The Witcher
Stagione 01
GERALT, THE WITCHER: IL VIAGGIO ALLA RICERCA DI LEGAMI
Dei tre protagonisti, quello centrale è senza dubbio Geralt di Rivia. È colui che dà il nome alla saga stessa, il witcher in persona: un cacciatore di mostri di professione.
Il suo mestiere già lo pone nella particolare condizione di una totale mancanza di legami e radici. Egli infatti è stato separato dalla propria madre in tenera età e adottato dalla confraternita della Scuola del Lupo. Ha passato poi la sua intera giovinezza ad addestrarsi per diventare un witcher, senza il minimo contatto con il mondo esterno.
Ogni apprendista witcher viene sottoposto poi a delle prove che gli richiedono di assumere delle sostanze mutagene. Ciò gli conferisce delle caratteristiche fisiche sovrumane, indispensabili per combattere i mostri, ma ha tremendi effetti collaterali irreversibili che si manifestano in caratteristiche fisiche innaturali e, soprattutto, provocano la perdita della fertilità. Per le suddette ragioni, i witcher possono essere considerati membri di un antico ordine che dedicano tutta la loro esistenza a proteggere l’umanità dalla minaccia dei mostri, ma al prezzo di essere completamente estraniati dalla stessa società che difendono.
Geralt compare all’inizio della storia, per l’appunto, in una situazione di totale sradicamento e solitudine. Egli non ha famiglia, giacché la madre lo ha abbandonato, e a causa delle sue mutazioni non è in grado di procreare. L’unico tipo di parentela che possiede sarebbe quella con i suoi confratelli witcher, tra cui c’è anche il suo mentore, ma raramente si riuniscono tra loro. Per deformazione caratteriale non ha neanche molti amici.
Geralt non ha neanche una patria. I witcher, essendo cresciuti in isolamento, non hanno alcun posto da chiamare casa, non sono inseriti in alcuna istituzione né posseggono alcuna cittadinanza. Il suo stesso appellativo “di Rivia” è inventato allo scopo di fare migliore figura con i clienti e, a detta dello stesso Geralt, di sopperire al suo disperato bisogno di radici[1].
Questi elementi sono necessari nella professione del witcher, giacché è un mestiere molto pericoloso, che richiede di viaggiare continuamente per la strada, di villaggio in villaggio, in cerca di un contratto di lavoro. Non offre alcuna stabilità economica né garanzia per il futuro e può facilmente risultare mortale. Un mestiere simile non consente di avere legami. La condizione di non avere una patria ha il vantaggio di permettere ai witcher di recarsi dovunque vogliano in cerca di lavoro, ma d’altra parte, precipita il protagonista in una condizione miserevole: è costretto a girovagare costantemente come un vagabondo per foreste, villaggi e città, senza mai potersi fermare a lungo in nessun posto e ogni volta che accetta un lavoro rischia la vita combattendo orribili creature, in genere per uno scarso compenso.
Geralt è anche vittima di forti discriminazioni a causa della sua natura di mutante. Benché egli abbia un aspetto umano in generale, le sue alterazioni fisiche, molto evidenti, ne tradiscono la vera natura. L’esistenza poi di varie leggende nere sui witcher, secondo le quali sarebbero il prodotto di magia oscura, e che siano privi di qualsiasi emozione, lo rende bersaglio di ostilità da parte del resto del mondo. Questo porta alla luce un altro dei temi fondamentali di The Witcher, particolarmente vicino alla nostra epoca: il razzismo. Nel presente universo esistono varie razze intelligenti oltre agli umani, come i classici elfi, nani, gnomi e altri. Ma se in altri universi fantasy come Il signore degli anelli le varie razze collaborano, seppur con qualche diffidenza, contro le forze del Male, in The Witcher la paura del diverso e l’ostilità nei confronti dell’Altro regnano incontrastate. All’interno della società, le minoranze non umane sono sottoposte a un vero e proprio regime di apartheid da parte della maggioranza umana[2]. Gli elfi, i nani, come anche i maghi, subiscono continue discriminazioni e soprusi, quando non delle vere e proprie violenze che possono sfociare facilmente in stragi e massacri. Trattati come cittadini di seconda categoria, i non umani fanno il possibile per cercare di sopravvivere in un mondo così spietato. Ci sono poi alcune frange di non umani che rifiutano completamente la società umana in nome della propria libertà, ma questa scelta li costringe a vivere di espedienti in enclave isolate nella natura selvaggia, sempre sotto la costante minaccia di estinguersi. La società di The Witcher crea grandi categorie di esclusi, che nella migliore delle ipotesi vengono tollerate, nella peggiore vengono perseguitate.
