Bollettino n. 7
Ampie tende bianche filtrano la luce modulandola fino agli angoli. La temperatura è fresca, piacevole. La stanza è una confort zone imprevista, un’oasi nel deserto. Attorno ad un tavolo scarno, di sguincio, alcune persone discutono. Un po’ in francese, un po’ in italiano.
Si discute per trovare le parole giuste. Cosa c’è di più bello di un gruppo di persone attorno ad un tavolo, intente a cercare il filo comune a tutti, a quel che guizza dentro ogni destino personale mentre si intreccia ai destini degli altri – e tutti a cercare l’altro senza perdere se stessi?
E’ una tensione, quella che senti. Un desiderio, un limite, un’opportunità.
L’incontro Declaration des cineastes si è svolto all’Italian Pavillon, con la partecipazione delle sigle degli autori (WGI, 100 autori, ANAC, AIDAC, SRF, con FERA e con SIAE). In ballo la necessità di chiedere che il cinema non sia considerato merce, industria, all’interno delle regole UE. Gran maestro dell’iniziativa sua maestà Claude Lelouch.
Alla fine del dibattito la combricola dei relatori si trasforma in un gruppo di persone attorno ad un tavolo, intente a pesare le parole per un comunicato congiunto. Il fatto in sé è tutto qui. Semplicissimo.
Ma è nel modo, nel percorso, che spesso troviamo il senso profondo delle cose. E’ questa modalità che mi colpisce. Il come, il quando, il chi.
Serve capire cosa esattemente vada detto, identificato, isolato, comunicato.
L’esattezza delle parole, a cavallo tra due contesti culturali.
Il ragionamento sembra un piccolo ramo finito in un torrente; ci sono impreviste secche, grandi massi e ostacoli vari che sembrano precludere il suo percorso.
Non basta aggirarli; bisogna pure non perdere lo slancio della corrente.
Quanto è corretto definirsi “al di fuori della logica industriale”? E quanto, al contrario, è corretto definirsi, per forza, “dentro le logiche industriali”? Ecco un grosso masso piazzato proprio al centro del flusso d’acqua.
Lelouch, al convegno, aveva esordito magnificamente al riguardo: la logica del sogno è molto difficilmente sovrapponibile alla logica cartesiana, alla logica spietata del mercato. Ed eppure è fondamentale continuare a sognare.
Ascoltandoli non posso non sganciarmi dal contingente – e volare alle discussioni diurne e notturne di questi giorni. Il nocciolo è sempre questo.
Alla Mostra sta vincendo la logica del mercato? Holliwood ha succhiato l’anima alla ricerca dell’arte cinematografica in cambio di un faustiano diritto di prime nozze con la corsa all’Oscar? E se fosse da seguire questa logica, vorrebbe dire che per cercare di creare una magia del cinema (il sogno popolare e collettivo) si perde l’altra magia del cinema (l’unicità dell’occhio, lo sguardo obliquo che sfugge alla logica diffusa e che sommandosi ad altri mille sguardi unici ci restituisce un’idea di se stessi più ricca, frastagliata e vitale?)? È davvero impossibile riuscire ad avere sia l’una che l’altra essenza?
È una faccenda di sguardi. Unici, certo; ma fino a che punto, fino a quanto? Uno sguardo coerente con chi è l’autore, con chi è lo spettatore. Con chi siamo.
La notte, si sa, regala visioni, incontri con spettri che ci fanno varcare soglie.
Evanescenti e spettrali come il Vincent di Collateral, sfiniti dal caldo, sopravissuti a visioni e mondi e code senza fine, ciondolavamo l’altra notte al bar del casinò – un grande spazio grigio antracite, oscuro e freddo come certi pensieri, un contentintore perfetto per presagi. Aiutava, diciamolo, anche quel minimo grado alcolico che permette agli uomini di superare la soglia della mera dimensione terrena.
Il mio magnifico interlocutore notturno perorava accalorato, distinguendo tra chi racconta il sesso per quel che è, ovvero il momento che unisce ogni essere umano e che si caratterizza per l’incertezza, il disequibrio, il non perfetto – a differenza della trasposizione patinata, perfettamente controllata, che un film dai grossi numeri produttivi propone come audace, solo per via del contenuto sadomasochista. Il patinato, sosteneva, è il cellophane che dagli anni ottanta in poi hanno avvolto ogni cosa, allontanando la percezione del reale. Ci vuole uno sguardo forte e consapevole, acculturato – diceva guardando oltre il buio della notte – per bucare quel cellophane, quella separazione artificiale e capace di guastare in modo durevole la nostra percezione delle cose.
Gravità, dicevo io. Autenticità dello sguardo, sosteneva lui.
Parlavamo, insomma, di forma e ricerca. Parlavamo di sguardi che debbano per forza essere da Mostra d’Arte Cinomatografica. Ma nascondavamo, dico io e continuo a dirlo in ogni occasione, la necessità di avere quella folla adorante davanti al tappeto rosso. Quella folla non sono soldi; quella folla è il motore. E’ anche – dico io- il motivo per cui fai un film e non un racconto che puoi scrivere per te stesso e condividere con i tuoi amici intimi. Un film è e resta un fatto pubblico. l’industria del cinema si chiama industria del cinema. La Mostra d’Arte Cinematografica non può essere schiacciata sul suo essere industria. Ma non può prescindere da essa.
Lo diciamo, lo ribadiamo, lo continuiamo a dire.
Noi scriviamo storie. La domanda seria, continua, imprescindibile (nonché fastidiosa) è: per chi?
Ecco. In quella stanzetta, autori di culture diverse discettavano attorno al peso delle parole. Attorno alla loro esattezza – avrebbe corretto il traduttore.
Il peso da cercare è sempre quello: l’equibrio delle forme.
Domenica c’è stata la regata storica. I gondolini da regata sono l’oggetto artigianale in legno più veloce costruito dalla cultura millenaria del popolo dell’acqua – ovvero gli abitanti delle Venetie. I gondolini sono l’oggetto più precario sull’acqua che ci sia. E’ velocissimo ed è precario. Se corre è più stabile.
Corri Mostra. Corri. Che siamo tutti a bordo, con te.