Bollettino n. 11
Il mare ha finalmente deciso di rivelarsi per quel che è: una potenza. Muggisce con forza. Cavalloni schiantano le dighette – come fossero ridicoli insettini che si oppongono all’inevitabile. Ed eppure, sommersi dall’incontenibile, quegli striminziti millepiedi di roccia riemergono. Sempre.
Fanno tenerezza e orgoglio allo stesso tempo. Così umani, a contrastare il destino.
Bandiere frullano nella raffica di vento. La tela sbatte frenetica. La tempesta ha i suoi ritmi, la sua musica.
L’animo umano ha la sua geografia. La sua voce, spesso, prende la forma delle parole. Scrittura.
Ecco dove sono ora. Davanti a un sorriso smagliante, uno sguardo acuto e curioso. Una sceneggiatrice, ecco. La vedi e capisci che lei è contenta – di quel che sta facendo, di quel che prova dentro, probabilmente. Scrittura controllata.
“E’ questo, la scrittura?”
Sorriso luminoso.
“Mettere la testa sul piatto e offrire la spada all’altro, a chi ti legge. Ecco cos’è scrivere…” “Dunque un fatto privato?” “No. Un fatto intimo. Ecco perché gli scrittori fanno fatica ad avere il senso dell’essere gruppo…. Perché noi mettiamo in gioco la nostra intimità profonda”.
Un inizio col botto. Mi sembra una persona che ha le idee chiare. Sicuramente sulle regole del gioco. Dunque parto con la domanda – che resta quella: “A che punto è la notte?”
“Ti rispondo con Califano: l’alba è l’inizio di un nuovo giorno o la fine della notte? secondo me siamo all’inizio di qualcosa. Parlo da donna. Io vedo un cambio importante nel quotidiano. I piccoli fatti. Perché Dio è nei dettagli – diceva Caravaggio. Ed è nei dettagli, nelle piccole cose quotidiane che vedo il nuovo. E proprio perché io il nuovo lo vedo già in essere, sono contraria alle quote rosa. Servivano, eh, intendiamoci. Hanno fatto il loro lavoro. Adesso però non servono più. Anzi. Distorcono. Sono l’ennesimo requisito che alla fine dopa le scelte. Perchè questo nostro mondo, in questo momento, vive di check list: se barri tutte le caselle, allora sali a bordo. Ma procedendo così viene meno il requisito fondamentale: ti abbiamo presa perché sei la più brava…”
Il discorso resta per un attimo sospeso come un filo al vento. Colpa di chi ci sfila accanto: una passerella di figure mitologiche, metà donna e metà statue, appariscenti come nudi branchi in mezzo alle alghe. In effetti si è materializzato un caravanserraglio di attrici o aspiranti, inguainate in abiti-scultura che nemmeno Bernini. L’unica cosa che riesco a pensare è la quantificazione del tempo: quanto tempo consumi per diventare una statua – con l’unico e imprescindibile obiettivo di comparire e sfilare sul tappeto rosso. Poi, però, l’imponderabile: Zeus ha deciso di divertirsi a rovesciare i destini di questi fragili stecchini chiamati uomini, e sta facendo venire giù acqua a secchiate, con un vento da nord est freddo e cattivo, almeno quanto la penna del peggior critico cinematografico.
Ci guardiamo. Sorridiamo. Ah, l’essere umano… Un inevitabile omaggio a Fellini – e torniamo a noi.
“Io sono donna. Sto facendo la mia strada. Ma non posso non accorgermi che oggi un uomo bianco, se etero, letteralmente quasi non riesce a lavorare. E perché? In nome dei diritti, mi dico, si sta ghettizzando un mondo che non rientra in nessuna lobby. Per me tutto questo è una follia. Ed è una follia che io scriva qualcosa e poi mi arriva la chiamata: ‘In quello che hai scritto non è rappresentata questa minoranza’. Io mi arrabbio. Perché non si tratta più di avere una storia giusta, ma solamente di check list…”
Nel sentirla – e nel vederla così accalorata nel dirlo – non posso non essere contento. Questi argomenti sono difficili da trattare. Sento che solo una donna poteva dirmi queste cose con così tanta convinzione e forza. Solo lei poteva rompere questo ennesimo tetto di cristallo.