Geralt appartiene agli esclusi. È separato dalla società non solo dal punto di vista familiare, politico, economico e sociale, ma anche razziale. Ovunque egli si rechi viene trattato con diffidenza, quando non con aperta ostilità, da parte delle comunità locali. Non può nemmeno trovare conforto in una diversità identitaria come le altre categorie di non umani. Questi ultimi infatti, benché discriminati, hanno una famiglia in cui sentirsi valorizzati, o una comunità in cui riconoscersi. Seppur non integrati con gli umani, sono ben integrati fra loro e ciò gli conferisce un fondamento identitario. Geralt non ha nemmeno questo. I witcher non costituiscono un popolo e comunque tendono a viaggiare e a vivere soli. Si potrebbe quindi affermare che, tra tutti gli abitanti del suo universo immaginario, Geralt è il più emarginato di tutti. Da questo punto di vista, egli rientra a pieno titolo nella categoria degli Anti-eroi, ossia quel tipo di figure narrative che impersonificano una condizione di emarginazione[3].
Tale condizione è, d’altra parte, un utile espediente narrativo per consentire allo spettatore di esplorare ampiamente il presente mondo. Come già detto, il mestiere di Geralt lo costringe a viaggiare in lungo e in largo in cerca di un ingaggio. In questo modo, il lettore del libro e lo spettatore della serie televisiva possono vedere il mondo attraverso i suoi occhi. Se una delle caratteristiche fondamentali dell’Eroe di ogni storia è compiere un viaggio, Geralt viaggia di continuo, scoprendo molteplici realtà differenti: tra luoghi selvaggi infestati da mostri, villaggi di campagna, grandi città o castelli regali, il nostro witcher ci porta a conoscere il suo mondo come probabilmente non potrebbe fare se svolgesse un’altra professione.
Le necessità del mestiere portano Geralt anche a interagire con numerose realtà sociali. Egli ha a che fare con gente di ogni categoria e ceto: dai semplici contadini ai re, dai mercenari ai maghi, dai banditi ai cavalieri. Tutti possono avere bisogno, all’occorrenza, dei servigi di un witcher, poiché chiunque può cadere vittima di un mostro. Attraverso Geralt, lo spettatore incontra numerosi personaggi, ciascuno con un nome, la propria storia, il proprio carattere, la propria visione del mondo. In questo modo, lo spettatore apprende ad osservare questa realtà immaginaria da diverse angolazioni e acquisisce punti di vista differenti su una specifica questione.
La caratteristica di libera esplorazione viene notevolmente incrementata nei videogiochi, poiché tutti e tre i titoli fanno uso del sistema open-world. Ovvero un sistema in cui il giocatore può muoversi in un mondo virtuale completamente esplorabile in maniera del tutto libera. Mentre i lettori dei romanzi e gli spettatori della serie televisiva sono soggetti passivi, che possono solo assistere allo svolgersi della storia, i videogiocatori diventano dei soggetti attivi, in quanto possono decidere dove il protagonista va e che cosa fa. Grazie all’open world, il videogiocatore può decidere in maniera quasi del tutto autonoma quali posti del mondo visitare e in che ordine, quali personaggi incontrare e quali storie vivere.
La libertà di movimento però non è l’unico effetto prodotto dalla condizione di emarginazione di Geralt. Essa infatti dà vita a un’altra delle questioni fondamentali dell’interno franchise: la neutralità. Nel suo continuo peregrinare, a Geralt capita spesso di ritrovarsi coinvolto in dispute fra esseri umani e in genere, nel verificarsi di certe eventualità, la sua prima reazione è quella di non intromettersi. Una ragione di questo suo comportamento sono gli insegnamenti che ha ricevuto presso la confraternita: i witcher devono interessarsi soltanto al proprio mestiere e a nient’altro. Del resto, non avendo patria né famiglia né alcun altro tipo di legame con la società, non sono affatto tenuti a prendere posizione in una qualsivoglia disputa, sia essa personale, familiare, politica, o di altro genere.
