Non volevamo essere polarizzanti
Menotti racconta “Zero” e i ragazzi italiani di seconda generazione
In questi giorni è stata rilasciata su Netflix la serie “Zero”, creata da Menotti e scritta insieme ad Antonio Dikele Distefano, Stefano Voltaggio, Massimo Vavassori, Carolina Cavalli e Lisandro Monaco.
Tra la fine della fase di scrittura e la sua messa in onda, è trascorso quasi un anno. Causa Covid, ça va sans dire.
Abbiamo chiesto quindi al nostro socio Menotti (Roberto Marchionni) cosa pensi della serie, adesso che è finalmente sulla piattaforma.
Zero è abbastanza diverso da come l’avevamo scritto in origine. La stesura delle puntate è terminata alla vigilia delle riprese, che sarebbero dovute cominciare a marzo 2020, ma a causa del Covid è saltato tutto. Sei mesi dopo, il set è stato aperto non più nella periferia milanese – dalla quale avevamo preso ispirazione per la scrittura – ma a Roma, dove è stata ricreata quell’atmosfera all’interno di zone industriali dismesse. Inevitabilmente, molte linee narrative hanno dovuto essere adattate o riscritte. Io ho creato la serie e diretto la writers’ room, mentre Antonio Dikele Distefano e Stefano Voltaggio l’hanno seguita anche sul set, praticamente lavorando da showrunner.
Succede spesso infatti, che il creatore di un progetto, poi non lo segua in ogni suo passaggio. In questo caso, come l’hai vissuta?
Beh, era già previsto. In ogni caso, al di là dei problemi di Covid, location saltate e linee narrative sacrificate, sono orgoglioso di aver raggiunto l’obiettivo che mi ero prefisso: raccontare una realtà molteplice che è invariabilmente rappresentata in maniera polarizzata. Parlo dei giovani italiani di seconda generazione (con origini soprattutto africane, sudamericane o balcaniche, ndr), abitanti delle periferie, che la propaganda di destra rappresenta come sfaticati, se non piccoli criminali, e quella di sinistra come vittime di razzismo e discriminazione – come se non potessero fare altro nella vita. Entrambe sono rappresentazioni a bassa risoluzione della realtà.
Gran parte del merito va ovviamente ad Antonio – autore del libro cui si ispira il mondo di Zero. Tramite lui abbiamo incontrato i ragazzi della Barona (la zona di Milano in cui è ambientata la serie) e fin da subito siamo rimasti colpiti dal loro attaccamento al quartiere. Tanto che il plot della prima stagione – la storia di un ragazzo che sogna di partire, ma finisce per restare e salvare il quartiere dove è nato – è venuta fuori da lì. Gli incontri con quei ragazzi di etnie differenti, accomunati dall’amore per il luogo che chiamano “casa”, sono stati decisivi. Sono nati qui, sono italiani, legati al posto nel quale vivono da sempre.
Non volevamo raccontare la discriminazione, il degrado o le violenze in stile banlieue. Non volevamo replicare le atmosfere de L’odio di Kassovitz. Soprattutto, non volevamo essere polarizzanti: abbiamo raccontato questi ragazzi come avremmo raccontato i loro coetanei italiani da sette generazioni. Ironicamente, un approccio completamente nuovo.
Com’era organizzata la writers’ room?
Io ho fatto da headwriter al gruppo di scrittori assemblato in accordo con Netflix. La committenza ci ha incoraggiato a inserire gli autori più giovani, mostrando grande sensibilità per i temi, il linguaggio e i mezzi di comunicazione attuali, in particolare i social network. È così che ho conosciuto Carolina Cavalli, di cui ho apprezzato il talento. Sentiremo parlare di lei.
Tutto è cominciato con la chiamata di Stefano, che insieme ad Antonio stava già pensando a una serie sui ragazzi di seconda generazione. Netflix era molto interessata, ma serviva un’idea forte su cui lavorare. Ho suggerito di prendere il mondo di Antonio e metterci dentro un supereroe.
Essendo fumettista, hai attinto anche dal tuo mondo e ripreso un po’ lo schema di Jeeg Robot?
Certo. Anche lì, lo scontro di due immaginari lontanissimi ha dato luogo a qualcosa di originale. A me piace lavorare con gli stereotipi, sono un ottimo punto di partenza per creare storie avvincenti. Nei fumetti, un mezzo espressivo pop, inserivo riferimenti alti: Borges, Rilke, la pittura del Rinascimento. In Jeeg Robot è stato il contrario: nell’immaginario alto del neorealismo italiano abbiamo inserito quello pop dei supereroi americani.
In Zero, una storia di ragazzi neri di periferia, ti immagini di aver capito già tutto. Poi invece, i superpoteri del protagonista innescano reazioni chimiche che danno luogo a svolte inaspettate.
Ti piace lavorare in gruppo? Com’è stata l’esperienza con la writers’ room?
Si sprecavano gli Ok, boomers! È stata una bella esperienza, condotta in gran parte nel Coworking di WGI. Poi Fabula ci ha procurato un appartamento, nel quale viveva Antonio quando veniva a Roma, e allora ci siamo spostati lì. Abbiamo lavorato gomito a gomito, mantenendo ognuno le proprie peculiarità e differenze, ma sempre in armonia.
La piattaforma è intervenuta sulla scrittura?
La linea editoriale ha avuto qualche vicissitudine, non solo a causa del Covid, ma anche per gli avvicendamenti ai vertici della piattaforma. Fino a che ho lavorato io, il team aveva come editor Felipe Tewes, il responsabile Netflix Europa. Dopo il lockdown, con l’arrivo di Tinny Andreatta, il referente principale è stato Ilaria Castiglioni. Siamo partiti a scrivere una serie teen, poi Felipe ci ha chiesto di alzare l’età dei personaggi, che dal punto di vista drammaturgico non è una banalità. Successivamente, l’età si è abbassata di nuovo. Alla fine, nonostante tutto, sono contento sia rimasto intatto l’impianto iniziale che ha al centro un ragazzo di colore, italiano di seconda generazione, né criminale né vittima sacrificale.
Che ne pensi della battaglia degli sceneggiatori di Wgi per avere maggiore visibilità? Conosci la campagna #NOSCRIPTNOFILM? A te è mai capitato di avere problemi in tal senso?
Ho aderito con entusiasmo al fronte di resistenza umana e professionale. Nel mio contratto, vecchio di due anni, non c’erano le clausole delle quali si parla in questi giorni. Fra quelle introdotte da Netflix, trovo particolarmente vessatoria la clausola che punisce lo sceneggiatore per violazioni vere o anche presunte di un codice etico che non conosce nessuno. Siamo nell’anticamera del ministero della propaganda.
Durante il lavoro, ho scampato per un pelo il seminario di diversity, inclusivity ed equity organizzato da Netflix. Ora se idealmente posso apprezzare gli sforzi per ampliare e diversificare pubblico e dipendenti, combattendo ogni discriminazione, non sono convinto che i corsi di rieducazione civica siano la strada giusta, tanto più se ispirati ai principi delle identity politics, in voga negli USA, che considero particolarmente odiose. Il tema delle minoranze è sviluppato su base strettamente identitaria, sottolineando le differenze e i motivi di conflitto tra gruppi sociali, invece di dare risalto a valori e interessi comuni. Ma l’Italia non sono gli Stati Uniti. I problemi dei neri americani non c’entrano nulla con quelli dei ragazzi di Zero. Questi ultimi si sentono innanzitutto italiani. Non hanno alcun interesse a rivendicare particolari differenze rispetto ai loro coetanei bianchi. È un vizio americano, credere di parlare per tutto il mondo.