Sulla mia pelle
Buongiorno, Lisa. Di cosa tratta SULLA MIA PELLE?
È il racconto degli ultimi sette giorni di vita di Stefano Cucchi, dal giorno dell’arresto, il 15 ottobre 2009, al giorno in cui viene ritrovato senza vita, la mattina del 22.
Hai scritto questo film insieme ad Alessio Cremonini, che firma anche la regia. Com’è andata? Conoscevi già Alessio?
No, non conoscevo Alessio di persona ma avevo visto il suo esordio, BORDER, che raccontava della guerra in Siria dalla prospettiva di due sorelle, e mi era piaciuto molto. Mio padre è giordano di origini siriane, per questo sento un legame forte con le storie che raccontano il mondo mediorientale. Perlomeno da spettatrice, da autrice ho molta reticenza a scriverne. Nell’aprile 2016 sono stata chiamata dalla produzione (CinemaUndici ndr) per affiancare Alessio a partire dal soggetto che lui aveva scritto. Olivia Musini aveva letto altre cose mie, intuiva che questa storia era nelle mie corde e che non mi spaventava un lavoro di documentazione di questa mole. Il soggetto iniziale era già molto buono ma Alessio voleva ripartire verificando e studiando tutti gli atti del processo, convinto che lì dentro avremmo trovato altro. E aveva ragione. Siamo ripartiti dalle fonti, rimettendo tutto in discussione.
Prima di essere coinvolta, avevi seguito il “caso Cucchi”?
Sì, era una storia che avevo seguito fin da subito, mi aveva molto addolorato, forse perché anche io ho un fratello minore e non riesco nemmeno a pensare di ricevere una telefonata simile. Dopo mi sono resa conto che quanto sapevo inizialmente era nulla rispetto a quanto riportato nelle carte. Molte volte mi sono trovata poi a leggere sui giornali inesattezze, se non notizie completamente sbagliate. Era la prima volta che potevo verificarlo perché mai avevo avuto un accesso così diretto alle fonti. Questa considerazione me la sono portata a casa come insegnamento per la vita: anche quando crediamo di essere informati, in fondo non lo siamo. Certo non possiamo documentarci su tutto, ma basta ricordarmi questo per tacere qualche volta di più.
Facci un esempio di qualcosa che hai scoperto nelle carte.
Beh ce ne sono mille, soprattutto dettagli e sfumature, ma in una storia così complessa i dettagli sono fondamentali, anche a spostare il peso della colpa. Comunque, la prima cosa che mi viene in mente: mai avrei immaginato la sequela di tentativi, tutti falliti, della famiglia di incontrare Stefano durante i giorni successivi all’arresto. I familiari vengono rimbalzati ogni giorno, da un tribunale a un carcere a un ospedale, ogni volta con un motivo diverso, di orari di visita, timbri che mancano, permessi che devono arrivare. Si può dire che volessero tenerli alla larga? Forse, ma io credo che la cosa ancora più diabolica sia che forse non c’era nemmeno questa volontà, forse il Male in questa storia si annida proprio tra le pieghe kafkiane della burocrazia e tra l’ignavia dei più. Parlo del Male della seconda parte della storia, la prima ha dei colpevoli ben precisi… Quindi l’iperdocumentazione a cui ci siamo sottoposti è stata straziante, perché troppo spesso ci trovavamo a bruciare di rabbia e incredulità. Mi viene in mente ora un’altra delle tante coincidenze terribili: quando il padre riceve la chiamata di Ilaria di tornare subito a casa, aveva appena ottenuto il permesso timbrato per poter finalmente vedere Stefano. Aveva il foglio in mano, e gli dicono che il figlio è morto. Se ti immedesimi in un momento così, come fai?
Come avete organizzato il lavoro?