Ma soprattutto, la posizione di neutralità di Geralt costituisce un eccellente metodo per fornire al pubblico uno sguardo distaccato sulle vicende che si svolgono attorno al protagonista. Infatti, quando altri personaggi tentano di coinvolgerlo nelle proprie contese, non mancano mai di esporre il proprio punto di vista. Attraverso la posizione distaccata di Geralt lo spettatore, come anche il videogiocatore e il lettore, possono analizzare i vari punti di vista su una questione e fare le proprie considerazioni su chi abbia ragione e chi torto. Un esempio fondamentale è dato dall’intreccio de L’inizio della fine: il mago Stregobor chiede a Geralt di uccidere la giovane Renfri, perché a suo parere è una donna malvagia frutto di una maledizione; in seguito, la stessa Renfri chiede al witcher di uccidere Stregobor, per vendicarsi degli abusi che in passato aveva subito dal mago. Geralt tuttavia non accetta né l’una né l’altra richiesta. Si mantiene neutrale. Egli guarda attraverso i discorsi sibillini di Stregobor e la sete di vendetta di Renfri e rivela allo spettatore che sono entrambi in errore: non è giusto volere la morte di una persona a causa di una superstizione, ma anche la vendetta è sbagliata. In questo caso, Geralt arriva anche a suggerire a Renfri una soluzione inedita: andare via, rinunciare alla vendetta e vivere la propria vita.
Se l’atteggiamento neutrale di Geralt aiuta lo spettatore ad acquisire un maggiore grado di consapevolezza, allo stesso tempo tuttavia, nemmeno il nostro protagonista può offrire una visione completamente obiettiva. Egli infatti non è onnisciente e non può offrire nulla di più del proprio punto di vista, anche esso parziale per definizione e quindi passibile di essere fallace. Attraverso la neutralità di Geralt, lo spettatore acquisisce un punto di vista maggiormente vicino alla verità, ma comunque privo di assolute certezze. Il dubbio latente per cui una decisione potrebbe essere sbagliata, pur con tutte le informazioni acquisite, non viene mai meno. Si conferma così uno dei fondamenti di The Witcher: l’assenza di certezze.
Lo stesso protagonista è ben consapevole delle contraddizioni che affliggono il suo mondo. Geralt sa di vivere in un ambiente crudele, dove Bene e Male sono difficili da distinguere e, il più delle volte, la sola scelta possibile è fra due Mali. Proprio qui si cela la ragione fondamentale del suo atteggiamento neutrale: egli non vuole diventare complice del Male. In L’inizio della fine, Renfri e Stregobor cercano di costringerlo a scegliere tra due Mali, entrambi adducendo il pretesto del “Male minore”, ma Geralt offre una risposta eloquente: «Se devo scegliere tra un male e un altro, preferisco non scegliere affatto». La motivazione della sua scelta deriva dal fatto che è una persona dall’animo fondamentalmente buono. Ciò riporta al tema tipico di The Witcher secondo cui le apparenze ingannano: il freddo cacciatore di mostri dall’aspetto innaturale, discriminato dalla società, si rivela avere più coscienza e buon senso della maggior parte delle persone “normali”. Geralt ha l’intelligenza, e anche la coscienza necessaria, per comprendere che in un mondo dove regnano l’avidità, la meschinità, l’odio e affini, spesso l’unica maniera per mantenere la propria integrità è non agire.
Un altro tema centrale del franchise è proprio l’interrogativo su chi siano i veri mostri: se le creature affrontate dai witcher o i comuni esseri umani. Non bisogna dimenticare che la sofferenza e l’ingiustizia del presente mondo non calano dal cielo, ma sono fondamentalmente il risultato di azioni umane. Come già detto, le persone tendono verso l’egoismo. Guidati dall’avidità, dalla sete di potere, dall’invidia, dalla vendetta, o da qualunque sentimento comunemente considerato immorale, compiono le più disparate azioni malvagie, come il furto, il tradimento, la violenza, etc. Gli esseri umani diventano in questo modo difficili da distinguere dai mostri.
Ciò deriva anche dalla diversa caratterizzazione che i mostri hanno all’interno di The Witcher rispetto ad altri classici del fantasy, come Il signore degli anelli. Solitamente, nel genere fantasy, i mostri sono rappresentati come creature malvagie, con lo scopo specifico di fare danno al genere umano. In un tale contesto, il confine è netto e preciso: i mostri, in quanto incarnazioni della barbarie, della malvagità e di tutto ciò che è negativo, sono contrapposti alla civiltà, alla bontà e alle altre virtù umane. Ma in The Witcher non è così. Qui i mostri, seppur spaventosi e pericolosi, non sono creature malvagie, ma semplici animali. Essi agiscono seguendo la propria natura, non allo scopo intenzionale di fare del male. Possono naturalmente causare la morte di persone, e quindi infliggere dolore, ma in genere lo fanno perché guidati da istinti perfettamente naturali, come nutrirsi, difendersi o riprodursi. Lo vediamo nel caso della kikkimora contro cui Geralt combatte all’inizio del primo episodio: esso affronta il witcher semplicemente perché lui ha invaso il suo territorio.
