Bollettino n. 9
“Eh… l’allure…”
La voce calda e impastata, uno sguardo che contempla un che di sardonico, con pagliuzze malinconiche affioranti a tratti. L’uomo che parla dei festival non conosce la grammatica esterna, ma il sistema venoso interno – l’asfalto che porta alle sale, la luce nelle stanze della giuria, la sedia del camerino dove ci si prepara prima di ritirare un premio vinto. Lui incarna la radice, il motivo primo per cui tutta questa città del Cinema viene messa in moto: l’autore – e il suo sguardo sul mondo.
In effetti i suoi grandi occhi scuri sono quelli del pesce di profondità, di chi è abituato a non restare nella superficie comoda, ad ampia visibilità. Uno sguardo che va oltre.
Mentre ci muoviamo avverto ancora, direi in maniera fisica, il peso della grande sala degli stucchi dell’Excelsior, due piani sopra a noi. Quegli specchi giganteschi, le statue, le lunghe prospettive… E’ il principio dell’affumicatura; quando ci entri ti resta addosso il suo odore. Quegli spazi hanno impressa un’aurea inconfondibile grazie ad un soggetto preciso: il cinema. Un odore, una presenza che non va più via.
Perché il Cinema, il gigantesco lenzuolo fuori scala, fa questo: trasforma i luoghi e costruisce mitologie. Quei centinaia di metri quadri di affreschi erano uno splendido salone di un albergo in stile moresco, ma ora sono il monumento ad un sentimento – un modo di sentire questo sogno collettivo chiamato cinema.
Il mio interlocutore è un grande cineasta italiano, un pezzo pregiato. Ci si trova a ragionare sulla Mostra tra le porte girevoli del vecchio albergo; dentro il trucco e parucco, fuori la caldana e la gente appiccicata dall’afa.
“Il vero problema della Mostra è che non ha il mercato. Cannes ha il mercato. Questa è la differenza…”
Camminiamo. Lo fermano, salutano, omaggiano. Tutti entrano in confidenza immediata con lui. “Le star, il jet set… sono doping. E’ chiaro, no? Ma è fondamentale che ci sia. E’ che bisogna sapere come stanno le cose…”. Si certo. Tutti dobbiamo sapere come stanno le cose. Anche se non è così immediato capire dove stia il bene di questa enorme macchina. Nella folla, nei numeri del successo di pubblico? o nel numero degli sguardi nuovi e potenti trovati (e raccolti) in un anno? O nei numeri degli incassi che produce tutta la macchina durante l’anno? O nei numeri dei film prodotti? O…
Tutti amiamo la Mostra. “Il sogno funziona in modo diverso dal pensieri cartesiano. Il sogno ci sarà sempre. Noi siamo il sogno” ci diceva Leoluch l’altro ieri. Il nostro cineasta ha ancora queste parole in testa. Riemergono regolari come un fiume carsico, in ogni ragionamento. Che non è poi mai un ragionamento. Perché è un pensare, ecco. Non a caso abbinato al camminare. Come un gesto congenito al proprio essere. Come vivere.
Tutti vogliamo che il sogno continui. Tutti pensiamo alla catastrofe. Eppure il futuro, in modo del tutto antievidente e antilogico (tanto quanto la sala cinematografica), è parte di noi già adesso, mentre camminiamo e pensiamo.
Scavalliamo un grumo di cavi e tubi, accroccati tanto quanto i miei pensieri mentre proseguiamo il cammino. Cerco di decifrare. Perché avverto fili diversi, in tutto questo. Come in tutti questi giorni. Sento la tensione dei destini che paiono divergenti – il bisogno delle produzioni di avere certezze e sostegno e quadri normativi funzionali, l’urgenza degli autori di avere riconoscimento e solidità economica, la imprescindibile necessità del successo, l’irrinunciabile importanza di avere uno sguardo.
Indubbiamente c’è tutto questo.
Lui si volta a cercarmi, con quel volto importante, quella fisicità così sicura di sé. “Perché il Cinema è il cinema”, dice sorridendo, come fosse la cosa più ovvia del mondo, palese – chiaramente continuando il pensiero di poc’anzi. “Il sogno, capisci? ci sarà sempre”. E mi guarda sorridendo. Interpellandomi con uno sguardo che finisce le frasi. Perché è tutto ovvio. Il sogno ci sarà sempre. Come fosse respirare. Perché il cinema è respirare – dice lui, senza che serva dirlo.
Ecco. E’ andata così, la giornata. Come equilbristi. Tra le sale costruite per esibire il potere e la voce potente e sicura di chi ha dentro di sè la certezza incrollabile. Non di chi ha capito, ma di chi vive.
L’aria si addensa nuovamente. Si va verso la sera, e a sorpresa, a fine corsa, pare ricaricarsi l’energia appiccicosa che ci perseguita e ci sfianca in questi giorni. Ma non ci finisce. Non oggi. Non finchè siamo tutti insieme, girovagando a cercare posti, idee.
Questa è la Mostra. Una tribù che piante le tende, condivide il cibo, il tavolo, le idee. Attraversa i giorni e le notti insieme. Vive sogni separati o coincidenti. Per giorni e giorni.
Mi fa riflettere, però, che il senso delle cose si sia spostato. E’ come se quest’aria appiccicosa abbia trovato un centro di gravità capace di darle prima una maggiore consistenza, e poi forse addirittura una forma. Credo che sia per via di lui, della sua presenza. Il cineasta. Ho la netta sensazione che sia la sua fisicità, la sua voce, le sue parole a indirizzare il tutto. E no, non è una questione di autorevolezza. Forse. Anche. Ma no, direi di no. Credo che sia altro.
Perché mentre con il pensiero si provava ad incastrare la vita pratica fatta di cose e di incontri, lui arrivava e partecipava, sfiorando la spalla e chiamando ad andare, a partecipare a questo o quello. E ci si muoveva insieme. E poi ci si ritrovava insieme da qualche parte.
Per un paio di giorni è andata così, come trefoli di cime diverse che si intrecciano, fino a formare una sola cima. E non c’è tempesta che la possa spezzare.
E dunque alla fine ho capito.
Lui, il cineasta, ha creato un senso che tutti noi conosciamo molto bene: il gruppo che condivide un destino. E non è cosa con tutti. e’ di chi ha la storia da raccontare nel proprio sguardo. E lo fa – ognuno a modo proprio. E’ l’appartenenza, ecco cosa.
Famigli. Ecco chi siamo.