Durante la fase di documentazione, nell’estate 2016, ci sentivamo ogni tanto per fare il punto. Dopodiché ci siamo chiusi in una casa in campagna con tutto il materiale e in dieci giorni abbiamo scritto una scaletta ultra-dettagliata. In quella fase per noi era importante fissare gli snodi narrativi e tenere traccia delle due linee parallele: l’evoluzione della salute di Stefano e i tentativi della famiglia di rivederlo. Soprattutto la prima procedeva attraverso particolari minimi, sapevamo tutto e tutto ci sembrava importante: sapevamo che aveva bevuto un bicchiere d’acqua esattamente in quel dato momento, che quell’infermiere era entrato a quell’ora a fare quel dato esame, che su quella cartella quel dato era stato cancellato, e così via. Incrociavamo tutte le testimonianze per capire quale versione era condivisa, quali punti erano controversi. Era celiaco? Aveva davvero rifiutato il riso il martedì? E la pompa antalgica, ci crediamo o no che l’abbia rifiutata? Ma possibile davvero che non abbia voluto cambiarsi, o forse il borsone dei vestiti non gli è mai arrivato? E poi, se crediamo che abbiano chiamato un oculista esterno, allora i medici non volevano nasconderlo… Mille domande, ogni scelta che prendevamo presupponeva dare un’interpretazione. A un certo punto ci siamo resi conto che stava diventando un’ossessione, e che non avremmo potuto restituire la mole di quello che stavamo scoprendo, almeno non dentro a un film. Ma non riuscivamo a staccarcene, ogni taglio ci sembrava un tradimento alla verità. La prima stesura infatti era mastodontica, la faccia di Olivia Musini alla prima riunione dopo che l’aveva letta ci ha dato l’idea di quanto ci fossimo fatti prendere la mano…
Appunto, come vi siete regolati per passare alla fase di sceneggiatura?
Dalla scaletta ci siamo divisi il film per blocchi e abbiamo scritto a distanza, inviandoci a vicenda le scene per riscriverle e limarle, finché non siamo arrivati alla nostra 1a Stesura. Ci sono voluti poi altri due mesi per la 2a, ancora troppo lunga, e poi poche settimane per la 3a, che invece ha subito convinto tutti. Eravamo riusciti a abbandonare tutte le cose a cui tenevamo e era rimasto solo lo stretto necessario. Finalmente aveva ritmo, era tesa.
Se dovessi identificare la vostra maggiore difficoltà durante il lavoro…?
La prima difficoltà tecnica è stata gestire le diecimila pagine, che sono arrivate sotto forma di centinaia di file PDF. PDF di fotocopie. Quando l’ho capito sono rimasta muta a fissare lo schermo per mezz’ora, a chiedermi “e mo?”. Avevo bisogno di stralciare, sottolineare, selezionare pezzi e metterli in connessione, ma con dei file PDF come fai? Non puoi fare ricerche, non puoi nemmeno ritrovare una frase che hai letto, devi continuamente prendere appunti. Quindi è servito un tempo per crearci un archivio, un indice per poterci orientare su un materiale su cui dovevamo ritornare milioni di volte. Poi Alessio ha stampato tutto, e lì appoggiandoci sulle carte raccolte in una decina di faldoni perlomeno potevamo sottolineare e mettere segnalibri. Quindi si è proceduto molto “old school”, grosse lavagne e post-it ovunque. Per mesi ho avuto il pavimento di casa sparpagliato di carte, non c’era altro modo per avere sott’occhio tutto quel materiale. La seconda cosa più difficile in scrittura, poi, è stata mantenere la giusta distanza, cercando di rispettare i punti di vista dei diversi protagonisti della storia. Oltre alla vittima, volevamo raccontare la famiglia della vittima, i carnefici e tutto il coro dei testimoni, coloro che pur non essendo colpevoli non hanno reagito, né fatto nulla. Ma senza essere forcaioli: un mio terrore era che lì in mezzo ci potesse anche essere qualcuno completamente innocente, che per questa storia aveva già subito e pagato molto. Non volevo certo che una nostra superficialità o pregiudizio riaprisse ferite a chi magari non le meritava. Questo scrupolo di coscienza, ora che ci penso, è stata la cosa più difficile da gestire per me.
Come avete individuato il tono giusto del film?
Il tono del racconto non è stato semplice da trovare, ne abbiamo parlato moltissimo, condividendo modelli e cercando una sintesi: Alessio partiva da “Un condannato a morte è fuggito” di Bresson, io da “Hunger” di Steve McQueen. E poi ovviamente “Salvatore Giuliano”, “Sacco e Vanzetti”, ci siamo rivisti tanto cinema civile che entrambi amiamo. Ma presto abbiamo capito che questa storia si avvicinava di più a toni alla Mungiu o alla Farhadi, per come partono dal piccolo, da un accidente banale, per raccontare in che modo un sistema di regole influenzi la collettività, e viceversa. Volevamo raccontare come le cose erano successe, senza giudizio né enfasi. Una cronaca. E infatti il titolo di lavorazione che ci siamo portati appresso durante quasi tutta la scrittura era “Cronaca di un arresto”. Uno dei tanti, una prospettiva piccola da cui raccontare lo Stato.