Molto interessante è il fatto che a volte la caratterizzazione dei mostri raggiunge un notevole grado di complessità, fino a renderli dei veri e propri archetipi. Un ottimo esempio è la striga del terzo episodio, Luna traditrice, chiaro esempio dell’archetipo dell’Ombra[4]. La striga non è altro che una figlia mai nata, frutto di un incesto tra fratello e sorella, generata da una maledizione scagliata per gelosia. Essa è quindi il risultato di tragedie provocate dalla sorte, peccati inconfessabili e azioni immorali. Tutte cose che si cerca di nascondere nel profondo dell’oscurità, solo per rendere l’oscurità stessa il reame del mostro. Difatti la striga di giorno dorme all’interno di un sepolcro, per uscire di notte a dare la caccia alle creature viventi, come fosse la punizione per quegli stessi peccati che hanno portato alla sua creazione. Così il mostro diventa una prova vivente degli effetti che le azioni immorali possono provocare.
Un altro esempio di mostro-archetipo è il drago Villentretenmerth, comparso nel sesto episodio, Specie rara. Egli è un mostro sorprendentemente “umanizzato”, in quanto è capace di pensare e parlare, e persino di assumere un aspetto umano. Il suo scopo è proteggere la propria progenie dall’avidità degli uomini che vorrebbero portargliela via e cerca l’aiuto di Geralt, perché consapevole della sua bontà d’animo. Il witcher, riconoscendo la nobiltà del suo scopo, si schiera dalla sua parte e lo aiuta a proteggere il suo uovo. Per riconoscenza, Villentretenmerth dispensa dei preziosi consigli a Geralt e anche a Yennefer, incoraggiandoli a proseguire nel loro viaggio. Il mostro della storia diventa così non solo un alleato, ma addirittura assume il ruolo di Mentore per i protagonisti[5].
Gli esempi sopra citati offrono la spiegazione di come i mostri in The Witcher agiscano in base alla propria natura, e di come a volte possano essere persino degli elementi positivi. Gli esseri umani invece agiscono per malizia e per questo l’intero franchise offre l’impressione che siano proprio questi ultimi gli autentici mostri contro cui Geralt, cacciatore di mostri per professione, si ritrova a combattere. Perciò all’inizio di una vicenda è portato a non schierarsi, perché farlo significherebbe farsi complice del Male e diventare un mostro egli stesso. Tuttavia egli, in quanto protagonista della storia, non può non agire.
Come spiega bene Chris Vogler nel suo saggio Il viaggio dell’eroe, una delle funzioni fondamentali dell’Eroe di ogni storia è quella di agire[6]. Se Geralt si limitasse a mantenersi neutrale e a non fare nulla, semplicemente non sarebbe l’Eroe. Perciò, anche se in genere all’inizio cerca di non farsi coinvolgere nelle controversie tra esseri umani, in seguito finisce con l’intromettersi[7]. Come in L’inizio della fine, nel quale Geralt arriva a combattere e uccidere Renfri, nonostante il suo rifiuto iniziale. Curiosamente, è proprio la sua fondamentale bontà d’animo, che in un primo momento lo spinge a mantenersi neutrale, a esortarlo ad agire in seguito. Egli si sottopone spesso a rischi mortali frequenti, al puro scopo di fare del bene o per lo meno di impedire il compiersi di un male. Nel sopracitato episodio, Geralt interviene per impedire che Renfri faccia del male alla popolazione di un villaggio per la sua sete di vendetta; in Luna traditrice combatte contro la striga allo scopo di guarire la ragazza dalla maledizione anziché ucciderla; anche nel quinto episodio, Desideri incontenibili, interviene per salvare la vita di Yennefer, pur non avendo alcun obbligo nei confronti di lei. L’elenco potrebbe proseguire. In ognuno dei casi sopracitati, Geralt agisce per ragioni fondamentalmente altruistiche, senza aspettarsi nulla in cambio. Soprattutto bisogna rammentare che egli non ha alcun vincolo nei confronti delle persone che aiuta. Il suo agire, di conseguenza, deriva da una scelta completamente libera, dettata dalla coscienza. Geralt, seppur controvoglia, è uno dei pochi che riesce a diffondere un po’ di luce nel suo oscuro mondo.
