescono a elaborare il lutto della perdita; così il film appare come una lunga seduta analitica di nevrotici borderline. A dare scientificità alle storie, l’antropologa Helen Fisher che elabora una teoria, secondo cui la sofferenza amorosa non è solamente psicologica, ma anche fisica, generando un dolore reale nel cervello, documentabile attraverso una TAC.
Molto più riuscito Mon père, la révolution et moi, produzione svizzera della regista di origine turca Ufuk Emiroglu, che racconta con ironia la storia della sua famiglia e l’attivismo del padre, militante comunista negli anni ’70, in Turchia. Ufuk, la primogenita, ricorda con nostalgia l’infanzia in Turchia e torna a Instanbul per ritrovare i vecchi compagni del padre. Il film mette a confronto la Turchia di oggi e quella del suo recente passato, attraverso la vicenda del padre, disposto a tutto per la causa, fatto prigioniero dalla polizia e sottoposto a torture, fino alla fuga, verso la speranza di una vita più libera, in Svizzera. Il documentario alterna in maniera intelligente immagini attuali, interviste e animazioni di foto d’epoca, tutte viste con lo sguardo della piccola Ufuk, estradata dal suo paese natale e cresciuta in mezzo alle montagne. Per tutta l’adolescenza, Ufuk era convinta della bontà delle scelte di suo padre, ma ora, da adulta, è costretta a fare i conti con quello che resta delle ideologie, con il bisogno di definire la patria e la propria identità, in modo autonomo. Il padre, che non ha mai rinunciato a opporsi, arrestato per aver stampato soldi falsi, caduto in depressione e nell’alcoolismo, costretto a rubare, si confessa alla telecamera dietro cui c’è la figlia. Diventa l’emblema del fallimento di una generazione troppo idealista, sotto lo sguardo tenero, mai compiacente della regista che rivela, per parte sua, tutta l’incertezza di chi non ha vissuto in proprio rivoluzioni e lotte civili, ma ne ha solo sentito parlare. Mon père, la révolution et moi racconta la generazione perduta degli anni ’80, costretta a fare i conti con il passato, per risolvere il senso di vuoto esploso con l’immobilismo politico del nuovo millennio: mostra come il cinema documentario possa essere uno strumento efficace, per assumere il passato e cercare un modo di superarlo.
Volendo cercare dei volti simbolo del festival, forse il più significativo è quello dell’attrice francese Ariane Labed, presente al festival con due pellicole. La sua bellezza malinconica anima uno dei film al femminile, annunciati da Chatrian: Fidelio, l’odysee d’Alice opera prima della regista Lucie Borleteau. La pellicola racconta di una giovane donna, ingegnere meccanico sulle navi cargo. Unica presenza femminile in un ambiente ad alto tasso di testosterone, com’è quello dei marinai, Alice vive la sua vita sentimentale divisa tra il fidanzatino disgnatore di fumetti (che la ritrae come una sirena) rimasto a terra e un ex-fidanzato più grande di lei, che ritrova a sorpresa come capitano della nave. Un viaggio di formazione sentimentale quello di Alice, costretta, da una parte ad affrontare le avance poco piacevoli del suo capo-reparto, e dall’altra a tentare di risolvere le proprie esigenze sessuali. A una donna non è concesso sfogarsi come la ciurma con amori esotici a pagamento. La carica destabilizzante della sessualità femminile, in un mondo dominato da regole patriarcali, è l’elemento interessante del film. Purtroppo la sceneggiatura non procede nell’analisi e si sbriciola in una banale vicenda di corna che minaccia l’amore romantico. Peccato, ma la Labed rimane un volto interessante e intenso, capace di reggere la storia esile e lacunosa.
E concludo con un vero last but not least, il film che mi è piaciuto di più è anche l’unico italiano in concorso, Perfidia di Bonifacio Angius. E’ un gelido racconto di provincia sulla disintegrazione del rapporto tra padre e figlio, fino a un finale scioccante. Il trentenne Angelo alla morte della madre si interroga sull’essenza del male: “In Chiesa ho visto Satana, era accanto a Gesù e lo guardava. Mentre Gesù guardava me, come avrebbe dovuto guardare Satana”. Il protagonista è un personaggio simbolo dei giovani che invece di “fare cose” sono rassegnati al “fare niente”, incapaci di muoversi e impossibilitati ad agire per cambiare una realtà a loro inaccessibile, perchè definita da una morale genitoriale imposta e mai condivisa, da regole di obbedienza e omologazione sociale di stampo conformista e anche mafioso. Una storia di a-formazione che racconta con incredibile lucidità critica il nostro paese paralizzato. La sceneggiatura firmata dal regista insieme a Fabio Bonfanti e Maria Accardi è fatta di poche parole, mai casuali, con sequenze di notevole potenza cinematografica; da menzionare anche la notevole interpretazione del giovane Stefano Deffenu, accompagnato dall’esperienza dell’attore teatrale Mario Olivieri. Non vi dico di più perché presto sul sito pubblicheremo un’intervista agli autori del film: è proprio la sceneggiatura l’elemento che ha convinto il produttore a finanziare questo film indipendente e scomodo, ma di rara intensità.
Testo e foto di Fosca Gallesio