Qual è stato il momento decisivo nel vostro processo di scrittura?
L’incontro con Ilaria e i genitori di Stefano. I genitori ci hanno aperto casa, ci hanno letteralmente fatti entrare nel loro dolore. Quando sono entrata nella camera di Stefano è stato il momento più duro: perché era la camera di un ragazzo vivo. Il suo letto, i suoi vestiti, le foto appese al muro. Era come se fosse uscito da lì la sera prima. Lì ho sentito tutto il peso della mancanza, e della responsabilità. Pur con le migliori intenzioni, noi stavamo riaprendo la loro ferita, bisognava fare un lavoro all’altezza, che non lo rendesse vano. E un film di cui potesse essere fiero anche lui, questa è la cosa che mi sono promessa quel giorno in quella stanza. Era un ragazzo, non voleva diventare un’icona, ma se proprio doveva diventarlo che almeno fosse un’icona figa, passami il termine. Non un santo né un martire, un ragazzo con le sue fragilità, il suo sarcasmo un po’ sbruffone e una disperata voglia di essere apprezzato, capito, aiutato. Ma anche di farcela da solo, da giovane uomo un po’ orgoglioso. Dalla conversazione con loro sono poi venute fuori le scene più tenere, la mia preferita forse è una scena in macchina – la chiamavamo la scena della parmigiana. Ilaria ci aveva raccontato che una volta per conquistare una ragazza Stefano le aveva portato una parmigiana di melanzane al bar dove lei lavorava. Perché Stefano cucinava bene, aveva imparato in comunità. Così abbiamo trovato il modo di raccontare questa storia dentro una delle poche scene che ci siamo dovuti immaginare, nel dialogo con l’amico appena prima dell’arresto. È una cosa piccola ma io la trovo molto tenera, rivelatrice di un animo dolce, sbruffone e un po’ infantile.
A Venezia si è parlato di SULLA MIA PELLE sia come esempio di nuovo cinema civile che come proposta di un film drammatico con elementi di genere. Quale centro tematico volevate dare al vostro film?
Guarda se dovessi riassumere SULLA MIA PELLE direi che è la storia di un distacco famigliare, in cui tra un ragazzo e la sua famiglia si frappone lo Stato. Tanto per rimanere in tema di titoli, durante la scrittura ne avevamo immaginati vari e tra i miei preferiti c’era “Le leggi degli uomini”. Perché un riferimento di partenza era chiaramente l’Antigone, ovvero una storia che narra come le leggi scritte dagli uomini talvolta risultino inumane. E perché la nostra storia raccontava di uomini, di maschi, che reagiscono provando la loro forza su un loro simile più debole. Insomma sentivo la centralità del discorso sul sistema di regole che governano le persone, regole scritte e regole del branco. Poi (per fortuna direi) si è scelto “Sulla mia pelle” perché un altro grande tema era la dimensione corporea, il corpo di Stefano come resto e come testimonianza. Ed è stato il titolo più giusto, considerando la spaventosa prova d’attore che ci ha regalato Alessandro Borghi, che questo film se l’è proprio caricato sulla pelle.
Come sono entrate nel progetto Lucky Red e Netflix?
Lucky Red è entrata dopo aver letto la terza stesura di sceneggiatura, quella buona. Non ha fatto note, siamo entrati subito in produzione. Netflix dopo le riprese, a film finito.
Durante la fase di scrittura pensavate al budget?
No, assolutamente, ma col senno di poi forse avremmo fatto meglio! Ci sono parecchie cose che sono state tagliate durante il piano di lavorazione, alcune delle quali all’epoca mi avevano fatto soffrire. Proprio perché come ti dicevo, già i tagli in sceneggiatura li avevamo vissuti come tradimenti alla verità, e io ingenuamente pensavo fosse finita lì… Esperienza acquisita: non si finisce mai di tagliare!
Cosa ti spiace di più aver perso?
