Servirebbe un galateo del pitch
Barbara Petronio è la produttrice creativa di “A casa tutti bene” la nuova serie tv Sky
A pochi giorni dal successo riscontrato in Sala Petrassi, dove è stata presentata al pubblico durante la Festa del Cinema di Roma, la nostra socia Barbara Petronio ci racconta com’è nata – a seguito del film omonimo – la serie “A casa tutti bene”, diretta da Gabriele Muccino e da lui scritta insieme a Barbara – che ricopre anche il ruolo di produttore creativo -, Andrea Nobile, Gabriele Galli, Camilla Buizza. Gli otto episodi del family drama saranno disponibili su Sky e in streaming su Now a partire dal prossimo dicembre.
L’idea della serie “A casa tutti bene” era maturata già ai tempi del set dell’omonimo film del quale è il reboot. Già allora Gabriele Muccino aveva percepito che i personaggi avessero tanta benzina da reggere uno sviluppo seriale. Purtroppo, però, mantenere il cast originale, nonostante la disponibilità di tutti gli attori, si è rivelato un progetto irrealizzabile poiché non si riusciva a far combaciare le rispettive agende.
In quel momento sono arrivata in Lotus (in qualità di produttore creativo, ndr) e così ho provato a sviluppare la serie. Mi hanno chiesto di creare una writing room e ho scelto un team di scrittori bravissimi che conoscevo molto bene e dei quali conoscevo soprattutto le potenzialità. Si è deciso quindi di realizzare un reboot, non potendo avere a disposizione il cast originario e allora abbiamo preso la linea della famiglia di ristoratori e l’abbiamo utilizzata come perno centrale. D’altronde la storia, come è tipico dello stile mucciniano, si basa sui non detti e sui conflitti interni alla grande famiglia. Una volta che abbiamo delineato l’idea, sono seguite numerose riunioni orientate allo studio delle scelte narrative.
Nella serie è presente un’avvincente linea thriller, genere che Muccino non aveva ancora mai esplorato. Com’è nata questa idea?
E’ stata una proposta della writing room che Gabriele ha subito accolto. Da tempo lo solleticava l’idea di avvicinarcisi ma mentre non si sentiva pronto a sviluppare un film di genere, tradurlo in uno dei registri della serie gli è sembrata una soluzione ottimale. Il mix dei conflitti interni tra i personaggi, le liti e le incomprensioni, ha portato quindi a tirar fuori un bel materiale, avendo la possibilità di sviluppare le loro dinamiche nell’arco di 8 episodi.
Come ha lavorato la writing room?
Abbiamo fatto periodicamente delle riunioni per tenere Muccino aggiornato sulle varie evoluzioni. Se le linee lo convincevano, si proseguiva spediti, altrimenti rimodulavamo alcuni passaggi o aspetti. Devo dire però che la scrittura è andata piuttosto liscia. Gabriele ha apportato piccoli aggiustamenti, per sentirlo suo, il progetto. Com’è naturale che accada. Poi è arrivato ad essere così entusiasta del risultato che, nonostante da contratto dovesse dirigere solo i primi due episodi, ha deciso di firmarla interamente, e per dirigere tutta la serie ha fatto anche importanti cambiamenti nella sua agenda. Si è così appassionato alle vicende dei personaggi, che ha seguito in prima persona anche il casting. Ha voluto scegliere i collaboratori, non voleva delegare nulla ad altri, per paura che deviassero dalla linea originaria. Tutte le decisioni però sono state condivise in maniera aperta e collaborativa. Io stessa sono stata coinvolta da Sky e da lui anche nel casting. È stato un bel lavoro di squadra.
La serie è stata scritta in lockdown, ma le sceneggiature sono state realizzate in tempi rapidi e completate entro Natale. Quindi, visto che il set è iniziato a marzo, il regista ha avuto tutto il materiale a disposizione, senza ritardi. Adesso stanno realizzando la seconda serie e anche di questa io sarò produttore creativo ma non so se riuscirò a scrivere, mentre della prima serie ho scritto i primi due episodi.
