Bollettino n. 8
Venezia otto settembre duemilaventuno. 24 gradi centigradi. Vento di otto nodi da centododici. Estsudest.
Puoi dire che il vento viene da centododici gradi, e dici una cosa esatta. Ma non sempre hai uno strumento con te. Non sempre si può sapere la realtà nella sua interezza, nel dato. Se sei per strada, o in barca, e devi definire da dove viene il vento, puoi dire estsudest. È esatto allo stesso modo. Ma non del tutto allo stesso modo. Perché estsudest è l’esatta definizione di una “naturale” imperfezione. Il dato puro non esiste, ma esiste una approssimazione accettabile.
Come al solito, la parola – più che il dato – disegna l’esattezza. Nel senso che è impossibile sapere, e dunque non possiamo che raccontare.
È in questo groviglio inestricabile di precisioni cercate, direzioni di marcia presunte, orizzonti forse individuati – e loro approssimazioni, imprecisioni, correzioni di rotta – che ci muoviamo.
Un nuovo e stimolante promontorio, su cui fare un punto nave, si profila.
Sceneggiatore che non possiamo più definire giovanissimo, ma che certo giovane è, ha cominciato davvero prestissimo e dunque sono più di vent’anni, ormai, che lavora con continuità. La qualità non gli è mai mancata. Ora sta pure raccogliendo premi importanti. E’ passato al volo alla Biennale D’Arte Cinematografica per la presentazione dell’ultima fatica.
“Beh, dai, a me sta andando bene” dice con voce franca e asciutta. “Sono contento del lavoro. Riesco a raccontare quello che mi interessa davvero.” “Ti rendi conto che non è una condizione così diffusa, questa?” silenzio di valutazione “Beh, si…, in effetti non so. Metti quest’ultimo lavoro: si basa sulla credibilità dell’autore, del regista, con cui ho lavorato. E io ho sempre lavorato con autori di questo genere – ovvero persone che con la qualità del loro lavoro si sono ricavati la loro credibilità, ovvero l’ingrediente che rende possibile la realizzazione di un nuovo progetto. Perciò questi autori hanno una loro importante autonomia. È cinema, e loro sono autori; la produzione è decisamente meno invadente che nella televisione… insomma non so; è una serie di fattori. Fatto sta che io riesco a raccontare quello che mi interessa. È bello.”
Una delle caratteristiche di Marco, da quando me lo ricordo – in un bar a berci un’ombra al mattino presto, molti anni fa – è un senso quasi velato di candore; un candore che potrebbe far pensare all’ ingenuità. È una peculiarità della sua terra d’origine, questa sensazione. Come al solito, non tutto è come sembra. Ma resta il fatto che a sentirlo parlare spedito, di Marco ricordi il senso di aderenza alle sue convinzioni. È un vestito buono così com’è. Non serve cercarne altri, perché non serve cercare altri scopi o altri percorsi. Non è ingenuità, ma semplicità nell’esposizione. Direi chiarezza nelle idee.
Proseguiamo. Parliamo anche di cose tecniche. “Si, è vero, un film richiede circa un anno. Anche di più, in alcuni casi. E dunque si, sarei davvero favorevole anche io ad un maggior riconoscimento economico per lo sceneggiatore. Perché, non essendo pagati abbastanza, dobbiamo prendere più lavori nello stesso tempo. E questo a discapito di quanto vorremmo fare bene una storia alla volta”.
“Dicevi che è un buon periodo per te. Lo dici anche del sistema che vedi attorno a te?” “Si, secondo me in questo momento le cose vanno bene per il cinema italiano. Lo dico non solo come quantità, ma anche come considerazione. Per esempio all’estero. Mi sono capitate situazioni di lavoro all’estero e ho sempre colto una grande attenzione e considerazione per il nostro cinema. In effetti, lo dico anche da spettatore, io riesco a vedere dei buoni lavori” “E questa considerazione per il cinema italiano riguarda anche gli sceneggiatori?” “Beh…” risata amara, con tendenza all’imprecazione sottintesa. Da veneti ci capiamo senza nemmeno il bisogno di esprimerla. “…In effetti è vero che mi sembra che le cose peggiorino. Una volta ad un festival protestai perché nel presentare il film non era stato fatto il nome degli sceneggiatori. Mi risposero che se dovevano fare il nome dello sceneggiatore allora dovevano nominare ogni singolo tecnico che aveva partecipato al film… sconfortante. Proprio l’abc della consapevolezza. Senza di noi non c’è storia. Mah…”
Ma non ha finito. Si sente. “E poi, mica solo i festival o le piattaforme che nemmeno ti citano; anche i produttori…” “Ovvero?” “Beh, mi capita non poche volte che mi chiamano; un sacco di belle parole. Io dico ‘preparate il contratto e poi partiamo’. A volte si perdono mesi. Poi firmiamo. E subito ‘allora ci dai qualcosa tra pochissimo, va bene? Tanto, dai, per scrivere sei veloce…’. Capisci? Come se scrivere una storia, con tutto quello che comporta, per loro fosse una cosa che fai così, a comando…” “Ok, dunque c’è da fare su questo” “Si, decisamente. È fondamentale che gli autori siano in grado di fare massa critica e di poter, finalmente, dare anche degli argini”. Iin che senso?” “Per esempio sull’ingordigia. Io sento sempre una maggiore pressione per ‘sottomettere’ lo sguardo autonomo dell’autore…” “Beh, sottolineo di nuovo che il problema di preservare l’autonomia dell’autore è un problema da grasso che cola, un problema non certo comune…” “Si ma guarda che anche il mondo autoriale, di cui io, per fortuna, faccio felicemente parte, ha i suoi problemi. Per esempio, e non scherzo, a volte si sente il problema dell’essere ‘un genere da festival’. Non so se riesco a spiegarmi. È un problema reale. E lo dico perché la battaglia da fare – sempre – è quella di cercare di essere liberi. E intendo liberi da tante cose, da molti condizionamenti”.