“Le quote rosa sono servite ad alzare l’asticella. Servivano davvero. Ora però riabbassiamo quell’asticella. Su tante questioni. Penso a quella persona che mi ha raccontato quanto gli è accaduto negli USA, dov’era andato a seguire un corso. Prima che tutto iniziasse è stato chiesto agli europei di chiedere scusa per la storia dei paesi da cui provenivano… Ma che senso ha? Io vengo da una storia personale in cui la stella polare è sempre stata la libertà. La woke culture sta tracciando un sentiero pericoloso. Perché oggi c’è la censura preventiva. La applica il produttore, ma anche il broadcast. Ma quel che io temo moltissimo è che oggi la applichi anche lo scrittore, lo sceneggiatore. Da solo. Ecco perché, in generale, ho un po’ timore che si stia tornando indietro. Prendi il sesso: ti sembra che oggi ci sia una rappressentazione viva e vera del sesso? Prendi per esempio Diva Futura e Supersex; nel primo vedi una visione, una specie di sogno… che si, certo, è pornografia, ma c’è comunque una visione. Invece prendi il secondo; io ci ho visto voyerismo – che però (ed è qui il punto) si avvale della forza della check list: ‘Sai, chi ci racconta questa storia proviene da una delle varie categorie protette…’ Ecco, questa veloce comparazione mi dice che si sta in qualche modo forzando la realtà: non puoi criticare davvero qualcosa, perché fa parte della categoria protetta… Questa è, di fatto, una violenza – a modo suo. Insomma, si è nominalmente contro la violenza, e per ‘esserlo’ si impone il proprio punto di vista…”
Di nuovo: sento il cristallo dell’ennesimo tetto costruito ultimamente che va in frantumi. Sarà la tempesta che imperversa fuori. E anche dentro, nei suoi ragionamenti. Discutiamo allora del rapporto tra il sistema e il singolo; sottolineo cha a volte tutto questo mi pare un problema di maturità del sistema nel suo complesso…
“Ma io mi domando: ma di che dobbiamo scrivere? Solo di quello che sta dentro questo recinto?”
La guardo bene. Ecco, mi sembra di aver colto un punto: ogni questione le passa dentro, la attraversa. Dunque ai temi – anche generali – risponde con la sua carne e il suo sangue. Mi piace. Niente di quel che succede le è estraneo. Provo un sentiero: “Dunque ti preoccupa anche quel che sta accadendo attorno al tax credit, con questi presunti nuovi recinti di cui si parla, per cui i finanziamenti arriveranno solo se…”
“Ma certo che mi preoccupa! I produttori si tengono ancora più stretti: altrimenti il Ministero non ci finanzia…” “Dunque senti un problema sul versante dell’essere industria? Forse non abbiamo veri industriali?” “Pensa a Titanus; per fare Il Gattopardo lui ha rischiato davvero di suo… ecco, questo oggi proprio manca. Manca il vero investimento emotivo, la vera scommessa sull’idea… Poco tempo fa sentivo Moretti parlare di Ecce Bombo; ne parlava come del figlio problematico, che non molli mai… Sono sincera: mi ha commosso. Era romantico, capisci? Un film come un figlio. Era arte. Oggi… oggi penso che fanno scatole. Seguono flussi economici – e non quelli artistici…”
Come si fosse accesa la luce nel teatro di posa, un lampo ci avvisa che è il momento di una pausa. Ma è questione di poco. Perché c’è voglia di dire, di ragionare. “Che ne pensi della scrittura?”