Eppure, anche in certi casi l’universo di The Witcher non manca di rivelare le proprie latenti contraddizioni. In L’inizio della fine, Geralt uccide Renfri per proteggere gli abitanti del villaggio, ma questi ultimi lo ringraziano bersagliandolo di pietre e bandendolo. Inoltre, uccidendo Renfri, Geralt si schiera involontariamente dalla parte del cinico Stregobor, che in un atto di scherno gli dice: «Hai fatto una scelta. E non saprai mai se era quella giusta». Il witcher, per l’appunto, non ha la certezza di aver compiuto davvero la scelta migliore: ha impedito un probabile massacro, ma ha pur sempre commesso un omicidio, e lo ha fatto per salvare una folla di sconosciuti che lo hanno ripagato con lanci di pietre e insulti. Ha anche indirettamente aiutato un mago talmente senza scrupoli da compiere esperimenti sul corpo di giovani donne. Lo spettatore resta nell’incertezza, poiché non c’è modo di sapere come sarebbero andate le cose se il protagonista avesse fatto una scelta diversa. Per fortuna o purtroppo, nell’universo di The Witcher, molto realistico in questo, non è possibile prevedere con sicurezza gli esiti di un’azione, o tutte le possibili conseguenze di una scelta. Anche da un’azione compiuta con buone intenzioni, si può generare il Male. Per lo meno, fortunatamente, l’integrità di Geralt viene salvata dalla sua bontà d’animo: grazie ad essa egli non diventa uguale ai mostri, anche quando le sue azioni non sortiscono gli effetti sperati.
Questo tema è profondamente sentito anche nei romanzi, nei quali gli eventi non sono mai raccontati dal punto di vista del narratore onnisciente. Ma è nei videogiochi che la questione della scelta e delle conseguenze viene particolarmente enfatizzata: essi usano infatti il sistema della trama non lineare. Attraverso tale sistema, l’intreccio non segue un singolo percorso obbligato come in un romanzo o un film, ma è il giocatore stesso a poter decidere lo svolgersi della storia, scegliendo tra diverse possibilità. Nel corso delle missioni del gioco (gergalmente definite quest) l’utente si trova davanti a diversi “bivi” narrativi, nei quali deve scegliere una linea di dialogo tra diverse opzioni oppure che tipo di azione compiere. A seconda della scelta compiuta dal giocatore, la quest terminerà in un modo piuttosto che in un altro e si manifesteranno effetti differenti nel mondo del gioco. La trama perde quindi la caratteristica di linearità che ha invece, ad esempio, in un libro. Grazie alla trama non lineare, le scelte del giocatore acquisiscono una grandissima importanza, poiché diventano momenti plasmanti dell’esperienza stessa del gioco. Facendo certe scelte piuttosto che altre, il giocatore può vivere storie ed esperienze narrative anche radicalmente diverse e sentirsi ancora più un soggetto attivo plasmando il mondo di gioco intorno a sé.
Come negli altri prodotti, anche nel mondo virtuale regna l’ambiguità morale. Il confine tra il bene il male viene ridefinito e l’accento viene posto sulla storia e sullo sviluppo dei personaggi[8]. I videogiochi di The Witcher tuttavia, aggiungono un elemento alla personalità del protagonista di notevole interesse narrativo: la perdita della memoria.
Come già detto, i videogiochi trattano una storia integralmente nuova: all’interno di essi si possono trovare numerosi riferimenti ai romanzi, ma, per il resto, non hanno nulla a che fare con le opere originali di Sapkowski, tranne di essere ambientati nello stesso universo. Durante la lavorazione del primo titolo, gli sceneggiatori si sono ritrovati con un problema. In genere nei videogiochi fantasy action RPG, il protagonista viene creato ex novo: è un soggetto mai visto prima, di solito modificabile anche nell’aspetto fisico, e non ha un vero e proprio passato vissuto, ma solo un rapido background. Al giocatore viene dato il potere di plasmare sia l’aspetto che il carattere del proprio alter ego, in modo che possa immedesimarsi al meglio e godere appieno l’esperienza videoludica. The Witcher, come già indicato, dà al giocatore anche la possibilità di scegliere tra diversi percorsi narrativi, secondo il principio della trama non lineare.
Ma nel caso del gioco suddetto il protagonista, Geralt, non è un personaggio creato ex novo. È anzi un soggetto già ben definito, sia nell’aspetto fisico che soprattutto nel carattere e nella personalità. Il problema per la CD Projekt RED era quindi in che modo trasportare un personaggio già costituito in una nuova storia, e allo stesso tempo lasciare al giocatore la libertà di scelta narrativa, senza snaturare il personaggio stesso. La soluzione è stata trovata con l’espediente della perdita della memoria.
