Bollettino n. 10
Venezia. Undici Settembre duemilaventuno.
Note a margine
“Le parole, è risaputo, sono il grande nemico del reale” (Joseph Conrad – Under Western Eyes)
Le luci sono staccate. Il palcoscenico è vuoto. Metri e metri di cavi da riordinare, collezione di cime da aggugliare.
La compagnia di giro ha lasciato la piazza, già proiettata vero il prossimo appuntamento della perenne tournée.
Il vento ora ha non solo il dominio assoluto del campo, ma pure la nostra totale attenzione.
Qui lo viviamo ogni giorno, lo attraversiamo o ne siamo attraversati.
Una regata si è presa la scena, poco distante dal retro di quel baraccone da set che era il lungo laguna del Lido.
Scafi in legno, incerti per definizione – per via della loro forma a fondo piatto, dunque senza chiglia a stabilizzarne la corsa – si affrontano in un duello a base di vento, corrente e abilità nel gestire le vele sghembe dal glorioso passato.
L’ingordigia di proiezioni, storie, luci della ribalta, conferenze, esibizione di status e mera aria da bonus vacanza, lascia il posto ad una punteggiatura di alberi in legno e vele colorate.
Dopo il tantissimo rumore, il caos e la stanchezza che deriva dal gestire il troppo, ora l’unico suono è il sibilo del vento nel sartiame.
Un silenzio che si farà prima ossessivo e inquietante, poi ordinata punteggiatura di giornate scandite dall’anno scolastico.
Mancherà. Certo che mancherà.
Qui, periferia dell’impero, colpisce la mancanza di gradualità. Si passa dal vuoto, dall’assenza, al troppo pieno, all’occupazione manu militare del suolo e del tempo; dalla desolante constatazione di una solitudine al totale sequestro della nostra attenzione, fino a stordirci con l’eccessiva opulenza e le vestigia del potere.
In fondo, in tutti quei territori che non sono la capitale dell’impero, ci basta non sentirci figli di un dio minore. O forse, prosaicamente, ci bastano film commission che sappiano lavorare e una nuove schiere di produttori, capaci di interpretare nuovi mondi – anche economico legislativi. Insomma, ci basta che il campo non sia desolatamente vuoto – o eccessivamente spopolato.
Queste sono state giornate all’insegna di sguardi appassionati, della consapevolezza di professionalità, di tempi, di percorsi. Dell’importanza di riconoscere il valore base, che di una cosa si parla: di lavoro. Certo, un lavoro che alcune anime candide (possibile che lavorino tutte nel cinema?) definisce ancora strano, e forse anche per questa continua mancanza di consapevolezza trattato perennemente senza la necessaria considerazione. No script no film, ovviamente. Ma, ahimè, non troppo ovviamente.
Il gradiente fondamentale, la brace che resta luminosa in mezzo a cumuli di cenere, si chiama passione. Alcuni lo chiamano amore.
E’ vero: all you need is love. O forse: all you need is work.
Dalla Laguna di Venezia, 45°26’23”N 12°19’55”E è tutto.
Il diario di bordo di quest’avventura distopica si chiude qui.
Un saluto a tutti.