Bollettino n. 1
Ci sono inizi. E inizi degli inizi.
Il mio inizio dell’inizio è partito dall’alto, da sopra Venezia.
Colpa di una fondamentale legge della fisica che (sembra) governa l’universo.
E’ che il cielo chiazzato andava via via perdendo consistenza e forma, come ne fosse venuta meno l’idea che aveva di sé, passando da incubatore di temporale a promessa di nuovo caldo. Ancora.
Il rimasuglio svolazzante di batuffoli grigi pareva avesse intinto ogni punta in una qualche pozza di fango, ed ora spargeva qua e là per l’ampia vallata quel che colava dell’intingolo.
Boschi che a guardarli sapevano da terra bagnata, da mondi misteriosi e sconosciuti.
Una buona parte delle foreste che abitavano quei pendii sono finite tagliate e rotolate inevitabilmente a valle, inevitabilmente dentro corsi d’acqua – inevitabilmente fino a mare. La gravità – ed era la gravità dei pendii, della situazione politica, insomma delle cose, del tutto – le faceva arrivare alla loro unica destinazione, inevitabile: Venezia.
Perché ciò che è in laguna, in parte, comincia qui, tra queste vallate. Venezia ha le sue radici fisiche – ciò che sta sotto le sue case, ovvero i pali che le tengono su – proprio qui.
Immense fatiche e interi destini di uomini divorati da questo lavorio incessante e durato secoli. Ed ora lo vediamo, il risultato. La Gravità, all’epoca, aveva lavorato egregiamente nel modo a lei proprio.
La gravità ci governa. Senza, ci si perde. Si perde il senso.
Oggi Venezia è popolata e costantemente visitata da un’infinita teoria di idee, ipotesi, geniali folgorazioni e puerili tentativi; c’è tutto e il contrario di tutto.
La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia arriva dopo che la Macchina della Biennale ha già toccato altre terre, altri universi: il teatro, la danza… e l’arte, quest’anno a infarinare il tutto. Letteralmente: le idee piovono su chi cammina per le calli.
Ma, ecco, serve proprio una cosa: la gravità.
Ancorarsi, incarnare.
E’ la Performance, oggi, la buca profonda in cui si capisce che possiamo finirci tutti – tutti noi, colpiti e infettati da perfomancite acuta. Perché la performance è un’idea secca, ha il respiro del promo, della folgorazione – ad essere caustici direi: del meme fichissimo… Il suo valore è dovuto alla velocità: di fruizione, ma anche di realizzazione… dunque oggi sembra di vedere ovunque la tentazione di fare performance.
Anche la narrazione audiovideo sta correndo dietro alla voglia di performance? Ogni tanto viene il sospetto. Eppure la drammaturgia è tutt’altro; ha una complessità che ci chiama ad un attraversamento di deserti, di picchi aguzzi e vette inviolate – per poi cascare ancora e ancora in nuove valli e nuovi orizzonti.
Questi viaggi, lo sappiamo, siamo noi – che li scriviamo e che li viviamo come spettatori. Noi non possiamo restare sospesi in impercettibili sensazioni. Noi non siamo performance.
E dunque; c’è il viaggio perché c’è lei, la gravità. Lei trasmuta il pulviscolo; lo precipita, lo incarna.
L’idea deve camminare. Sanguinare. Avere fame, sete, sorridere, sperare. Deve vivere – come vive l’essere umano.
Ecco perché l’inizio dell’inizio parte da qui. Dalla valle dei tronchi rotolati fino a Venezia, dove il percorso si fa improvvisamente verticale.
Tra questi pendii ho incontrato tre persone, estramamente diverse tra loro, che condividono il lavorio sulla narrazione. Li ho cercti perché credo ci sia molto bisogno di incrociare lo sguardo con chi si occpa della nostra stessa materia – la narrazione – ma da punti di vista molto diversi.
Sono stati tre incontri davvero unici. Per la modalità, il posto, il momento.
Agosto ha questo di magico: dilata il senso del tempo. Le giornate sono lunghissime – come i pensieri. A volte hai la fortuna di incontrare le persone dove loro vorrebbero stare, e non dove devono. Così è andata, con loro. A tutti ho chiesto la stessa cosa: a che punto è la notte? è la domanda che qui ci facciamo da anni. Continuo a farla e farmela.
La prima persona sono andato a cercarmela in mezzo ad un bosco su per la montagna, guadagnandomi la meta a piedi, metro dopo metro di salita. Mi serviva il senso della fatica – fisica, tattile, incarnata. Perché questo fa la gravità: ti restituisce il peso delle cose, degli spazi, delle distanze.
Il secondo incontro è scivolato lungo il percorso di un torrente, davanti ad borgo scheggiato dal tempo.
Il terzo in una cucina-pranzo di montagna, semplice, rustica e sincera, ma con quel tocco di eleganza che racconta una storia dentro la storia.
Una responsabile di produzioni teatrali, un traduttore, un importante capostruttura del servizio pubblico in pensione.
La capacità di essere Brechtian-popolari (come diceva Strehler), l’importanza di vivere l’esperienza che ti sposta, ti cambia; la necessità dell’esattezza della parola e del potersi riconoscere nella passione del vivere; l’urgenza di ritrovare artisti veri, capaci di bucare le logiche dell’unica legge in vigore nei mezzi di comunicazione di ogni tipo, ovvero la legge del mercato. Questo quello che, in estrema sintesi, resta nel setaccio.
Tutti e tre mi hanno trasmesso un’urgenza: quella di essere e trovare autenticità.
Ecco perché il mio inizio dell’inizio parte da qui.
Perhè è la gravità a far cadere ciò che non serve, che non ha la forza per stare in piedi. La gravità serve a eessere sinceri. A che punto è la notte – nostra e del nostro mondo?
D’altronde, abbiamo attraversato un altro anno. Il fattore AI imperversa e comincia a disegnare scenari più marcati. In questi giorni WGI affronta il tutto continuando l’approfondimento cominciato lo scorso anno – con molto successo. La parola d’ordine è sempre la stessa: provare a capire. Senza preconcetti, senza ideologie. Barra dritta sull’uomo, sull’essere umano che vive ed esprime mondi; la AI la stiamo ancora studiando, in tutte le sue sfaccettature. Il 2 settembre ne parleremo diffusamente durante un convegno apposito, nello spazio delle giornate degli autori. Il 3, invece, promettiamo cose belle e importanti – ma a tempo debito…
E dunque: a che punto è la notte?
L’intento di questo spazio resta sempre lo stesso: far circolare idee, punti di vista. Possibilmente abrasivi, puntuti, acuti, singolari. Perché quel che ci serve è far circolare il sangue. E dunque ecco l’anonimità delle interviste – così chi parla ha davvero la massima libertà di dire tutto quel che pensa. E poi, certo, il tutto immerso nel mio modo di sentire e attraversare le cose – non per protagonismo, ma per precisa scelta “di metodo”: serve essere autentici, sempre, quando si scrive. Dunque io mi metto sempre in gioco, fino in fondo, cercando di pescare quel che c’è dentro e attorno. Per quel che riesco, ovvio.
E insomma, finite le note di metodo, il perché e il percome, si parte.
Gravità più o meno forte; percorsi in salita o in discesa o in piano che siano. Si parte.
E’ lungo il cammino che porta alla Mostra.