Muccino come ha strutturato i provini?
Il casting è durato circa due mesi. Gabriele ha chiesto ai vari attori di interpretare scene nuove, scritte da noi per la serie, ma anche scene originali del film, per vedere quanto collimassero con i personaggi originari.
Perché avete deciso di utilizzare come perno della serie il ristorante?
Nel film si parlava del fatto che fosse una famiglia di ristoratori, ma non era stata sfruttata come linea perché l’unità di luogo era stata offerta dalla villa sull’ isola. Noi però, non potevamo usare lo stesso escamotage, perché per ambientarci una serie, avremmo dovuto fare delle compressioni narrative difficilmente gestibili. E allora abbiamo optato per il ristorante, quale epicentro delle vite e delle dinamiche. Abbiamo scelto che questo fosse di livello e romano. Intorno a questo ruota la grande famiglia, con le sue ramificazioni con i conflitti e le differenze, non solo comportamentali, ma anche economiche. Come nel film, abbiamo ripreso il filone della famiglia Mariani, frustrata dall’insuccesso. E ci siamo entusiasmati vedendo la location, una villa a Monte Mario, capace di raccontare una Roma differente, una Roma d’élite.
Con quali criteri hai creato la writing room?
È stata un’idea dettata dall’istinto. Andrea Nobile, Gabriele Galli e Camilla Buizza non si conoscevano tra loro, ma io conoscevo ognuno di loro molto bene. E soprattutto ne conoscevo le doti caratteriali. Ero sicura che avrebbero lavorato bene in un contesto simile. Cercavo colleghi che avessero un approccio di servizio alla storia perché avrebbero dovuto confrontarsi con un regista di cinema che non ha confidenza con il mezzo televisivo e che ha scritto il film. Ci voleva quindi una particolare sensibilità nei confronti dell’autore. E devo dire che sono andati d’amore e d’accordo. Tanto che la scrittura è stata molto veloce e le idee sono state approvate e sviluppate in tempi rapidi. Adesso sono già al lavoro sulla seconda stagione. Per me, devo dire, coordinarli è stato semplice. Si è creata in poco tempo l’alchimia tra loro e hanno imparato a conoscere Muccino. In più, i tre sceneggiatori sono diventati amici.
E il regista, che è anche sceneggiatore, oltre che autore del film dal quale è tratta la serie, come si è interfacciato con il gruppo? E con te?
Io l’ho conosciuto in occasione dei David. È stato proprio lui a consegnarmi il David per il film Indivisibili. Quindi si può dire che non lo conoscessi. Quando ci siamo trovati a lavorare insieme, abbiamo iniziato in maniera soft, per capire cosa lui volesse dalla serie, dove volesse andare. Si è mostrato molto aperto. Alle suggestioni e alle nostre proposte, rilanciava con altre idee. Non abbiamo avuto particolari problemi poiché caratterialmente eravamo un gruppo tendente alla risoluzione dei problemi, nessuno di noi – lui compreso – si è impuntato. D’altronde appunto, stavamo adattando il film che lui aveva scritto e diretto. Avevamo presente che stavamo sviluppando la sua idea, lo abbiamo rispettato. Lui, devo ammettere, si è fatto portare su terreni inconsueti, fidandosi. Oltretutto abbiamo avuto modo di scoprire che è un discreto fruitore di serie tv. Ne aveva quindi una buona conoscenza da spettatore. E’ stato bravo, a mio avviso, ad adattare le sue doti registiche al linguaggio del differente mezzo. Ha portato in tv il suo registro, nonostante i tempi televisivi siano nettamente compressi rispetto a quelli cinematografici. Infatti alla fine delle riprese, era esausto. Abbiamo girato per tre mesi e mezzo, con ritmi intensi. Il primo ciak è stato a marzo, con 5°C e l’ultimo a luglio con 40°C. Per non parlare di tutte le difficoltà legate alla pandemia…
E il committente, Sky, come si è approcciato con voi?