“Penso che siamo passati dalla totale destrutturazione, all’essere cloni della struttura americana. Ora mi sembra che si vada verso un equilibrio maggiore. Io insegno, ho a che fare con i ragazzi. Mi colpiscono. Li vedo bene. Loro non separano i mondi. Forse sarà la generazione Tarantino… non so. Sono intrisi di tutti gli stilemi. Perché si cibano di ogni tipo di filmografia. Non sono più solo americani. Mi sembra che ci sia più consapevolezza. Dunque il punto debole del nostro sistema lo vedo nei produttori… Ho proprio la sensazione che in molti non sappiano ‘leggere’. Chi lo sa fare, fa cose egregie. Per esempio pensa a quello che abbiamo visto qui a Venezia – e penso a Familia, no? In quel film ho visto tanta capacità, tanta sensibilità… una scrittura molto alta… Io lì ci vedo un produttore che ci ha creduto. Che lo ha protetto. Un film come Amanda sono convinta che se lo porti dai produttori, loro ti dicono ‘ma ‘ndo vai?’ e invece no; uno di loro, un produttore, lo ha fatto. E’ un film forse minore, è vero. Ma colpisce. Lascia qualcosa. È vivo…”
Nuova pausa. Anche a controllare come va il baraccone attorno a noi, come va il vento, la tempesta – tutto. Ma sono proprio semplici rifiati. Troppo da dire per sprecare tempo. È inarrestabile.
“Perché gli esperimenti vanno fatti. Sono fondamentali…” “Però sai che il nuovo assetto previsto tende a tagliare i piccoli, gli esperimenti…” “Si, ed è una follia. Noi abbiamo bisogno di questa vitalità!”
Il discorso ci porta a confrontarci, nel nostro vivere certe situazioni. E’ un annusarsi, un sentirsi. E allora lei riparte in quarta, come se questo salto sul personale le avesse addensato il pulviscolo di quel che aveva in testa. Perché, di fondo, questo è: si parla per conoscersi – per capire cos’è una sceneggiatrice, una scrittrice.
“Sai… io amo la gente di questo nostro mondo. Chi scrive. È una questione di antenne. Amo le persone che si espongono… perché è un nostro dovere, no? È un tuo dovere cogliere i segnali. Dover vedere oltre. Perché devi farlo, e poi devi raccontarlo. No? non trovi che sia un nostro dovere?”
Si. Altroché se lo è.
“Forse ci guardano come pazzi. Forse. Ma noi dobbiamo vedere più in là. Siamo visionari, no? dobbiamo esserlo…”
Ecco, l’onda contro la dighetta. Ed eccola, quella minuscola dighetta riemergere regolarmente. Indomita.
“E’ che siamo ipersensibilizzati, noi che scriviamo. Vediamo segni e ne prendiamo nota… lo sai; nessuno di noi è senza fantasma. Siamo tutti feriti. Tutti.”
Adesso sento forte il vento. Un nord est che ti buca la pelle nuda. Sento l’equilibrio dei gabbiani, che salgono e scendono a cavallo delle diverse spinte. Sento l’onda. La sento nel suo sguardo. Perché le parole sono improvvisamente cercate lentamente, a voce bassa. Sono le parole che stanno sul fondo. I basamenti.
Mi guarda. Non vedo una donna fiera. Non vedo una donna indomita. E nemmeno ferita. Vedo una persona sincera, davanti a me.
“E’… e’ che noi siamo coraggiosi. Perché ci vuole coraggio per entrare nella ferita. Per aprirla. Per starci dentro…”
Fuori il gabbiano ci fa vedere come si fa – a cavalcare una forza preponderante. Ad essere liberi.
“Bisogna capire che entrare nella fragilità è proprio il nostro. È il super potere dello scrittore. Ti ho detto, no? Coraggio. Capisci? Ci vuole coraggio…”
E vedo la sua testa, lì, sul vassoio davanti a me. Offerta al giudizio. Pronta al colpo mortale. E ne resto colpito. Molto. Da tanta sincerità. Da tanto coraggio.
Fuori è vento e pioggia. Ma qui c’è una diga. E si chiama coraggio.