Bollettino n. 8
Se ami il racconto, nella forma della “messa in scena”, allora ami il dietro le quinte.
Poche cose sono più belle ed emozionanti dei tavolati lunghi e consumati dei palchi dei teatri quando tutto finisce – prova o recita che sia. Off side. Se ti sei perso nei cantieri nautici, una volta nella vita, provi lo stesso effetto: tutte quelle magnifiche barche, con il loro nobile destino di saper solcare ciò che affascina e atterrisce come il destino, ovvero il mare. Ed eppure, in quel momento, fuori dal loro ambiente, quegli oggetti sono balene spiaggiate, inermi ed esposte. Off side. Ma tutto ciò è indispensabile. Serve a poter vivere, poi.
E dunque, il giorno prima si aprisse il sipario e venisse dichiarata aperta la Mostra, camminavo per i corridoi immensi e gelidi del Casinò, anche detto Overlook Hotel. Odore di colla, di legno tagliato di fresco, di plastica. Ovunque scale, legname, fili, pacchi. Ovunque un esercito di figure che celermente si sposta, prende, solleva, sposta, monta…
Mi ero messo a lavorare vicino alla spiaggia, tra odori salmastri e da doccia. Raccoglievo idee e organizzavo tempistiche – e intanto aspettavo di poter incontrare una persona da intervistare. Accanto a me passavano ragazzini: costume e gelato – la loro divisa da spiaggia. Mi accorgo che le voci sono cambiate; guardo: erano arrivati gli operai, in pausa. Voci potenti, vivaci. Chi segnato dall’età, chi molto giovane. Ovviamente ascolto. Il più giovane ha preso l’attenzione di tutti raccontando le sue disavventure scolastiche. Si bevono una birra enorme; promette fresco. Sono vestiti tutti nello stesso modo: martello penzolante dal pantalone con le tasche (portato come fosse la spada del cavaliere), scarpe antinfortunio, maglietta consumata e sudata. Indossavano la loro divisa.
Al calare della luce mi trovavo immerso nello scambio di idee con la persona che avevo così a lungo aspettato. Ero totalmente preso dai ragionamenti – anche dalla prepotenza della temperatura dell’aria e dei colori. Perciò la voce che ci arriva alle spalle mi coglie del tutto impreparato. Ci ho messo qualche secondo a realizzare chi chiamava con quella voce così cordiale la mia interlocutrice. Sembrava lui, il direttore… e sì, era Barbera, in effetti. Una battuta un saluto e si ferma. Ovviamente mi sfiora l’idea di chiedergli qualcosa… ma nemmeno mi si condensa l’idea fino in fondo: basta guardarlo. Con quell’aria un po’ così, che hanno le persone per bene. Pare mio padre, perennemente in giacca per andare a fare il suo mestiere di progettista di case. E poi quel sorriso dolce, forse anche un poco triste. O forse no. Forse è solo stanco.
Perché in effetti sì: è stanco. Non sfatto. Non ha il senso dello sconfitto di chi esce dal centrale di Wimbledon dopo una maratona persa ai punti. No. Lui non è una star. Ha invece l’aria di chi è stanco per la fatica fatta. Ma, nonostante tutto, va. Va al lavoro, perché questo stava facendo. Stava andando a lavorare. A incontrare persone, a sorridere, stringere mani, parlare. Questo fa un direttore di un festival. E questo non è nemmeno un festival, ma la benemerita Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia. Per dire. E lui lì, con noi al tavolino minuscolo. Alle sue spalle il tramonto da tropico firmato Storaro è perfino ormai un ricordo – e dunque no, nemmeno questa gloria ha accompagnato la sua venuta. Davanti a me vedo un uomo che è proprio solo ed interamente quel che è: una brava persona, che sta andando al lavoro. Si capisce che forse avrebbe preferito stendersi sul divano e magari sognarsi nel lago montano più freddo del mondo – o che ne so io che cosa sogna un direttore della Mostra d’Arte Cinematografica della Biennale di Venezia. Sogna minimo cose meravigliose, mi dico. Ma insomma. Non è questo il punto. È che lui è lì con noi, con quel sorriso discreto da piemontese in gita, di chi non vuole rompere, figurarsi.
Anni fa mi capitava ogni tanto la fortuna di incrociare una faccia così. Quel volto tondo, gentile. Incline al sorriso timido. Era Bruno Ganz. Un paio di volte lo incrociai per le calli – e ovviamente lo salutai, come si fa con uno che fa parte della tua vita. E lui salutava, contento, semplice. Un’altra volta lo incrociai in battelo, in inverno. Stavamo fuori entrambi. Gli unici, a prendere il gelo in faccia. Ci guardammo e ci sorridemmo. Complici in quell’essere contro corrente. Complici, ecco cosa. Insomma: era l’umanità fatta persona quel grande attore che era Bruno Ganz. Quella grande persona, mi viene da pensare.
Umano. Questo ci serve, penso sempre io.
Ed ecco. Barbera lo guardo un attimo, e capisco. È Bruno Ganz. In Pani e Tulipani, a Venezia. Con quell’aria da “ci sono qua io; non devi preoccuparti”.
L’umanità esiste.
E insomma quest’uomo con il suo completo blu, proprio come mio padre, ci saluta dolcemente perché deve andare. Va a lavorare. Ed in effetti indossa la sua divisa da lavoro. Come gli operai che avevo visto prima. Come chiunque di noi ruoti attorno alla Mostra in questi giorni. Perché sono giorni di lavoro. Molto lavoro. E noi WGI siamo sindacato. Siamo lavoro. Con il senso del lavoro a farci da stella polare. Certo, siamo artigiani delle idee – ma a partire dal senso del lavoro.
Ed è seguendo quella stella che oggi, tre settembre, le sigle unite che rappresentano gli autori hanno presentato, qui alla Mostra, il contratto nazionale.
A pensarci, questa pazzesca fatica chiamata “contratto nazionale”, una fatica svolta con passione e dedizione da chi ha avuto mandato di costruire questo cammino (e a cui va la nostra profonda e sincera riconoscenza) è perfino una cosa semplice. Si chiama lavoro.
E dunque, tutto qui. Ecco, volevo solo cercare di trasmetterlo, questo senso semplice delle cose. Il lavoro. E il rispetto che merita chi lo compie.
E’ un elementare fatto, e regola le cose. E’ una regola. Tu chiamala, se vuoi, gravità.