E’ un piacere ragionare a tutto campo, e si fanno anche le necessarie valutazioni sulla differenza con altre epoche di autori – possiamo sommariamente dire, “le generazioni precedenti” – che avevano i loro pregi e difetti. “Si, certo, ognuno aveva i suoi difetti. Però tieni presente che anche loro hanno contribuito a lottare per darci la possibilità di avere uno sguardo libero, il più libero possibile. Ed è questo, in fondo, quello che dobbiamo fare: avere uno sguardo libero, sincero e profondo sulla realtà che ci circonda”. “Ecco, a proposito: per te che senso ha parlare di ‘generi’?”. “Beh, come ti dicevo, io sono fortunato perché sto in questo mondo qui, quello degli autori. Dunque non posso parlare veramente di generi. Mi viene in mente quello che mi ha detto una volta un grande autore mentre compilavamo i fogli del ministero per presentare il film. Alla casella ‘genere’ gli chiesi che genere era il film che stavamo scrivendo. Lui mi ha risposto ‘Scrivi: genere storie di esseri umani’. Ecco, dovremmo tutti scrivere solo un genere: storie di esseri umani.” Discutiamo allora più approfonditamente sui generi. Il genere come “vassoio” in grado di veicolare contenuti – ma anche il genere come specchietto per le allodole. Marco ci tiene a specificare “Vedi, a volte vedo gente che ha una gran voglia di prendere una macchina da presa e di girare qualcosa. Ma non ha gran che da dire. E allora usa il genere come canovaccio facile, come paravento per nascondere il poco lavoro di approfondimento”.
Si, è questo, ancora una volta, il fulcro, la chiglia che sento tenere in piedi la nave: una passione che è passione nell’andare a fondo. Una profonda, autentica, necessità di scavare nell’essere umano e in quelle dinamiche chiamate vita.
“Ma si, è questo il punto, secondo me: bisogna avere qualcosa da dire. Ma qualcosa di profondo, che nasce dall’osservazione attenta di quello che hai attorno. Il cinema è una riflessione sulla realtà, su se stessi, sulla vita. L’innamoramento del ‘genere’ può tendere a svuotare la ricerca di un senso. Tieni presente che l’industria, il mercato, la distribuzione: tutti hanno l’esigenza di inscatolare ogni cosa in definizioni. Ma la posizione dell’autore dev’essere quella di dire: ‘Io non so che tipo di film sia questo; lasciatemi lavorare’”.
E così torniamo là, sull’autonomia dell’autore e sul suo percorso felice.
Il richiamo della foresta – ovvero la famiglia – detta la fine dell’incontro. L’importanza della ricerca della libertà da ogni genere di condizionamento rimane l’ultima cosa che ci tiene a dirmi.
Me lo vedo nel gesto di incurvarsi leggermente nel passare sotto una trave bassa, o nel sistemare le cose in macchina per il figlio. Me lo immagino, tra un po’ di anni, con quella curva gentile che prendono le persone alte ad un certo punto della vita, come disegnate dalla pazienza di piegarsi alle esigenze di una vita con gli altri che non è della propria misura precisa, ma tant’è. Insomma me lo vedo gentile com’è ora, addolcito nelle esclamazioni, disegnato dagli anni.
Non so che tipo di vento sia Marco. Non esistono strumenti per misurare le persone. Però so che il suo vento arriva dal quadrante delle persone gentili. Un quadrante che sa di rosso in bicchieri tozzi, di aria di campagna e sguardi franchi.
Buon vento Marco. Alla prossima.