L’inizio del primo gioco mostra Geralt che scappa da un nemico misterioso. Viene soccorso dagli altri witcher ma, anche dopo aver riacquisito le forze, si rende conto di non ricordare quasi niente: non rammenta praticamente nulla del suo passato, come anche molti dei suoi cari. L’espediente dell’amnesia è quindi molto utile per fare “tabula rasa” della vita precedente del personagio, che è la storia narrata nei romanzi. Altrimenti, soltanto chi avesse letto le opere di Sapkowski avrebbe potuto immedesimarsi appieno nel gioco, quando la CD Projekt RED mirava chiaramente a raggiungere un pubblico molto più ampio. Oltretutto, a causa dell’amnesia, Geralt è costretto a dover “reimparare” il mestiere del witcher, come anche l’identità delle persone a lui care e le varie informazioni sul suo mondo. In questo modo, anche il giocatore inesperto dei libri può tranquillamente familiarizzare con l’universo di gioco. L’amnesia di Geralt è un brillante espediente per “azzerare” nel carattere un protagonista già dato, in modo tale che il videogiocatore possa reinventarne la personalità e avere quindi la copertura narrativa per compiere le proprie scelte in maniera libera.
Nei primi due videogiochi, uno dei compiti principali di Geralt consiste proprio nel recuperare la memoria, al fine di comprendere meglio sé stesso. Per riuscirci viene incoraggiato a prendere delle posizioni, ossia a compiere delle scelte, in modo che il suo carattere si rafforzi e questo aiuti i ricordi a riaffiorare. Sono quindi le scelte stesse del giocatore a determinare la personalità del nuovo Geralt. L’ostacolo del personaggio già costruito viene brillantemente aggirato. Allo stesso tempo, il protagonista non ne risulta snaturato, poiché anche nel videogioco Geralt mantiene alcuni tratti fondamentali del proprio carattere: la tendenziale bontà d’animo e l’atteggiamento distaccato. Questo perché nei videogiochi Geralt assolve la stessa funzione che ha nei romanzi e nella serie televisiva: esplorare le varie sfaccettature del suo mondo e mostrarci le sue contraddizioni da un punto di vista imparziale. Senza tale funzione, il ruolo del giocatore come conduttore in prima persona della storia ne risulterebbe gravemente limitato.
Nel secondo titolo della serie videoludica, The Witcher 2: Assassins of kings, il tema del recupero della memoria da parte di Geralt è ancor più centrale ai fini della trama. Nel corso del gioco infatti, il witcher recupera la memoria a poco a poco fino a ricordare il suo intero passato. Sarà così che si rammenterà dei due affetti più importanti della sua vita: Yennefer e Ciri.
Le due persone in assoluto più importanti per Geralt, esse sono entrate a far parte della sua vita quasi per accidente, e in entrambi i casi si ha l’impressione che l’incontro sia voluto da forze più grandi di loro. Nella serie televisiva, Yennefer compare nel quinto episodio, Desideri incontenibili, ispirato al racconto L’ultimo desiderio[9]. In tale episodio, l’incontro tra Geralt e Yennefer è dettato dalla pura necessità, poiché il bardo Ranuncolo, amico di Geralt, ha bisogno di cure magiche. All’inizio il rapporto tra il witcher e la maga è all’insegna del sospetto e dell’astio. In seguito, Yennefer diventa addirittura un’antagonista, poiché tende una trappola a Geralt e a Ranuncolo, allo scopo di impadronirsi di un jinn, una potente creatura magica. L’impresa però le sfugge di mano e la ritrova in pericolo di vita. L’unico che può salvarla è Geralt, il quale deve esprimere un desiderio al jinn. Il witcher, anche in questo caso, non è tenuto ad agire; potrebbe tranquillamente disinteressarsene, specialmente considerando il fatto che Yennefer lo ha ingannato. Ma, come al solito, si lascia coinvolgere e, per impedire che il jinn si vendichi su Yennefer, esprime il desiderio di legare i loro destini. Il suo nobile gesto fa sbocciare l’amore tra i due.
Il legame tra Geralt e Ciri pare ancora di più generato da un potere superiore, poiché ha origine grazie alla Legge della Sorpresa. Tale contratto magico viene menzionato nel quarto episodio, Banchetti, bastardi e sepolture, a sua volta ispirato al racconto Una questione di prezzo[10]. Nell’episodio, dopo che Geralt ha salvato la vita a Duny, il padre di Ciri, questi chiede di potersi sdebitare e, in risposta, il witcher invoca la Legge della Sorpresa, che recita: «Vi chiedo ciò che già possedete e di cui non sapete ancora»: un bambino, di cui i genitori ancora non conoscono l’esistenza. Un attimo dopo che il witcher ha pronunciato la formula, la moglie di Duny rimette, rivelando di essere in attesa, per lo stupore dello stesso Geralt. Quando la Legge della Sorpresa viene invocata, il bambino oggetto della richiesta sarà per sempre legato a colui o colei che l’ha pronunciata. Si origina così il legame tra Geralt e Ciri, ancora prima che quest’ultima venga al mondo.