Devo dire che sono stati molto attenti. Hanno compreso subito il pitch ed è stato bello farlo con loro, perché ci hanno ascoltati. Abbiamo fatto un pitch di venti minuti, nei quali abbiamo spiegato tutta la serie. L’approccio è stato molto costruttivo. C’era una bella energia. Ho fatto tanti pitch in vita mia e spesso i produttori non aspettano la fine dell’esposizione ma anzi intervengono indicando come secondo loro dovrebbe modificarsi la storia o cercando di indovinare come andrà a finire. Tutte cose che, nel galateo del pitch, non dovrebbero essere ammesse.
Nella tua lunga esperienza in materia, hai trovato lo strumento del pitch utile ai fini lavorativi?
L’Italia è una decade indietro rispetto al mercato delle idee. Fino a cinque, sei anni fa i progetti si vendevano secondo criteri differenti. Era la produzione che portava il progetto. Ecco perché difficilmente facevo pitch di idee mie o di film. Il prodotto era già posizionato. Ora, per fortuna, il pitch è diventato uno strumento usuale. Anche se i committenti, paradossalmente, non sono molto formati in merito e quindi capita spesso che interrompano o suggeriscano modifiche senza ancora aver sentito tutto lo svolgimento del progetto. E questo è un grande errore, prima di tutto perché il committente non è autore, ma acquirente. Da noi il problema è che l’idea magari piace e capita che la comprino, scegliendo però di cambiarne gli autori. Per alzare il livello dei nostri prodotti invece, se un autore – magari meno noto – racconta una bella idea, il produttore dovrebbe accettare il rischio permettendo che sia quello a svilupparla. Diciamo che non solo gli uditori, ma anche gli scrittori non sono molto allenati a fare pitch. Dobbiamo tutti rodarci maggiormente.
Come sai, WGI organizza i pitch e durante la pandemia ha dato il via ai BlindNetpitch. Che ne pensi di questa iniziativa?
È fondamentale incoraggiare i ragazzi a fare pitch. Servirebbero più iniziative simili a quelle che fa WGI, per alzare il livello del mercato. Bisogna creare forza lavoro in grado di essere all’altezza della situazione. Servirebbero però, anche dei corsi per chi li ascolta. La forza del committente infatti, è il fiuto. È lui che deve capire se l’idea è vincente o meno. E deve avere la lucidità di realizzare che se non lo è, non basta prendere la storia e cambiarne gli autori, perché se cambi trecento mani, neanche Shakespeare riesce a fare un bel progetto! Il committente non è autore, lo ripeto. Si deve posizionare rispetto all’idea. Se gli piace, la compra, altrimenti no.
In merito ai pitch, che consiglio daresti ai colleghi che ti leggono?
Di non andare a fare i pitch con l’idea di assecondare la volontà del committente. Non chiedere cosa stanno cercando. E’ più fruttuoso, a mio avviso, essere convinti di ciò che si sta andando ad esporre. Perché si tratta di un progetto che è stato ragionato, sul quale lo sceneggiatore ha riflettuto per mesi, curando gli incastri e le svolte. Ecco perché non va cambiato sulla spinta del momento. Poi non quadra più. Non bisogna avere soggezione dell’interlocutore, ma difendere la propria idea perché i gusti cambiano, non sono legge e con questi variano anche le prospettive. Capita anche che il committente non ricordi i suggerimenti che aveva dato nel momento e che, in una seconda analisi, non li apprezzi.
E adesso, dopo questa bella avventura, Barbara riprenderà a fare i suoi adorati pitch visto che sta scrivendo una nuova serie tv. A breve, inoltre, dovrebbero iniziare le riprese del film di Maccio Capatonda, scritto da lei.