Bollettino Extra
Ed ora, per favore, parliamo un po’ di cinema
Ah, l’amour!
Perché poi è quella cosa lì, il grande schermo. È cinema, capisci? Non è tv. Non è tempo davanti ad uno schermo qualunque. Non è tempo di attenzione che va e viene.
Il grande schermo è quella passione feroce (così ben raccontata da Keith Jarrett), quell’ossessione in cui caschi dentro perché non puoi fare diversamente (cit. Incontri ravvicinati del terzo tipo).
E dunque quel pianoforte, perfetto in quel modo lì, con quella punteggiatura e quella precisione che solo quel che proviene da Bach, ha – e i francesi hanno… perché è una questione di modo, di come, ecco. Quei carrelli dolci, messi alla giusta distanza, non troppo lontano e non troppo vicino, che non è il genio americono di Leone e non è nemmeno quella pozza troppo stretta del salotto romano. È la giusta distanza. E parla quella langue là.
E’ che i festival ti immergono in un milione di mondi. Vedi lo sguardo di tutti. Poi, proprio come l’amore, senti in modo naturale, tra tutte, qual è la tua casa.
Si certo, lo so, sto schifosamente parlando dei fatti miei. Ma questa è una lettera d’amore, scusate eh. Mica un trattato sociologico o una critica acritica della critica. Questo è amore. Ma non solo; è una dichiarazione d’amore, capito? La forma di comunicazione più esposta e fragile che ci sia. Attorno al contenuto probabilmente più importante (ed è qui il dibattito) per quest’esserino che si ostina a camminare sotto il sole rovente, vedendo cose e facendo gente. Perché cos’è il racconto se non amore – amore per il racconto, ovvio?
Cascare dentro quei volti enormi, quegli sguardi sospesi, con quella musica perfetta, quel lento ed implacabile andare verso quegli occhi, come fosse un destino, come fosse il patibolo, come fosse la fatica di andare verso, andare dentro; come fosse la fatica. Giorno dopo giorno. Ogni giorno.
Cos’è se non vita, quella luminescenza extralarge, su schermi gigantosamente giganti, così completamente fuori scala da generare un rapporto di potere? Ci intimidisce, ci fa suoi. Schiavi in questo amore di dipendenze reciproche. In fondo; è così l’amore? Pensavo di poterne fare a meno – e invece… No, non puoi farne a meno. Sembra.
(Che poi, se sei americano e ci metti la Kidman, puoi anche trasformarlo in amore BDSM, e magari sperare che raccontarlo sia un po’ raccontare la scoperta del nuovo mondo. Ovviamente invece è tutto già visto. Shortbus vi dice niente? Oppure avete presente l’imperdibile pilot di Billions? E Luna di Fiele del francese Polansky Ecco. Niente di nuovo, dunque. E invece, quelle commedie lì, con quelle elissi negli sguardi e con il parlato che mette sul tavolo sempre e sempre tutto quel che c’è e non risparmia mai sul dire.)
Ma insomma, io a vedere quei carrelli, quegli sguardi che abbozzano, quel senso del tempo che accenna ad andare e subito trattiene, che promette e allo stesso tempo contiene quella fuga prima del tempo che è l’elissi … E’ papà Trouffaut, ecco.
Sia chiaro; questa, l’ho detto, è una dichiarazione d’amore. Partigiana per definizione.
E poi è pure giusto così; oggi si chiude e cosa c’è di più giusto dell’amore, per chiudere? In fondo, fa girare il mondo, diceva Mamet (“Fa girare il mondo… – Che cosa? – Il denaro. – Qualcuno dice l’amore… – Non è sbagliato, in fondo… l’amore per il denaro…” Mamet; Il Colpo)
O forse è che quando chiudi torni a casa. E ognuno ha la sua patria, dicono. Probabile che questa, con questa grammatica, con questa langue, sia la mia.
O forse no. Chissà.
Forse semplicemente chiamatelo, se volete, cinema.