Sia nel caso di Yennefer che in quello di Ciri abbiamo due vincoli generati per Magia o, più precisamente, per Destino. Il che solleva numerosi problemi. Il Destino, in quanto forza che agisce al di fuori della volontà delle persone, può essere rigettato da queste ultime. Difatti, Geralt e Yennefer vivono una relazione molto tormentata, fatta di abbandoni, ritrovi, litigi e tradimenti reciproci, senza però che il sentimento che li lega venga mai meno. Allo stesso modo, nella fantasia come nella realtà, il Destino può essere ostacolato dal mondo esterno: Ciri trascorre l’intera prima stagione della serie TV alla ricerca di Geralt, affrontando mille ostacoli, braccata da uomini pericolosi, per poi trovarlo finalmente soltanto alla fine dell’ultimo episodio.
All’interno del secondo libro, nel racconto Qualcosa di più, Geralt arriva anche a domandarsi se il Destino esista davvero e se valga la pena credere in qualcosa. Ma i personaggi dell’universo di The Witcher non trovano certezze a cui aggrapparsi per dare un senso alla propria vita. Nel racconto citato, Geralt visita numerosi posti e parla con varie persone, domandandosi se il Destino possa davvero portare insieme le persone. Perché nella risposta potrebbe celarsi la fine della sua solitudine, e avere finalmente qualcuno nella propria vita. Almeno per questa volta, il racconto ha un lieto fine: al termine della strada egli trova il suo autentico Destino, Ciri, ad attenderlo[11].
In effetti, la principale prova che Geralt viene chiamato ad affrontare nel corso del suo viaggio è proprio quella di forgiare dei legami. All’inizio della serie TV, egli appare come rassegnato ormai alla propria condizione di esclusione e solitudine. È il suo Mondo Ordinario, ossia il suo contesto di partenza, la sua zona di comfort. Vagare di luogo in luogo, vivere sulla strada e uccidere creature orribili per denaro, per quanto per lo spettatore sia decisamente straordinario, per Geralt è la realtà quotidiana, l’unica vita che conosce. Dopo lungo tempo egli si è abituato alla vita del witcher e ha accettato il fatto che sarà per sempre solo. Geralt cerca perciò di essere neutrale non solo nei confronti delle altre persone, ma anche da sé stesso e dalle proprie emozioni, come si evince dal suo contegno costantemente freddo e indifferente. Mostra continuamente un’espressione di ghiaccio, tanto da apparire come un individuo del tutto privo di emozioni. Cerca di tenere tutti lontano, attraverso un atteggiamento molto diretto e indelicato verso chiunque tenti di entrare in contatto con lui, come ad esempio il bardo Ranuncolo, che vorrebbe essergli amico. Egli stesso afferma, nel quinto episodio, Desideri incontenibili, che il suo unico desiderio è di avere “un po’ di pace”.
Il witcher, insomma, pare ormai rassegnato al suo destino di solitudine e a non voler fare nulla per cambiarlo. Ma il suo atteggiamento serve in realtà a nascondere il suo desiderio, e anche la paura, di avere qualcuno da amare e che possa amarlo. Proprio per questa ragione Geralt è il protagonista e l’Eroe della storia: egli rappresenta l’ineliminabile pulsione ad amare ed essere amati, comune a tutto il genere umano. Questo fattore contribuisce ulteriormente a renderlo il personaggio più “umano” di tutti e a far entrare lo spettatore in empatia con lui.
La grande umanità di Geralt però, implica anche un’altra caratteristica tipica di tutto il genere umano: l’imperfezione. Essa si manifesta in lui tramite la contraddizione tra il desiderio di amore e la paura del medesimo. È proprio quando nella sua vita si affacciano dei legami che egli lascia il proprio Mondo Ordinario e riceve il Richiamo all’Avventura, secondo la formula del Vogler[12]. Ma Geralt è un Eroe riluttante e quindi, almeno all’inizio, rifiuta il Richiamo. Perché per lui significa addentrarsi in un terreno sconosciuto, esporsi a una possibile delusione, ma soprattutto, alla necessità di cambiare. Difficile pensare a qualcosa di più spaventoso.
Per le suddette ragioni Geralt acquisisce un duplice atteggiamento nei confronti dei suoi due principali legami, Yennefer e Ciri. Li cerca ma allo stesso tempo li evita. Chiede al jinn di legare il proprio destino a quello di Yennefer perché innamorato di lei, ma il giorno dopo lui scappa via. In seguito continuano a ritrovarsi, senza però che, almeno per il momento, la loro relazione abbia alcuno sbocco. Lui stesso invoca la Legge della Sorpresa nel quarto episodio, quasi con atteggiamento di burla, per poi rinunciare al bambino nell’attimo in cui si rende conto che il Destino ha accolto il suo desiderio.
