Bollettino n. 0
Diario di bordo. Giorno zero.
Tempo pessimo. Ci sono sentimenti che devi attraversare con il naso, con le mani.
Metti la pioggia senza speranza di un agosto votato alla morte, per dire. Un corrugato grigiastro al posto del verde smeraldo.
Lo spazio aperto tra le isole che diventa una terra di nessuno; ieri era la magia dei mari del sud ed ora è una attraversata da fare di corsa, con timore.
Tutto cambia. A volte rapidamente. Alla fin fine è una questione tecnica, verrebbe da dire meccanica: la bassa pressione collocata sul mar Ligure ha generato un vortice depressionario le cui lunghe dita sono arrivate qui, a chiudere la porta al caldo e a cambiare totalmente l’ambiente in cui siamo.
C’è sempre un motivo se il mondo cambia davanti ai nostri occhi
Le fronde stonfe dalla pioggia sbriciolano colori in forma di petali lungo tutto il canale.
Gli oleandri non sono insensibili a quei sei uomini che sotto il diluvio spingono una Caorlina rossa – sette metri di legno in fasciame e fondo piatto, adatto ai fondali bassi della laguna. Procedono con il loro ritmo. Le secchiate gli arrivano al traverso. Il canale che dal Casinò sbuca in laguna per ora protegge quel guscio di legno, ma i sei uomini alla voga sanno bene cosa li aspetta una volta fuori dal budello.
Il capitano del battello un po’ ha fretta, un po’ ha reverenza. Si mette in scia e aspetta che svolgano la loro fatica.
Chi frequenta le barche ha un codice di riconoscimento e di rispetto. Il capitano di un battello è un capitano. Punto. Lo puoi chiamare anche “capo”. (A Venezia i nomi indicano gerarchie. Ruoli. Perché un popolo di gente in barca sa che ogni termine deve corrispondere a qualcosa di preciso. Non c’è posto, in barca, per un fraintendimento).
Così il Capo non appena la sua prua mette il naso nel buco d’aria della laguna, accelera e passa.
Guardo la grande barca spinta dai sei vogatori sfilare via. Ad ogni spinta la prua fa il baffo. E’ grandiosa. E’ del tutto fuori scala dal contesto lidense, con il suo bel rosso che stinge nella distanza, scolorita dalla pioggia.
Ci vorrebbe Nolan a raccontarne l’epicità. Quella barca è una macchina del tempo. Nolan (o un animale scenico simile a lui) restituirebbe in un’esperienza immersiva lo sforzo titanico di quegli sparuti abitanti in lotta contro gli interessi famelici dei più.
Sono andati a protestare, quei vogatori. A farsi vedere per protestare. Perché si, la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica ha anche un’epidermide, una membrana in contatto con il mondo. Quel mondo si chiama Venezia – una città reale, con tutti i suoi problemi. Quei sei dannati alla pioggia, attraverso la loro protesta – timida ed epica allo stesso tempo – stanno funzionando come un cordone ombelicale che passa materiale vivo; da fuori a dentro.
Io, comodo nella scatola di ferro da diverse tonnellate, mi allontano veloce dalla figura esile ed eroica che sfida gli dei marini. Loro, nel legno, sono sotto raffica e vanno di traverso. Lottano. Si capisce.
Il battello passa accanto ad una bricola imbardata di corone funebri.
Ma certo. Poco tempo fa un ragazzo si è schiantato ed è morto contro quella bricola.
Ecco perché gli uomini della Caorlina rossa stanno facendo tanta fatica. Protestano per cambiare le cose. Per parlare del moto ondoso, di barche fuori controllo, di un paradiso diventato inferno.
Certo. Ma non solo.
Quella vogata dentro la pioggia è un rito. Un mantra.
Nel cadenzare lento ma costante del remo in acqua, raccontano l’inesorabile. Raccontano una Perdita. La Perdita di un mondo – viene da dire senza più nessun futuro da conquistare.
Ma la morte – quella reale, non cinematografica, di un ragazzo – è una perdita troppo enorme per non generare qualcosa.
E così il popolo d’acqua reagisce e si trova, fisicamente, a casa propria: l’acqua. A dire a tutti – cinematografari in testa – guardate che qui la vita è reale. Fuori dalla sala la realtà esiste.
Ed eppure.
Ci sono sentimenti che devi attraversare come fossero densi, stratificati nell’aria di vetro.
Sono dolori che non puoi scalare. Puoi solo cascarci dentro.
Ecco perché amiamo tanto il cinema, quando uno schermo fuori misura ci restituisce quel pozzo di dolore che abbiamo dentro, ma in formato extralarge.
Perché non siamo soli, ecco cosa. Noi e l’abisso, noi e la perdita, in quel momento non siamo soli. E ci caschiamo dentro, in quel viso gigante, in quel paesaggio, in quel mondo fuori scala tutto per noi.
Ci caschiamo dentro.
Perdere, perdiamo. A volte tutto.