Il cane Miki. Stefano era col suo cane al momento dell’arresto, e per tutta la detenzione si preoccupa di che fine abbia fatto, teme persino che i genitori l’abbiano dato al canile (e invece lo stanno curando amorevolmente). Risparmiare su una posa di cane all’inizio ha comportato sfilare ogni riferimento a Miki lungo tutto il film, e mi è dispiaciuto molto, perché era un modo di far percepire la sua solitudine, il suo sentirsi abbandonato, senza doverlo dire direttamente. E poi lui ci teneva tantissimo, correva col cane, lo legava fuori dalla chiesa, se ne prendeva molta cura. Almeno qui che siamo tra sceneggiatori capitemi: se uno ha letto “Save the cat”, poi si sente male all’idea di tagliere il dog, soprattutto se il dog esisteva.
Nel tuo curriculum ci sono esperienze diverse, tra teatro, radio, intrattenimento tv, serie. Percepisci più differenze o analogie tra queste forme di scrittura?
Cambia totalmente il modo di scrivere per una ragione più delle altre: cambia la gestione del tempo. Quando scrivevo per la radio o per la televisione, ogni mattina dovevo produrre cose (in quel caso perlopiù pezzi satirici o comici), qualsiasi cosa fosse accaduta a me o al mondo. È stata una palestra incredibile, ma anche faticosissima. Io ho bisogno di tanti spazi vuoti, di non parlare con nessuno anche per giorni, la condivisione frenetica non fa tanto per me! Con il cinema e la fiction invece per due o tre mesi sei assorbito da un progetto, ma hai modo di gestire il tuo tempo un po’ più a maglie larghe. SULLA MIA PELLE è stato un unicum, otto mesi in cui ho fatto solo questo, un’immersione totale – e straziante- in cui la sera faticavo anche a uscire tanto ero svuotata. Forse si poteva gestire diversamente, immagino di sì, io non ce l’ho fatta. Per fortuna i risultati adesso ripagano di tutti gli sforzi.
Con SULLA MIA PELLE avete aperto la sezione Orizzonti del Festival di Venezia. Come è andata?
Benissimo. Quello che sta succedendo ora non lo potevamo prevedere, ma l’accoglienza ricevuta a Venezia ci aveva subito fatto capire che avevamo toccato un tasto a cui moltissimi erano sensibili. Forse anche il momento storico che stiamo vivendo, così stupido e cattivo, ha influito. C’è molto bisogno di sentirsi parte di qualcosa, o di opporsi a qualcosa, è evidente che questo film stia catalizzando un sentimento collettivo. Ma anche la rassegna stampa straniera è stata ottima, evidentemente tocca corde – purtroppo- universali.
Il nostro sindacato si batte perché venga riconosciuta agli sceneggiatori l’importanza del proprio ruolo, mentre spesso i loro nomi non vengono menzionati. Cosa ne pensi?
Penso che sia una battaglia sacrosanta, che spesso non abbiamo il coraggio di combattere per paura di sembrare narcisisti. Ma non è vanità, è rispetto per sé stessi e per il proprio lavoro. Per questo io nel mio piccolo cerco di sforzarmi e reclamare quello che sento giusto, anche se attorno tutti mi dicono che la prassi funziona diversamente. Le prassi vanno cambiate, migliorate, perché spesso le prassi (come a volte le leggi) hanno consolidato storture. Quindi tornando a Venezia, per me sono stati giorni magnifici, ma se devo analizzare dal di fuori come è andata l’esperienza da sceneggiatrice del film di apertura di Orizzonti te la riassumo così: non ospitata, non nominata al “Sono presenti in sala” durante la proiezione (e queste due le sapevo, altri colleghi mi avevano avvisato), ma non prevista nemmeno al tavolo della conferenza stampa (e questo lo trovo abbastanza grave), né al tavolo del nostro film alla cena di gala per Chazelle (e questo lo trovo talmente comico che lo dico per farvi fare due risate). Lo so, in questi casi si dice sempre “Se chiami lo sceneggiatore poi dovresti invitare anche il direttore della fotografia, il montatore, ecc…”. Sì, esatto, sarebbe bello invitarci tutti. Ma diciamolo: lo sceneggiatore merita un pochino di più. Non per altro, ma perché lavora prima, quando tutto può ancora sfumare, e lavora tantissimo. Lo sceneggiatore scommette insieme al regista, è lì dal primo minuto. Uno spritz e un fegatino (e un applauso in sala) se lo merita, e su’.
Grazie, Lisa.
Grazie a te.