Geralt insistentemente rifugge il Destino perché ne ha paura e, da questo punto di vista, è il peggior nemico di sé stesso, perché in questo modo si condanna ad un’esistenza fatta di dubbi, senso di colpa e rimpianto. Ma, alla fine, grazie anche ai consigli degli amici, decide di accettare il legame fra lui e Ciri e si avventura alla sua ricerca per proteggerla. Dopo numerose peripezie, i due si incontrano giusto alla fine dell’ultimo episodio, Molto di più, e si abbracciano. La trasformazione interiore di Geralt si è finalmente avviata: egli non è più un semplice cacciatore di mostri per denaro che guarda al mondo con occhio disincantato; ha trovato il coraggio di creare e accettare un legame e da quel momento in poi il suo scopo sarà di proteggere quel legame.
Lo scopo autentico di Geralt è dunque quello di proteggere i propri cari, tema che è al centro anche del terzo videogioco The Witcher 3: Wild Hunt, il titolo della CD Projekt RED che più di tutti si rifà ai libri. In esso, Geralt ha completamente riacquisito la memoria e il suo scopo diventa quello di ritrovare Yennefer e Ciri e proteggerle dalla pericolosissima Caccia Selvaggia. Anche nei romanzi, dopo che Geralt ha ritrovato Ciri alla fine de La spada del destino, tutto il seguito della storia è incentrata sul legame tra loro due e sulla necessità di proteggere la ragazza.
In ultima analisi bisogna sottolineare il fatto che, nonostante il Destino svolga un ruolo importante nella creazione dei legami di Geralt, il ruolo della scelta non perde la sua importanza. Anzi, essa è il veicolo attraverso il quale agisce l’amore, l’unica forza in grado di lenire la sofferenza del mondo e regalare un minimo di felicità. Yennefer e Geralt divengono destinati l’uno all’altra perché lui sceglie di salvarle la vita, guidato dall’amore per lei. Allo stesso modo, Geralt riesce a ritrovare Ciri anche in mezzo alla devastazione di una guerra perché ha scelto di amarla e accettare il suo amore. In questo modo, tramite la scelta, l’amore fa realizzare il Destino. E addirittura va oltre. Perché come viene detto nel secondo romanzo, il Destino non basta ad unire due persone. Non si realizza da solo, in maniera automatica. Affinché si avveri occorre qualcosa di più: l’amore e il coraggio di agire.
Yennefer e Ciri, in definitiva, non sono il Destino di Geralt. Ma qualcosa di più.
[1] A. SAPKOWSKI, Qualcosa di più, in La spada del destino, Editrice Nord, Milano, 2011, p. 414. In seguito, nel romanzo Battesimo del fuoco, tale titolo verrà “ufficializzato” da Meve, regina di Lyria e Rivia, per i servigi resile da Geralt.
[2] In verità, nel mondo di The Witcher esistono dei reami, come l’impero di Nilfgaard, in cui i rapporti tra umani e non umani sono migliori, ma si tratta di luoghi in cui il nostro protagonista non si reca mai e con cui quindi lo spettatore non ha diretto contatto. Non bisogna tra l’altro dimenticare il fatto che nei suddetti paesi si verificano in compenso altri tipi di ingiustizie, come lo stato di soggezione in cui versano i maghi nel caso della stessa Nilfgaard.
[3] C. VOGLER, Il viaggio dell’eroe, Dino Audino Editore, Roma, 1999, p. 31
[4] Ivi, p. 61
[5] Ivi, p. 44
[6] Ivi, p. 29
[7] Ivi, p. 31. Da questo punto di vista, Geralt è un tipico esempio di “Eroe riluttante”. Ossia quel tipo di eroi recalcitranti, pieni di dubbi e incertezze, passivi, che hanno bisogno di essere stimolati o di venire spinti all’avventura.
[8] Non per niente, una delle tag-line del primo titolo, The Witcher (2007), è «Non esiste il bene o il male, solo decisioni e conseguenze».
[9] A. SAPKOWSKI, L’ultimo desiderio, in Il guardiano degli innocenti, Editrice Nord, Milano, 2010, p. 287
[10] A. SAPKOWSKI, Una questione di prezzo, in Il guardiano degli innocenti, cit., p. 161
[11] A. SAPKOWSKI, Qualcosa di più, cit., p. 438
[12] C. VOGLER, Il viaggio dell’eroe, cit., p. 70